ENERGIA. Il 20 luglio la Commissione deve presentare un «piano di emergenza» per far fronte al taglio delle forniture di Mosca. Il tempo stringe, soprattutto per la Germania: da lunedì inizia la “riparazione” del gasdotto NordStream1. L’opzione climatica è messa da parte, quello che conta adesso è come sopravvivere il prossimo inverno, con la paura che i prezzi si alzino ancora e il rischio di scatenare un movimento di gilet gialli di fronte a governi indeboliti (a cominciare da Francia e Italia)
L’impianto di stoccaggio del gas di Wolfersberg-Oberpframmern
in Germania - Ap
Sulla carta, tutto procede come da programma: Fit for 55, il progetto per ridurre la Co2 del 55% entro il 2030 (con l’obiettivo delle neutralità carbonio nel 2050) è in movimento, almeno due stati (Lussemburgo e Austria) e alcune organizzazioni ecologiste si preparano a portare alla Corte di giustizia europea l’inserimento del gas e del nucleare nella tassonomia come energie di transizione, opzione approvata obtorto collo dall’Europarlamento mercoledì, che poi ha preso posizione a favore di un’accelerazione nella decarbonizzazione dell’aviazione. Ma, dietro le quinte, sta andando in onda un programma del tutto diverso.
L’OPZIONE CLIMATICA è messa decisamente da parte, quello che conta adesso è come evitare una penuria di energia nella Ue per il prossimo inverno e che i prezzi si alzino ancora, con il rischio di scatenare un movimento di gilet gialli dappertutto in Europa, di fronte a governi indeboliti (a cominciare da Francia e Italia).
Il tempo stringe: da lunedì, inizia la “riparazione” del gasdotto NordStream1, che collega Russia e Germania. Dovrebbe durare fino al 21 luglio, ma nessuno si fida di Mosca, che potrebbe trovare delle “anomalie” che giustifichino un prolungamento del blocco. Questa chiusura rende difficile realizzare la richiesta della Commissione, approvata al Consiglio europeo del 27 giugno: riempire all’80% le riserve di gas entro il 1° novembre (adesso siamo al 56%). La presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, ha avvertito il 6 luglio: «Dobbiamo prepararci a nuove perturbazioni nelle forniture di gas se non addirittura a un taglio completo». Non ci saranno sanzioni sul gas russo, ma sarà Mosca a chiudere il rubinetto.
IL 20 LUGLIO, la Commissione deve presentare un «piano di emergenza» per la riduzione della domanda di energia, per far fronte al taglio del gas russo, in parte già attuato in parte sotto minaccia, dopo che ad agosto entrano in vigore le sanzioni sul carbone di Mosca e a fine anno toccherà al petrolio. Bruxelles cerca di mettere in piedi una “solidarietà” europea, sul modello dei vaccini del Covid, cercando di evitare il disordine e la concorrenza che si era scatenata tra paesi membri nei primi mesi della pandemia, con la corsa alle mascherine e al materiale sanitario che mancava in un’Europa impreparata.
I 27 PERÒ, FINORA, non sono riusciti a mettersi d’accordo su acquisti congiunti di gas e ognuno ha fatto da sé alla ricerca di fornitori alternativi stato per stato. L’ipotesi di un price cap al gas è messa da parte, tanto più che la concorrenza tra stati non ha fatto che far aumentare il prezzo del gas.
Il commissario all’Energia, Kadri Simson, allerta che oggi gli arrivi di gas in Europa sono la metà rispetto a quelli dello scorso anno alla stessa epoca. Francia (per il nucleare), Italia (per la ricerca di altri fornitori) e Spagna sono meno affannati, ma la Germania deve fare i conti con una forte minaccia di penuria: dovrebbe diminuire la domanda intorno al 30%, i Baltici a più del 50%.
La Commissione è divisa: per Kadri Simson si dovrà arrivare a un razionamento dell’energia per l’attività industriale (ma il prezzo è la cassa integrazione e la disoccupazione all’orizzonte, oltre alle proteste in stile gilet gialli subito). Per i commissari Paolo Gentiloni (Economia) e Thierry Breton (Mercato interno) bisogna accelerare sulla differenziazione degli approvvigionamenti.
