Accedi Registrati

Login to your account

Username *
Password *
Remember Me

Create an account

Fields marked with an asterisk (*) are required.
Name *
Username *
Password *
Verify password *
Email *
Verify email *

La sinistra e gli operai. Nemmeno quando la sinistra si chiamava socialista e comunista parlava solo alle questioni materiali. I consensi, gli iscritti, la militanza non scaturivano soltanto dalla fredda gerarchia dei bisogni. Pane e rose, utopia e concretezza, impostazione ideologica e pratica riformatrice. Al momento alla sinistra mancano entrambi i pedali.

Murales a Parigi

 

Murales a Parigi  © Tore

Ha fatto discutere la pubblicazione di una impegnativa inchiesta di Ipsos sul voto operaio. E – cosa abbastanza nota – la conferma che il 28 per cento degli operai italiani vota la Lega. Il Pd e complessivamente la sinistra – Articolo Uno compreso – non arrivano al 12 per cento. Ne ha parlato anche Peppe Provenzano in una coraggiosa intervista sul manifesto. Eppure non si può rimuovere che la frattura a sinistra con i propri riferimenti tradizionali viene da lontano.

Nel 1994 i progressisti perdono a Mirafiori nonostante la candidatura di un ex comunista come Sergio Chiamparino. Scatta l’allarme rosso, ma i buoi forse già erano scappati. Allora il radicamento nel lavoro operaio della sinistra politica era ancora forte ed esteso, ma la contesa con gli avversari si era ormai aperta definitivamente.

Oggi ci percepiscono come lo schieramento dei ceti medi urbani, di un pezzo di società che legge, studia e viaggia, che tutto sommato sta bene. E forse lo siamo. Le nostre istanze incrociano a fatica la maggioranza del popolo delle periferie, che non sbarca il lunario, che vive un sentimento di provvisorietà e di paura del futuro.

La destra li ha conquistati agguantando la bandiera della protezione contro il multiculturalismo e il vincolo europeo. Ha saldato l’incertezza economica con l’incertezza culturale declamando le virtù di una società chiusa, antidoto alla precarietà prodotta dalle insidie degli ultimi della terra. La potenza del mito del sangue affonda le radici nella notte dei secoli. Non è un’invenzione di Salvini né di Le Pen o di Orban. E sappiamo che non basta evocare soltanto un programma più a sinistra per colmare questo gap.

Corbyn – che comunque raggiunge in numeri assoluti gli stessi consensi di Blair – con un programma dichiaratamente laburista perde nelle roccaforti operaie e vince nell’elettorato europeista della Gran Bretagna. Perché nemmeno quando la sinistra si chiamava socialista e comunista parlava solo alle questioni materiali. I consensi, gli iscritti, la militanza non scaturivano soltanto dalla fredda gerarchia dei bisogni. Pane e rose, utopia e concretezza, impostazione ideologica e pratica riformatrice. Al momento alla sinistra mancano entrambi i pedali. Quello dei contenuti: abbiamo ancora il marchio addosso dell’abolizione dell’Articolo 18 – persino chi ha contrastato questo disegno ha pagato un prezzo salato – che rappresenta una ferita mai più rimarginata.

La perdita di potere d’acquisto dei salari, l’esplosione della precarietà, le delocalizzazioni selvagge hanno alzato un muro con larga parte della società, irrecuperabile nel medio periodo se non con una svolta credibile e allo stesso tempo radicale.

Ma latita pure la leva dell’immaginario: un’idea di società nuova, anche a costo di stare seduti dalla parte scomoda della storia. La sinistra non se la cava solo con una proposta elettorale se non allude anche a una pratica egemonica. Significa che “tornare in fabbrica” è una condizione necessaria ma non sufficiente se non coltivi un’idea potente fuori dalla fabbrica. Che sfidi le paure e mandi in soffitta il refrain berlusconiano – che ha conquistato trasversalmente tutti gli strati sociali – “tutti possono diventare miliardari”. Siccome gli elettori non sono stupidi, gli operai sanno bene che nel programma di Salvini c’è la flat tax, ovvero il sogno esplicito delle destre più antisociali e classiste. Pensiamo davvero che siano degli autolesionisti che votano contro i propri interessi?

