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Taglio del 15% fino a marzo, molte esenzioni, Ungheria contraria. L’opposto dell’ultima crisi dell’euro: ora a implorare è la Germania
 Gasdotto E Attrezzatura Ausiliaria Presso La Stazione Di Pompaggio Del Gas  Fotografia Stock - Immagine di produzione, struttura: 166967452

Applausi finali, naturalmente, perché l’Europa dei Ventisette sembra averla scampata anche questa volta. Il Consiglio affari energia riunito ieri a Bruxelles ha approvato il patto del gas, un accordo vincolante che impone agli stati membri dell’Unione europea di ridurre volontariamente del 15% il consumo di gas da fine agosto a fine marzo, quel gas che il gigante russo Gazprom usa come una clava per randellare il continente idrocarburo-dipendente, stringendo un altro po’ i rubinetti che da domani diminuiranno il flusso del gasdotto Nord Stream 1 fino a uno striminzito 20% della capacità complessiva. La scusa ufficiale è un altro lavoro di manutenzione complicato dalle sanzioni occidentali contro la Russia, il motivo è che il mercato dell’energia è un’arma, e non da oggi. Un’arma che la Russia sta usando.

IL CONSIGLIO affari energia è il consesso dei ministri dell’energia dei Ventisette, e gli applausi sono la forza e il sollievo del Vecchio continente, i cui stati per una settimana hanno trattato furiosamente tra e contro se stessi, da quando la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen aveva annunciato il flat cut, un taglio fisso del 15% per tutti, calcolando di riuscire a risparmiare i 45 miliardi di metri cubi necessari a rendersi indipendenti dal gas russo.

MA DIETRO gli applausi ci sono i distinguo. La solita Ungheria vota contro. Per farsi meglio capire ha inviato a Bruxelles il ministro degli esteri e non quello dell’energia, per dire che «il gas acquistato con i soldi degli ungheresi sarà usato dagli ungheresi e ogni altra cosa è impensabile». In teoria se Budapest non rispettasse il patto si aprirebbe una procedura di infrazione. In teoria. Poi c’è quella riduzione «volontaria» che potrebbe diventare obbligatoria. Chi dovrà deciderlo non saranno però von der Leyen e i suoi ministri, ma i singoli stati a maggioranza – un potere che non hanno voluto lasciare.

E poi ci sono le esenzioni, e qui il salvifico piano-gas europeo si riempie di dubbi. Esenti i paesi non connessi ai gasdotti europei – cioè Irlanda, Malta e Cipro. Esenti i paesi baltici, che sono connessi alla rete elettrica russa, e senza il gas Mosca potrebbe spegnerli dalla sera alla mattina. Esenti gli stati poco connessi con i gasdotti russi e che abbiano potenziato le proprie infrastrutture per il gas liquefatto – il costoso gas prevalentemente americano: la Spagna, la Grecia. Esente in parte chi riesce a procurarsi il gas altrove: l’Italia – per il ministro Cingolani il taglio italiano sarà solo del 7%. Esente chi riuscirà prima dell’inverno a stoccare abbastanza gas da poter aiutare un paese vicino in difficoltà… Insomma, tra un’esenzione e l’altra, i45 miliardi di metri cubi da risparmiare non saranno mai raggiunti.

«QUESTO PIANO ha più buchi dell’Emmental», ha detto una fonte Ue alla Bbc. Il motivo è che stato disegnato fin dall’inizio per la Germania, il paese più grosso e più dipendente dal gas russo. Questo ha comportato un faticoso aggiustamento di mezzi e soprattutto favoloso rovesciamento di quanto avvenne solo dieci anni fa con la crisi dei debiti sovrani in molti paesi dell’area euro. All’epoca, il tracotante ministero delle finanze tedesco ripeteva ai discoli Italia, Spagna, Grecia eccetera di «fare i compiti», e tagliare tutte quelle costose pensioni. Oggi la ministra della transizione ecologica della Spagna, Teresa Ribera, è arrivata a Bruxelles e ha detto: «Noi abbiamo fatto i compiti, e voi?»

I TEDESCHI hanno puntato tutto sull’economico gas russo, e di ciò il ministro dell’energia tedesco Robert Habeck ha avuto il buon gusto di chiedere scusa, o almeno andarci vicino. Ma il conto lo pagherà mezza Europa, come ha spiegato la ministra francese dell’energia Agnès Pannier-Runacher: «Se un’industria chimica tedesca tossisce, si ferma tutta l’industria europea».

Nel frattempo la quotazione del gas è volata a 214 euro per gigawattora. Il presidente americano Joe Biden lavora furiosamente dietro le quinte per tenere uniti i paesi europei e ha spedito in Europa il suo coordinatore per l’energia Amos Hochstein: «Era la nostra paura più grande», ha detto. E la Naftogaz ucraina è in default: ieri non ha pagato 335 milioni di dollari di bond.

 

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FINE DEL CAMPO LARGO. Pierluigi Bersani: «La domanda è: vogliamo fare un governo senza popolo? Mi sento alternativo a chi propone flat tax, aliquota unica Irpef, a chi vuole cancellare il reddito di cittadinanza, a chi dice no al salario minimo, allo ius scholae, al ddl Zan e alla legge sul fine vita»

I pontieri di sinistra che speravano nel dialogo tra dem e pentastellati Enrico Letta e Pierluigi Bersani - LaPresse

Pierluigi Bersani ci aveva provato dagli studi di La7 lunedì sera, un ultimo appello al Pd per salvare il campo largo: «Innanzitutto bisogna chiedersi chi andrà a votare – il suo ragionamento -. Perché stando ai dati delle ultime amministrative, l’astensione è diffusa tra chi ha difficoltà economiche. In quella fetta di popolazione c’è la questione sociale. E allora la domanda da farsi è: diciamo qualcosa a queste persone o vogliamo fare un governo senza popolo?». Quindi la conclusione: «Penso, non da oggi, che si sarebbe dovuto lavorare in quest’anno e mezzo per comporre un campo progressista con Pd, ambientalisti, sinistra e M5s. Io mi sento alternativo a chi propone flat tax, aliquota unica Irpef, a chi vuole cancellare il reddito di cittadinanza, a chi dice no al salario minimo, allo ius scholae, allo ius soli, al ddl Zan e alla legge sul fine vita».