PRIMA DELL’INVASIONE dell’Ucraina, dalla Russia arrivava in Europa il 40% del gas consumato, pari a 155 miliardi di metri cubi. Poi ci sono state le prime chiusure: il 27 aprile, Mosca ha chiuso il rubinetto a Polonia e Bulgaria, il 21 maggio alla Finlandia (per punirla della richiesta di adesione alla Nato), il 30 maggio alla Danimarca (in parallelo al varo dell’embargo sul petrolio). Una dozzina di paesi ha subito tagli o e già a secco. Delle alternative sono state attivate: Usa, Egitto, Qatar, Africa occidentale, Norvegia, Azerbaijan. Ma il passaggio non è immediato, il gas deve arrivare sotto forma liquida se non esistono pipelines, in Europa ci sono pochi terminal (li hanno Spagna e Francia, mentre la Germania era a zero e ne sta costruendo uno a tutta velocità): tra un anno, potrebbe sostituire un terzo del gas russo.
L’industria, in alcuni casi, potrebbe rimpiazzare il gas con il petrolio (si parla di 7-8 miliardi di metri cubi). Poi c’è il temuto ritorno alle centrali a carbone: Polonia e Bulgaria non le hanno mai abbandonate e le fanno funzionare a fondo, Germania, Olanda, Francia e persino la tanto ecologica Austria si sono rassegnate, l’Italia dovrebbe seguire.
LA QUASI CRISI. L’avvocato rivendica «coerenza» sul decreto Aiuti. Decisivo l’incontro di oggi tra governo e sindacati. Grillo chiede un segnale «subito» sul salario minimo. Una decina i senatori contrari comunque alla fiducia
Giuseppe Conte - LaPresse
La salita al Colle di Draghi non passa inosservata nella sede 5s di Campo Marzio, dove Conte si chiude a metà pomeriggio con lo staff e un pugno di fedelissimi. In serata la linea che prevale è quella della cautela, nessuna accelerazione verso la crisi fino a quando (oggi) il premier non incontrerà i sindacati a palazzo Chigi. Da lì devono arrivare risposte sull’agenda sociale, a partire dal salario minimo rilanciato ieri da Grillo come massima tra le urgenze dopo i dati «pazzeschi» dell’Inps sul lavoro povero.
E CHISSÀ CHE NON SIA proprio il garante, anche stavolta, a guidare il Movimento in uno dei passaggi più stretti della legislatura. Se il segnale che arrivasse dal premier fosse credibile sulla lotta alla povertà, allora anche l’indigesto decreto Aiuti potrebbe essere trangugiato dal M5S giovedì in Senato. Forse. Perché dopo la mossa di ieri di uscire dall’aula della Camera per non votare il decreto (solo un deputato, Francesco Berti, ha disobbedito), il piano si è fatto inclinato.
Votarlo in Senato, dove il voto è unico (fiducia più testo) non sarà comunque semplice per la truppa grillina. Le voci di palazzo Madama, sempre più incontrollate, confermate da alcune chat interne tra senatori («Non voto neppure se mi vengono a prendere a casa»), dicono che almeno una decina su 62 non è disposta a votare la fiducia. Che uscirebbe dall’aula anche se l’avvocato desse ordine di votare sì.
MA QUESTO È SOLO UNO dei problemi. Ieri, prima che il premier salisse al Colle, Conte ha motivato la decisione del non voto alla Camera come «una questione di coerenza e linearità». «Era stato anche anticipato, è tutto chiaro». In realtà l’ordine di scuderia è arrivato pochi minuti prima, e la dichiarazione in aula del capogruppo Davide Crippa (uno dei meno propensi allo strappo) ha avuto toni piuttosto duri: «Sui temi energetici il Parlamento non ha toccato palla. Siamo di fronte a un testo blindato che lo sarà anche in Senato».
E ancora: nel decreto «ci sono interventi utili seppur non risolutivi per frenare l’impennata delle bollette», «qualche passo avanti che abbiamo contribuito a compiere». Ma «non c’è una spiegazione razionale nel voler inserire una norma che apre al termovalorizzatore a Roma».
I NODI RESTANO QUELLI di due mesi fa, quando la delegazione 5S non votò il provvedimento in consiglio dei ministri. In più c’è ormai la chiara consapevolezza che il testo non verrà toccato in Senato, come il M5S sperava fino a un paio di giorni fa di poter fare. Restano dunque intoccabili anche le norme sul superbonus edilizio. Quelle su cui il Movimento ha cercato fino all’ultimo di intervenire, per investire più soldi per sbloccare i crediti incagliati. Ed è stato proprio il no di palazzo Chigi su una nuova iniezione da 3 miliardi sul bonus a spingere Conte al primo strappo alla Camera.
