RITRATTI. La scomparsa dello storico all'età di 76 anni. Raccontò il Novecento e l'attualità politica italiana nei suoi numerosi libri e anche dalle pagine de «il manifesto»
Lo storico Paul Ginsborg
Con la silenziosa eleganza che ne ha contraddistinto l’intera esistenza se ne è andato, dopo una malattia tanto insidiosa quanto repentina nei suoi esiti fatali, Paul Ginsborg. La sua traiettoria intellettuale si è articolata tra il Regno Unito e l’Italia, le sue due patrie, la prima di origine, l’altra di appartenenza.
Nato a Londra nel luglio del 1945, quando il paese stava uscendo da una guerra pressoché totale, aveva studiato al prestigioso Queens’ College di Cambridge, proseguendo successivamente come Fellow al Churchill College. Il suo insegnamento è sempre stato sospeso tra la passione per la storia moderna e contemporanea e l’afflato sociologico.
A PARTIRE dagli anni Ottanta si era trasferito in Italia, dove aveva svolto attività di docenza a Siena, Torino e poi a Firenze. Nell’ateneo di quest’ultima città aveva quindi insegnato storia dell’Europa contemporanea dal 1992 fino al pensionamento, avvenuto nel 2015. L’attenzione per le dinamiche continentali e per quelle italiane hanno costituito il fuoco del suo lavoro. Così come l’identificazione con il nostro Paese, del quale era diventato cittadino nel 2010. Le sue opere «italiane» risalgono al 1978, con uno studio su Daniele Manin e la rivoluzione veneziana del 1848-49.
Tuttavia, i testi più importanti sono quelli che l’hanno reso noto al di là del tradizionale pubblico accademico. Si tratta di una serie di volumi, itineranti tra il rigore dell’analisi scientifica e l’urgenza dell’intervento civile, con i quali ha cercato di mettere a fuoco i caratteri più recenti della società italiana. In particolare i lavori pubblicati da Einaudi, a partire dalla Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi, uscito nel 1989 e più volte ristampato nonché aggiornato, passando per L’Italia del tempo presente e la curatela dell’Annale einaudiano dedicato al Risorgimento. Insieme, infine, all’ultima opera di maggiore impatto analitico, Famiglia Novecento. Vita familiare, rivoluzione e dittature 1900-1950.
A QUESTE OPERE, di maggiore densità analitica, si erano accompagnati e poi aggiunti i libri che ne qualificavano l’intervento nell’attualità. Critico severo e implacabile di Berlusconi, letto come un fenomeno di dissoluzione dei quadri repubblicani e costituzionalistici (ad esempio con il suo Berlusconi. Ambizioni patrimoniali in una democrazia mediatica oppure nel lavoro collettaneo, coordinato con Enrica Asquer, sul Berlusconismo. Analisi di un sistema di potere), si era ripetutamente dedicato alla riflessione sul rapporto tra istituzioni, società e cultura civile.
Il timbro britannico, e con esso la necessità di mantenere un profilo che non fosse totalmente travolto dalle passioni politiche, nei fatti si era notevolmente stemperato con l’adesione alla stagione dei movimenti, quella che a partire dalla dissoluzione dei partiti della Prima repubblica, dall’emergere del populismo e dal ritorno di politiche di impronta patrimonialista e autocratica, rivendicava l’impossibilità di rispettare il distacco tra impianto teoretico e impegno civile.
A tale riguardo, Ginsborg coglieva lo smarrimento di quel composito aggregato sociale che anch’egli era andato definendo come «ceto medio riflessivo», dinanzi alle fratture e alle lacerazioni prodotte dalla transizione da un’organizzazione industriale a società dove l’immaterialità era un campo di costruzione non solo di egemonie ma anche di domini.
LA SUA INTERPRETAZIONE della lunga età di Berlusconi, dal 1994 fino agli anni più recenti, si inserisce infatti dentro una tale cornice, nella quale ritornano anche gli echi, emendati tuttavia dell’ideologismo originario, di una riflessione a tutto campo sulle fragilità civili del nostro Paese. Lo studioso era infatti molto attento, posta la sua sensibilità sociologica, ad evitare le trappole di un discorso declinato meramente sul piano dell’antropologia negativa, dove invece prevalgono le caratterizzazioni stereotipate sui presunti «caratteri» nazionali.
È difficile iniziare a parlare da subito di un’eredità di Paul Ginsborg qualora il suo magistero intellettuale, e la sua attività politica, non vengano messe in relazione con l’affermarsi, nello stesso arco di tempo, delle suggestive ma inconsistenti ipotesi di una «terza via», quella propugnata da Anthony Giddens e fatta propria da Tony Blair. Nel mentre quest’ultima attraversava una buona parte di ciò che era rimasto dei partiti socialisti e della sinistra europea, di fatto svuotandone completamente la residua identità, Paul Ginsborg si stava scoprendo animatore intellettuale dei gruppi dei girotondini, divenendo poi uno dei fondatori di Libertà e Giustizia.
L’intero suo lavoro culturale ci restituisce una serie di intensi fotogrammi su un lunghissimo tempo, quello della transizione e dell’impotenza, avviatosi già con la fine degli anni Settanta e per nulla conclusosi nel nostro Paese.