Purtroppo nel corso degli ultimi tre decenni lo stato è apparso un ufficio complicazioni di affari semplici, la politica una dependance impotente e complice della finanza, il nazionalismo – forse persino l’etnocentrismo – un rifugio contro il globalismo delle classi agiate, i servizi pubblici un moltiplicatore di inefficienza e di clientele, le tasse una vessazione senza alcuna contropartita.

Su questo la destra ha scavato. Se non si riabilita una grammatica dei poteri pubblici, i ceti popolari si allontanano dalla sinistra. E persino dalla democrazia. Senza la ripoliticizzazione del mondo del lavoro – e la campana suona anche per il sindacato – difficilmente si torna a fare società.
I nostri padri definivano la classe operaia – per usare un termine antico – classe generale, dunque pronta alla direzione dello Stato democratico.

È complicato sentirsi classe generale se lo Stato perde peso, se la politica conta poco e di te non parla nessuno. Quando il terreno è così arido la sinistra non può esistere in quanto tale. Resta solo una malinconica forma di progressismo senza radici e forse senz’anima.
Ma può bastarci?

Commenta (0 Commenti)

Cogliamo l'occasione per invitare a firmare la petizione 

https://www.qualcosadisinistra.info/la-parola-a/4112-l-italia-ponga-il-veto-sul-rilancio-del-nucleare-una-petizione

--------------------------------------------

Cop26. Intervista alla senatrice Paola Nugnes 

Paola Nugnes

Paola Nugnes

«È stato come guardare il mondo da una navicella spaziale, e intravedere le parti che lo compongono», racconta Paola Nugnes, senatrice di Sinistra italiana che ha partecipato con una delegazione di parlamentari alla Cop 26.

Che esperienza è stata?
Imponente. Vedere rappresenti nello stesso luogo quasi tutti i paesi delle Nazioni unite, tutti concentrati sullo stesso obiettivo di portata straordinaria: il clima e la salvaguardia del pianeta. Una elefantiaca operazione di coordinamento e diciamolo, di gestione apparente della democrazia, tenere insieme tutte le conferenze e tutte le posizioni su di un unico obiettivo. Appare ancora più chiaro da lì che ci sono disuguaglianze incolmabili, che le colpe dei paesi più potenti ricadono pesantemente proprio sui paesi più deboli ed incolpevoli. Si continua a negare il nesso di casualità sui danni e le perdite. Si continua a spostare la data

Commenta (0 Commenti)

Emergenza clima . Deludente la presenza dell’Unione Europea segnata da ipocrisia e vero e proprio greenwashing. Via libera per autorizzare in modo accelerato infrastrutture del gas fossile, inserite nella proposta di Tassonomia (per definire cosa è “sostenibile”) assieme al nucleare

Manifestazioni per il clima in Portogallo

Manifestazioni per il clima in Portogallo  © Ap

La distanza tra l’urgenza delle azioni necessarie e la lentezza negoziale non è certamente una novità, ma questa volta è scritta nero su bianco. Infatti, guardando tra i pochi aspetti positivi del documento, sopravvive il riferimento allo scenario del contenimento entro il 1,5°C e la conseguente necessità di tagliare del 45 per cento le emissioni di gas serra entro il decennio. Ma il gap tra l’attuale tendenza (di almeno +2,4°C) e gli impegni per realizzare l’obiettivo non ci sono. Si rimanda al 2022 la presentazione dei nuovi obiettivi volontari, in ritardo dunque rispetto alla tabella di marcia fissata a Parigi nel 2015.