IN ASSENZA DI UNO SCATTO sui temi sociali, la strada per la non fiducia sembra segnata. Nonostante le pressioni del Pd e di Articolo 1, gli alleati che pressano Conte per restare nella maggioranza fino a fine legislatura. Anche ieri telefonate e messaggi da tutti i big dem, da Letta in giù, per spingere sul senso di responsabilità dell’avvocato. Secondo i dem sarebbe «singolare» annunciare una crisi di governo proprio nei giorni in cui il premier si impegna coi sindacati per una svolta sociale.
«Non possiamo perdere questa opportunità», l’appello del Pd. «Nel vostro documento in 9 punti consegnato a Draghi ci sono proprio i temi su cui il governo intende fare un passo avanti». «Stiamo a vedere, le prossime 48 ore sono decisive», filtrava ieri dalla sede M5S. «Non vogliamo accordi al ribasso», il messaggio recapitato agli alleati.
LA LINEA DELL’USCITA dall’aula di palazzo Madama (pur non decisa ufficialmente) a ieri sera sembrava prevalente. «Un’ipotesi sul tavolo», conferma il fedelissimo Mario Turco. «Ma non significherebbe automaticamente uscire dal governo». «Ma niente fughe in avanti», è la raccomandazione recapitata ai falchi. L’avvocato ha capito, dopo la salita al Colle di Draghi, che il premier non ha intenzione di derubricare un nuovo strappo parlamentare. Che stavolta non si scherza.
E tra i senatori meno ribelli c’è chi ricorda: «Abbiamo detto che c’è tempo fino a fine luglio per valutare i nostri 9 punti. Una accelerazione potrebbe apparire incomprensibile». La decisione finale arriverà domani sera, in una riunione tra Conte e i senatori.
ASSEMBLEA A ROMA. Il movimento guidato da De Magistris e promosso con Prc e Pap fa un altro passo verso la lista elettorale. Presente Manon Aubry della Nupes. L’ex sindaco: «Campo largo? No, campo aperto»
L'assemblea dell'Unione popolare
La presenza dell’europarlamentare francese del partito di Mélenchon, Manon Aubry, è un portafortuna non da poco. Così come il nome «Unione popolare» è preso in prestito dai cugini francesi della Nupes. Ma di certo questa voglia di fare come Mélenchon non basta per rendere più semplice la salita impervia che hanno in mente Luigi De Magistris, Rifondazione e Potere al popolo: e cioè portare al successo elettorale una «sinistra di rottura», un polo alternativo tanto alle destre sovraniste quanto ai giallorossi, accusati di spendere solo «belle parole» per i lavoratori e le classi più deboli, ma in sostanza di non voler cambiare nulla.
MATTINATA DI LUGLIO, strapiena la sala dell’Hotel The Hive di Roma dove l’Unione popolare fa un altro passo in direzione della lista che si presenterà alle politiche. «Vogliamo arruolare i non allineati, quelli che non stanno nel sistema, i rassegnati, gli arrabbiati, entusiasmare chi non ci crede più», dice De Magistris dal palco, dopo una lunga serie di interventi di lavoratori, sindacalisti, studenti. «Sconfiggere le destre? Noi ci dobbiamo unire per sconfiggere il consociativismo che ha corrotto la democrazia, e di questo fa parte il centrosinistra che ha fatto le più grandi schifezze e anche il M5S», tuona dal palco l’ex sindaco di Napoli.
«Mai alleati col Pd», alza ancora di più la voce tra gli applausi. «A me non interessa un campo largo, ma un campo aperto, come una lotta partigiana, un movimento rivoluzionario, per arruolare chi vuole credere nel cambiamento proposto da persone credibili». E ancora: «Vogliamo attaccare al cuore il sistema dell’economia di guerra e dell’economia mafiosa. Col sistema non si può trattare, sappiate che la battaglia che stiamo iniziando non sarà una suonate di violino».
AUBRY SUGGERISCE LA STRADA di una «sinistra di rottura», contro l’austerità e le politiche neoliberiste, proposte forti come il salario minimo a 1400 euro e la pensione a 60 anni. E una contrapposizione frontale «ai liberali come Macron che sono il vero ascensore per le destre estreme». «Mi auguro che in Italia possiate fare come noi in Francia, arrivare al 20%», scalda la platea Aubry che poi ha un lungo colloquio privato con De Magistris. «Vi auguro che possiate cambiare i rapporti di forza a sinistra come abbiamo fatto noi con socialisti e verdi».
SIMONA SURIANO, parlamentare del gruppo Manifesta gemellato con Prc e Pap, attacca le «sedicenti sinistre che votano l’invio di armi e gli inceneritori. Non basta dire di volere giustizia sociale e ambientale, occorre essere coerenti», l’attacco rivolto alle sinistre che si apprestano ad allearsi col Pd. C’è tanto no alla guerra in questa assemblea.
