Giustizia. Il presidente della Corte costituzionale spiega eccezionalmente le decisioni sui quesiti: ammessi solo cinque sulla giustizia. Spaccheranno la maggioranza e due potrebbero essere superati dalla riforma Cartabia del Csm e dell'ordinamento giudiziario. Caccia al quorum, il governo potrebbe evitare l'abbinamento con le amministrative
Giuliano Amato © LaPresse
E’ come se l’arbitro di un acceso derby calcistico scendesse in sala stampa un minuto dopo il fischio finale, a spiegare le sue decisioni sui rigori dati e non dati, sul Var e le espulsioni. Professore, giurista, politico, Giuliano Amato non può che interpretare il ruolo di presidente della Corte costituzionale al modo di chi da cinquanta anni è più è un protagonista della scena pubblica. Così si presenta proprio lui per spiegare ai giornalisti (e loro tramite agli elettori) le decisioni della Corte sui referendum. Non sono andate come aveva auspicato quando aveva raccomandato ai colleghi il massimo dell’apertura: tre quesiti su otto la Corte li ha respinti. Le ultime notizie le porta il presidente: «Faccio anche la parte del comunicato», sorride Amato. Così, eccezionalmente, abbiamo un fatto – la non ammissibilità dei referendum sulla responsabilità civile diretta dei magistrati e sulla depenalizzazione di alcune condotte legate all’uso personale delle droghe, in aggiunta alla non ammissibilità già comunicata del referendum sull’omicidio del consenziente – e la spiegazione del fatto. Amato si preoccupa
di incanalare il racconto della notizia lungo binari che non nuocciano alla Corte: «Ci ha ferito sentir dire che non abbiamo tenuto in conto le sofferenze dei malati, non è così, il referendum non avrebbe riguardato solo la loro condizione». Probabilmente anche la decisione di rendere pubblico il suo invito, alla vigilia, a «non cercare il pelo nell’uovo» era un anticipo di questa accorta strategia comunicativa.
La Corte, ha spiegato Amato, nella sostanza ha ritenuto i quesiti troppo vasti, avrebbero cioè prodotto effetti al di là delle intenzioni dichiarate dai proponenti. Il referendum sull’omicidio del consenziente avrebbe depenalizzato anche omicidi al di fuori dei casi di eutanasia. Il referendum sulle droghe avrebbe depenalizzato condotte anche non riferite alla cannabis ma ad altre droghe pesanti e, in caso di vittoria del Sì, «ci farebbe violare obblighi internazionali plurimi». Quello sulla responsabilità civile dei magistrati «avrebbe avuto un effetto non abrogativo ma propositivo, introducendo di fatto una normativa del tutto nuova rispetto alla storica responsabilità indiretta dei magistrati».
Bisogna leggere le motivazioni, è probabile che in quest’ultimo caso il problema sia che la nuova normativa sulla responsabilità diretta dei magistrati non sarebbe stata autoapplicativa, avrebbe cioè avuto bisogno di un successivo (ma non imprevedibile) intervento del parlamento. Si trattava, del resto, di una non ammissibilità attesa. Semmai la sorpresa è l’ammissibilità del quesito che può cancellare del tutto le norme della legge anticorruzione sull’incandidabilità e la decadenza a seguito di condanne penali. Secondo la Corte, evidentemente, l’eventuale abrogazione non impatterebbe su obblighi e convenzioni internazionali, malgrado la legge delega che stia a monte del decreto Severino presenti se stessa come attuazione di una convenzione Onu contro la corruzione. Amato ha spiegato in conferenza stampa che il via libera è stato possibile perché la convenzione Onu non richiamava direttamente le specifiche norme sull’ineleggibilità, ma un quadro di interventi anti corruzione contenuti in altri decreti delegati.
Diversamente il vincolo del rispetto dei trattati internazionali, in questo caso quelli contro il traffico di droga, è valso per bocciare il referendum sulle droghe. Anche se quei trattati non hanno impedito ad altri stati sottoscrittori come il Canada e Malta di legalizzare l’uso della cannabis o la sua coltivazione.
Cinque referendum in ogni caso sono salvi, sono quelli sulla giustizia proposti mediaticamente da radicali e Lega ma sostanzialmente da nove consigli regionali a maggioranza centrodestra (che si sono anche divisi le spese legali, 135mila euro di soldi pubblici). I quesiti – 1) abolizione delle firme per le candidature togate al Csm 2) separazione netta e definitiva delle funzioni tra giudici e pm 3) legge Severino 4) limiti alla custodia cautelare e 5) voto degli avvocati nei giudizi di professionalità dei magistrati – spaccheranno la maggioranza. Lega, Forza Italia e centristi da una parte, Pd, M5S e Leu dall’altra. Anche se è prevedibile, specialmente nei quesiti sulla separazione delle funzioni e sulla custodia cautelare, che la spaccatura entri anche nel Pd.
Due di questi referendum potrebbero essere superati dall’approvazione del nuovo testo Cartabia di riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario: abolizione delle firme per le candidature (non più previste) e introduzione del voto degli avvocati (adesso previsto). Ma è difficile che la riforma possa essere definitivamente approvata in tempo, anche se il governo dovesse rimangiarsi la promessa di Draghi di non mettere la fiducia (cosa che per la seconda lettura al senato è assai probabile). Qualche chance in più ci sarebbe se il governo decidesse di convocare il referendum nell’ultima data utile, domenica 12 giugno, evitando cioè l’abbinamento con le amministrative (previste per il 5 e il 19 giugno). Sarebbe un bello sgambetto ai sostenitori del Sì che a questo punto, senza più i referendum più sentiti che sono caduti davanti alla Corte, dovranno lottare soprattutto per raggiungere il quorum dell’affluenza.