La Cop26, lo ricordiamo, si doveva tenere l’anno scorso e fu rimandata causa pandemia. La sua importanza stava proprio nel fatto che, passati 5 anni dall’Accordo di Parigi, era prevista la presentazione di impegni più ambiziosi come previsto dal meccanismo negoziale. Infatti, sin dal 2015 era evidente che l’andamento delle emissioni e degli impegni già assunti portavano verso un aumento molto maggiore della temperatura media globale, ben oltre i 2°C e dunque fuori dall’obiettivo di rimanere “ben al di sotto” di quella soglia e possibilmente verso 1,5°C.

La nota più dolente riguarda il carbone. L’emendamento proposto dall’India di passare

Commenta (0 Commenti)

L’avversione al reddito di sopravvivenza si agita tra gli strati popolari. E il giustizialismo rancoroso è terreno ideale sul quale la destra plebea costruisce le sue fortune

 

Un ampio ventaglio di ragioni e di umori, posizioni teoriche e avversioni viscerali, militano contro il reddito di cittadinanza in Italia. E’ un calderone in cui si agitano i cascami della cultura neoliberista, secondo la quale non esiste la keynesiana “disoccupazione involontaria”, essendo la mancanza di lavoro responsibilità di chi non lo cerca. Come ci ricorda ora il saggio di Mauro Callegati, Il mercato rende liberi e altre bugie del neoliberismo (Luiss,2021). Ma si rinvengono anche opposizioni “di sinistra”, come quelle del sindacato, che teme il dilagare di un assistenzialismo deteriore, destinato ad accrescere la subalternità dei ceti proletari.

Il lavoro, si sostiene, è l’unica leva del riscatto, senza troppe remore a perpetuare così la cultura del dominio capitalistico sugli individui, e tenendo in poco conto che il lavoro non c’è e la sua scarsità è un’arma formidabile in mano ai gruppi padronali. I quali la usano per fare accettare condizioni anche estreme di precarietà, soprattutto ai giovani e agli immigrati, per fare pressione sui governi, per creare egemonia col porsi come dispensatori di impiego e di reddito, i benefattori dell’umanità.

Ho ascoltato sindacalisti criticare il reddito di cittadinanza in Calabria, dove tanti giovani laureati, che arrivano a 30 40 anni con lavoretti, e non hanno la possibilità di fuggire all’estero, oggi sarebbero alla disperazione senza il cosiddetto reddito di cittadinanza. Di cui conosciamo peraltro i limiti e a cui Roberto Ciccarelli ha dedicato su questo giornale analisi circostanziate, sino alla intervista a Chiara Saraceno (10/11), dove si denunciano gli intenti punitivi delle annunciate “correzioni” governative.

Ma esiste anche un’avversione più oscura a questa forma di sostegno alla sopravvivenza, che si agita tra gli strati popolari a cui do il nome di invidia sociale. I lavoratori non sopportano che ci siano nel loro ceto persone retribuite, sia pure in forma modesta, senza fatica e impegno. Trovano intollerabile questa “ingiustizia”. Anche chi è in condizioni di estremo bisogno deve meritarsi il pane, accettando qualsiasi forma di occupazione.

E’ su questo giustizialismo rancoroso che la nostra destra plebea fa le proprie fortune, come le ha fatte con la narrazione degli stranieri che rubano il lavoro agli italiani. Si tratta di un humus culturale pernicioso con cui i gruppi dominanti e il ceto politico che li serve, scatenano la guerra tra gli ultimi e i penultimi, perpetuando il proprio soggiogamento materiale e culturale su gran parte dei ceti popolari.