De Magistris si chiede come mai i governi occidentali non abbiano sostenuto le resistenze curde e palestinesi. «Se uno propone di inviare armi ai palestinesi viene tacciato come terrorista». Eppure, ricorda Moni Ovadia, «proprio sulla Palestina casca l’asino dell’Occidente, lì sono state violate tutte le regole del diritto internazionale, con un sistema di apartheid e l’esproprio della terra».
L’EX SINDACO CI TIENE a presentarsi come forza di governo: «A Napoli siamo durati dieci anni, contro tutti i partiti che oggi appoggiano Draghi. E abbiamo rispettato il referendum sull’acqua pubblica. Vogliamo riprenderci la democrazia dimostrando che il potere è servizio per garantire diritti, uguaglianza, fratellanza, libertà, giustizia sociale ed ambientale». L’esempio dunque è quello delle due campagne elettorali sotto il Vesuvio: «Certo, l’Italia è più grande, ma ce la possiamo fare…». Il prossimo appuntamento dell’Unione popolare sarà proprio a Napoli a fine settembre. Invitati anche esponenti di Podemos e France Insoumise.
WORKFARE ALL'ITALIANA. Il numero delle persone che si trovano in una condizione di «povertà assoluta» in Italia è quasi triplicato tra il 2005 e il 2021, passando da 1,9 a 5,6 milioni. Le famiglie che si trovano in questa condizione sociale sono raddoppiate da 800 mila a 1,96 milioni. Lo sostiene il Rapporto annuale dell'Istat secondo il quale la povertà assoluta colpisce tre volte di più i minori e i giovani tra i 18 e i 34 anni. Ritratto di un paese costruito sulla precarietà di massa, l’insicurezza sociale e contrattuale, le disparità crescenti dei redditi peggiorati dall’inflazione galoppante. E la politica polemizza ferocemente sul ruolo del «reddito di cittadinanza» nel 2020. Per l’Istat avrebbe impedito l’aumento di 1 milione di poveri. Il problema è che ciò è avvenuto nel 2021
Italia, in un Caf - Ansa
Il rapporto annuale 2022 dell’Istat è passato ieri alle cronache per la consueta disfida ideologica sul «reddito di cittadinanza» tra i populisti compassionevoli (Cinque Stelle, Pd e sinistre) che difendono l’operato del governo «Conte 2» (e quello precedente) e i paternalisti neoliberisti (destre varie da Fratelli d’Italia a Italia Viva) che vogliono abolirlo,
Scritto da Silvio Messinetti, REGGIO CALABRIA su il manifesto
PROCESSO D'APPELLO . Ammessa la nuova trascrizione dei dialoghi tra l’ex sindaco di Riace e l’ispettore Del Giglio
E se fosse Salvatore Del Giglio la chiave di svolta della lunga odissea giudiziaria di Mimmo Lucano? La figura di questo burocrate prefettizio torna centrale nel processo di Appello in corso a Reggio Calabria. Del Giglio è l’ispettore che, assieme ad altri due colleghi della prefettura reggina, nel 2016 aveva stilato la relazione sulla gestione dello Sprar da parte del comune di Riace. Nel processo di primo grado fu uno dei teste a carico di Lucano. Tuttavia proprio una conversazione tra l’ex sindaco e l’ispettore sarebbe in grado «di cambiare le sorti del processo». Ne sono convinti i legali della difesa, Giuliano Pisapia e Andrea Daqua. E il dialogo tra i due è stato acquisito tout court dai giudici reggini che hanno disposto clamorosamente la riapertura dell’istruttoria. Il processo di Appello a Lucano, condannato in primo grado a 13 anni e due mesi per la gestione dell’accoglienza nel piccolo borgo jonico, è partito così. Con la riapertura dell’istruttoria dibattimentale disposta dalla corte, su richiesta della difesa e con il parere favorevole dei sostituti procuratori geneali Adriana Fimiani e Antonio Giuttari.
AMMESSO agli atti il parere pro veritate di 50 pagine predisposto dal consulente Antonio Milicia. Contiene la nuova trascrizione delle intercettazioni, compresa quella insabbiata durante il processo di primo grado, e un cd corredato dall’audio di quei dialoghi. L’intercettazione regina è datata 20 luglio 2017, quando ancora non era stato notificato l’avviso di garanzia all’ex sindaco, neanche trascritta e come tale non valutata dal tribunale di Locri. Una lunga chiacchierata, in cui Del Giglio prima avvisa Lucano che «non è improbabile che un domani, così come (inc.) se non è già arrivata da voi, verranno la Guardia di Finanza», e poi ammette che «l’amministrazione dello Stato non vuole il racconto della realtà di Riace. Vuole… perché oggi la mission dello Stato… sapete, lo Stato è composto… come qua da voi. C’è l’opposizione».