Un coacervo ideologico su cui l’assenza di uno sguardo radicale impedisce un’opera salutare di demistificazione. E’ esemplare a tal proposito l’imbarazzata timidezza del ministro Orlando di fronte alle recriminazioni per gli abusi emersi nella percezione del reddito. Egli non è riuscito a ricordare ai suoi interlocutori e all’opinione pubblica, che in Italia non si riesce a tassare le grandi ricchezze di pochi, i patrimoni immobiliari di molti, le fortune di una platea estesa di famiglie e si lascia nella povertà milioni di persone che pur lavorano, una fascia crescente di occupati precari, 2 milioni di famiglie in povertà assoluta (dati Istat 2020) mentre si costringono le migliori energie intellettuali del Paese a cercare occupazione all’estero.

Ho conosciuto gli effetti perversi dell’invidia sociale in un ambito “alto” della società italiana, l’università. Allorché incominciarono a circolare le prime notizie sui criteri di valutazione dei titoli scientifici dei docenti da parte di una autorità esterna, che sarebbe poi diventata l’Anvur. E’ apparso evidente che a far accettare l’imposizione di un Moloch burocratico calato dall’alto per il controllo di merito sulle attività dei professori è stato il desiderio di “giustizia valutativa” da parte soprattutto dei colleghi scientificamente più attrezzati e progressisti. Non sopportavano la presenza dei (pochissimi) docenti scarsamente attivi e produttivi o l’avanzamento di carriera di quelli, altrettanto pochi, considerati non meritevoli.

Così un sistema di valutazione affidato ai concorsi e tutto interno a una istituzione secolare, l’autonomia universitaria, gestito dai docenti, e certamente segnato da pecche e punti deboli, è stato abbandonato per sanare queste mancanze. Lo scandalo sollevato dai media sul familismo nell’università, sui concorsi truccati…, ha spinto a buttare via il bambino con l’acqua sporca. Il più antico e uno dei migliori sistemi universitari del mondo è stato avviato alla sua trasformazione aziendalistica secondo i dettami europei elaborati dal cosiddetto Processo di Bologna(1999). Nessuno dei moralisti di allora è stato in grado di sollevare lo sguardo dal pelo nell’uovo per scorgere il superiore disegno di asservimento del sistema formativo europeo alle ragioni della strategia neoliberista della Ue. In assenza della critica sociale un tempo esercitata dal movimento operaio, la grande massa dei cittadini opera così per il proprio volenteroso asservimento alla grande macchina capitalistica.

Commenta (0 Commenti)

Sui limiti ai cortei. In data 10 novembre 2021 il ministero dell’Interno ha adottato una “Direttiva recante indicazioni sullo svolgimento di manifestazioni di protesta contro le misure sanitarie in atto”. È bene sottolineare il titolo, che fornisce la prima chiave interpretativa del contenuto

La protesta No Green Pass a Trieste

 

La protesta No Green Pass a Trieste  © Lapresse

In data 10 novembre 2021 il ministero dell’Interno ha adottato una “Direttiva recante indicazioni sullo svolgimento di manifestazioni di protesta contro le misure sanitarie in atto”. È bene sottolineare il titolo, che fornisce la prima chiave interpretativa del contenuto.

Gli eventi, a Trieste e in altre città, che hanno condotto all’adozione della direttiva sono noti. Nel bel tempo che fu, i partiti o sindacati che organizzavano manifestazioni avevano servizi d’ordine sovente molto arcigni. In qualche modo, condividevano con l’autorità la responsabilità per l’incolumità e la sicurezza pubblica. Ma un movimento come il No-Vax, liquido e autoconvocato via rete, un servizio d’ordine non l’ha né potrà mai averlo. Da qui una presenza inevitabilmente più significativa della pubblica autorità.

Tale ruolo non è di per sé costituzionalmente censurabile. L’art. 17 della Costituzione riconosce il diritto di riunirsi “liberamente e senza armi”. Quindi, chi si reca alla manifestazione portando una spranga di ferro, o raccoglie un sanpietrino o una bottiglia per scagliarli contro la forza pubblica, è per ciò solo fuori della garanzia costituzionale. Inoltre, la riunione in luogo pubblico può essere vietata per “comprovati motivi di sicurezza o di incolumità pubblica”. E se può essere vietata, può anche essere oggetto di interventi meno incisivi su limiti o modalità di svolgimento. Ma la singola riunione, come si evince dalla formula “comprovati motivi”.

È conforme a questo modello la direttiva ministeriale? In generale sì, per la parte che percorre vie già note. È ampiamente sperimentato il ruolo dei comitati provinciali per l’ordine e la sicurezza pubblica. Parimenti, è pratica usuale che l’autorità di pubblica sicurezza disponga limiti per singole manifestazioni. Classico l’esempio di percorsi obbligati per evitare l’incrocio di cortei di segno opposto.

Ma un punto di novità e un dubbio potrebbero esserci. La direttiva chiama i prefetti ad individuare secondo criteri di proporzionalità “specifiche aree urbane sensibili, di particolare interesse per l’ordinato svolgimento della vita della comunità, che potranno essere oggetto di temporanea interdizione allo svolgimento di manifestazioni pubbliche per la durata dello stato di emergenza in ragione dell’attuale situazione pandemica”.

Sembra in tal modo essere assegnato ai prefetti il compito di individuare in via generale e astratta, non in connessione con una manifestazione data, aree della città in cui le riunioni sono vietate a prescindere. Una determinazione che divide la città in due aree: nella prima non si manifesta, nella seconda si manifesta, sia pure con eventuali limiti. Tali determinazioni sarebbero vincolanti per i questori. A leggere estensivamente la direttiva, la zona di divieto assoluto potrebbe essere dichiarata e permanere per tutto lo stato di emergenza. Un siffatto potere prefettizio non sembra potersi far derivare dall’art. 13, comma 2, della legge 121/1981, richiamato nella direttiva.

È positivo che vi sia un chiaro termine ad quem – la fine dello stato di emergenza – per la determinazione prefettizia del divieto. Ma sarebbe comunque dubbia la compatibilità costituzionale di un divieto adottato una tantum per tutta la vigenza di uno stato di emergenza formalmente dichiarato. Questo proprio perché la Costituzione prevede che l’autorità intervenga sulla singola riunione, per “comprovati motivi” di volta in volta individuati.

Una lettura secundum constitutionem della direttiva ministeriale va nel senso che la determinazione prefettizia delle aree sensibili non sia assunta a tempo indeterminato fino alla cessazione dello stato di emergenza, ma piuttosto per periodi più brevi, in occasione di una o più specifiche manifestazioni. Potendo poi essere reiterata per eventi ulteriori e diversi, sempre nell’ambito dello stato di emergenza deliberato nelle forme prescritte.

Infine, la direttiva si rivolge – come detto – alle manifestazioni Covid. Per la formulazione di chiusura le modalità richiamate potranno – ma non dovranno necessariamente – essere adottate per altre manifestazioni. Del resto, è ovvio che manifestazioni Covid potrebbero formalmente presentarsi con veste diversa. In ogni caso, per tutto quanto detto le determinazioni prefettizie non devono ritenersi ex se lesive della Costituzione. Ma il problema potrebbe manifestarsi, e una vigilanza democratica localmente e in Parlamento rimane assai opportuna.

Commenta (0 Commenti)

La direttiva del Viminale. A Gorizia si può protestare ma lontano dai locali, a Genova nessuna zona rossa ma sono vietati i percorsi ripetuti

Torino, manifestazione No green pass

Torino, manifestazione No green pass  © LaPresse

Sospendere il diritto di manifestare non si può ma la direttiva del Viminale, inviata mercoledì sera a prefetti e questori, dà loro l’ultima parola su come il dissenso si possa portare in piazza e dove. Il luogo delle decisioni è il Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza. Le manifestazioni avranno svolgimenti differenti da città a città. A Gorizia il corteo No pass di domani inizierà alla stazione ferroviaria e finirà dopo 200 metri, al Parco della Rimembranza, dove si potrà effettuare una «manifestazione statica», senza entrare nel centro storico, senza occupare spazi destinati a bar, ristoranti o esercizi pubblici. Dal Comitato per l’ordine e la sicurezza spiegano: «È così assicurato il diritto a manifestare ma prima ancora il diritto alla salute». E gli affari dei negozianti.