Ma c’è dell’altro. Del Giglio spiega che per la politica l’integrazione non è un obiettivo. «La mia certezza – sottolinea – è che l’organizzazione fa acqua da tutte le parti. Non ultimo il fatto che dopo lo Sprar non c’è niente. E allora, questo mi fa dedurre che l’obiettivo integrazione è soltanto una parola buttata là». Quindi Del Giglio riferisce le parole che avrebbe pronunciato un altro funzionario prefettizio, Salvatore Gullì: «Io ho dovuto scrivere perché fa schifo il sistema nazionale dell’accoglienza – gli avrebbe riferito – abbiamo utilizzato questa cosa di Riace per…per dire queste cose». «Perché deve pagare Riace?», si chiede Lucano. La risposta di Del Giglio è chiara: «Siccome io ritengo che comunque Riace, al di là delle disfunzioni eventuali o delle anomalie amministrative, quindi della burocrazia, abbia realizzato una realtà evidentemente ancora unica sul territorio non solo nazionale, dovete difenderla. Con qualsiasi conseguenza». Parole che gettano ombre sul processo di Locri e sulla stessa relazione prefettizia, poi finita agli atti dell’inchiesta.
Nel ricorso in appello, Daqua e Pisapia avevano rimarcato che l’obiettivo di Lucano «era uno solo ed in linea con quanto riportato nei manuali Sprar: l’accoglienza e l’integrazione. Non c’è una sola evidenza dibattimentale (intercettazioni incluse) dalla quale si possa desumere che il fine che ha mosso l’agire del Lucano sia stato diverso». E secondo i due legali, «il giudice di prime cure si è preoccupato di trovare “ad ogni costo” il colpevole nella persona di Lucano, utilizzando oltremodo il compendio intercettativo, con un’interpretazione macroscopicamente difforme dal suo autentico significato».
LUCANO si mostra fiducioso per il prosieguo del processo. «Ma non mi interessa una riduzione di pena, sconti o altro. Io voglio l’assoluzione piena. Voglio solo ristabilire la verità». E se l’accusa è quella di aver aiutato gli ultimi, ribadisce, «io in quel caso non sono innocente e non lo sarò mai. Mi hanno condannato perché secondo loro avrei truffato lo Stato destinando i fondi dell’accoglienza ad altri progetti? Quei soldi sono serviti a fare una scuola, un frantoio e i laboratori in cui lavoravano riacesi di nascita e d’adozione. Basta venire a Riace per averne la prova». Il processo riprenderà il 26 ottobre.
Scritto da Anna Maria Merlo, PARIGI su il manifesto
EUROPA. Il voto contestatissimo del Parlamento europeo: otto i paesi contrari e Austria e Lussemburgo promettono di rivolgersi alla Corte di giustizia. Protesta dei socialisti: «Patto faustiano» tra Francia e Germania. Greenpeace: «È un regalo a Putin»
La protesta di ieri di ambientalisti italiani fuori dall’Europarlamento a Strasburgo - Ap/Jean-Francois Badias
È una «vergogna», un «risultato scandaloso», ma «la lotta continua». Verdi, sinistra e organizzazioni ecologiste criticano con forza il risultato del voto ieri al Parlamento europeo, che ha respinto con 328 voti contro 278 e 33 astensioni l’«obiezione» – che equivale a un veto – all’inserimento del gas e del nucleare nella Tassonomia delle energie rinnovabili, almeno come transizione, che era stata posta alla commissione Envi del parlamento europeo il 14 giugno scorso.
COSÌ, ROVESCIATO IL VETO, è passato il testo della Commissione presentato lo scorso gennaio che considera «durevoli» alcuni investimenti per la produzione di energia nelle centrali nucleari che non emettono Co2 costruite fino al 2030 (e che adottano un protocollo per maggiore sicurezza dal 2025 e piani per lo stoccaggio delle scorie dal 2050). Accettate anche le centrali a gas, a condizione che utilizzino le tecnologie più avanzate e che permettano la chiusura di centrali a carbone, ancora più inquinanti.
La storia però non finisce qui: Austria e Lussemburgo hanno l’intenzione di rivolgersi alla Corte di giustizia europea, una procedura giudiziaria a cui si aggregheranno le varie opposizioni. Il Consiglio europeo approva la linea della Commissione, ma c’è l’opposizione di otto paesi