A MILANO le decisioni sulle proteste del sabato saranno prese oggi. Intanto si è sciolto il Comitato No green pass cittadino. In questura, ieri pomeriggio, era arrivato solo il preavviso per il presidio statico all’Arco della Pace, dove dovrebbe arrivare Robert F. Kennedy jr, attivista No vax. Nelle chat girano anche due appuntamenti diversi, in piazza Fontana e in piazza Duomo. A Genova nessuna zona rossa vietata ai cortei ma non si potrà fare sempre lo stesso percorso. A Torino si preannuncia un fine settimana teso. Marco Liccione (portavoce di Variante Torinese): «Respingiamo le illegittime restrizioni imposte dal Viminale ai cortei No green pass. Non ci piegheremo davanti a un governo che calpesta la Costituzione. La manifestazione si svolgerà regolarmente in piazza Castello con il corteo pacifico». A Pistoia consentiti solo sit in, ad Aosta il corteo si potrà fare. «La norma non va utilizzata per vietare in senso generale i cortei ma per garantire il diritto di manifestare quando necessario, con chi organizza che garantisca di essere in grado di applicare le norme» il commento del segretario della Cgil, Landini.

LA DIRETTIVA DEL VIMINALE motiva la stretta sulle proteste: «Si riscontra un significativo livello di inosservanza delle disposizioni di prevenzione del contagio concernenti il divieto di assembramenti, il rispetto del distanziamento e l’uso dei dispositivi di protezione delle vie respiratorie con potenziale pericolo di incremento di contagi». Ma poi si aggiunge che le ripetute manifestazioni No pass «stanno determinando elevate criticità sul libero esercizio di altri diritti, quali quelli attinenti allo svolgimento delle attività lavorative e alla mobilità dei cittadini».

AI PREFETTI il compito di individuare «specifiche aree urbane sensibili, di particolare interesse per l’ordinato svolgimento della vita della comunità, che potranno essere oggetto di temporanea interdizione allo svolgimento di manifestazioni per la durata dello stato di emergenza, in ragione dell’attuale situazione pandemica». Ma si concede: «L’individuazione di tali aree dovrà avvenire nel rispetto del principio di proporzionalità, atteso che il diritto costituzionalmente garantito di riunirsi e manifestare liberamente in luogo pubblico costituisce espressione fondamentale della vita democratica e va tutelato».

AI QUESTORI, invece, decidere le modalità delle proteste: «Determinate manifestazioni si potranno tenere esclusivamente nel rispetto di specifiche modalità di carattere restrittivo, ad esempio potrà essere disposto lo svolgimento in forma statica ovvero la regolamentazione di percorsi idonei a preservare aree urbane nevralgiche». Centri storici off limits, niente cortei, un dissenso educato che non arrechi fastidio al commercio né alla politica fino alla fine dello stato d’emergenza, per ora fissato al 31 dicembre. Se anche non ci fosse la proroga, la prossima finanziaria di potrà varare potendo fermare le manifestazioni sgradite.

IL PRECEDENTE citato nella direttiva Lamorgese è quello di Roberto Maroni del 2009, quando dal Viminale impose limiti ai cortei nei centri storici e davanti i luoghi di culto per salvaguardare il decoro urbano. Si arrivò alla direttiva dopo la preghiera islamica in piazza Duomo a Milano a conclusione di un’iniziativa di solidarietà con la striscia di Gaza. Maroni è stato chiamato proprio da Lamorgese a presiedere la Consulta per l’attuazione del Protocollo contro il caporalato.

Commenta (0 Commenti)