Ma il treno della campagna elettorale ormai è partito e il segretario dem, Enrico Letta, l’ha già messo su un binario divergente rispetto ai pentastellati. Ieri mattina alla direzione del Pd ha detto: «Chiedo di darmi mandato su tre criteri: andare a discutere con forze politiche fuori dal trio della irresponsabilità e che portino un valore aggiunto. Poi, spirito costruttivo senza veti». Nel trio dell’irresponsabilità, al primo posto, ci sono i 5S con Giuseppe Conte seguiti a ruota da Fi e Lega. Relazione approvata all’unanimità, applausi, sipario. Tutto finito? Dalle varie sponde di Liberi e uguali si continuava a sperare in una ricomposizione tra i due ex maggiori azionisti del campo largo, complice il fatto che sui territori l’alleanza è ancora operativa.

Così, dopo il padre nobile di Art 1 Bersani, ieri mattina si è fatta sentire la capogruppo di Leu al Senato, Loredana De Petris: «La destra, dopo aver litigato per quattro anni ed essersi divisa sulla fiducia a due governi, si presenterà unita alle elezioni. Il centrosinistra, dopo aver lavorato per tre anni alla costruzione di un’alleanza di programma e progetto in grado di competere per la guida del Paese, sceglie di buttarla alle ortiche in poche ore senza una vera divisione sul voto di fiducia». Per poi attaccare i dem: «La scelta del Pd è semplicemente un suicidio politico, come i sondaggi attestano. Il danno che rischia di essere fatto al Paese e alle fasce di popolazione più deboli è enorme. Ci sarebbe ancora tempo per fermarsi sull’orlo del burrone, mettere in campo quell’alleanza di centrosinistra con il M5s che avevamo costruito con pazienza e intelligenza politica, sconfiggere nelle urne Meloni e Salvini. Ma sembra che il Pd sia invece deciso a sacrificare l’unica possibilità di uscire vincenti dalle urne».

E Stefano Fassina: «Letta ha lealmente riconosciuto la proficua collaborazione con i 5s durante il Conte II. Purtroppo tutte le rilevazioni di voto attribuiscono una larghissima vittoria alla destra. In tale scenario, il segretario del Pd indica pragmaticamente l’obiettivo di un’alleanza elettorale tecnica con i vari partiti del centro e del centrodestra, ossia un’alleanza dovuta alle pessime caratteristiche del Rosatellum, non da convergenze politiche. È incomprensibile la preclusione verso i 5s, pur dal punto di vista di chi ha radicalmente dissentito dal comportamento del Movimento al Senato il 20 luglio scorso. Così andiamo al naufragio. Il 13 agosto (entro il 14 vanno depositati i simboli ndr) è ancora lontano, anche il M5s si dovrebbe far sentire per provare a riaprire una discussione per l’alleanza tecnica con il Pd».

Il Movimento però, dopo le giornate di scontro frontale con i dem, ieri sera ha rotto il silenzio con Conte che ha chiuso la partita: «Correremo da soli». Nel pomeriggio anche il leader di Sinistra italiana, Nicola Fratoianni, ed Europa verde, Angelo Bonelli, che andranno insieme al voto, si erano schierati per il dialogo. «Vogliamo assolutamente lavorare per costruire l’alleanza più ampia possibile, compreso il Movimento, mentre con Letta siamo al lavoro per colmare le distanze – aveva spiegato ieri Bonelli -. Abbiamo necessità di costruire un fronte democratico perché dall’altra parte c’è un polo sovranista che non fa questioni di principio». E Fratoianni: «Di fronte a questa destra, che rappresenta le peggiori lobby, serve un esame di coscienza per costruire la più larga convergenza. Continuo a rivolgermi ai principali protagonisti, Letta e Conte, affinché si ricostruisca un filo del dialogo».

 

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IL GIOCO NON VALE LA CALENDA. Il segretario dem apre ad Azione e chiude
definitivamente ai 5 Stelle.
L’avvocato: «Noi coerenti con il programma, saremo il terzo incomodo»
Letta traccia il campo: «O noi o Meloni». Conte: «Da soli al voto» Enrico Letta e Luigi Di Maio - Ansa
Enrico Letta disegna davanti alla direzione del Pd la strategia che condurrà, sotto l’insegna del listone dei Democratici e Progressisti, alle elezioni del 25 ottobre. «Il risultato delle elezioni dipende dal risultato della nostra lista» spiega il segretario dem. Il criterio delle alleanze viene illustrato con una premessa: «Questo non è il Mattarellum, ma il Rosatellum». Dunque la logica è rovesciata: la legge elettorale prevede «accordi elettorali» e non coalizioni politiche vere e proprie. Per questo non c’è bisogno neppure di un programma comune.

IL PD INTENDE dialogare con forze che non siano il «trio dell’instabilità» che ha fatto cadere il governo Draghi. Dunque porte chiuse al Movimento 5 Stelle, anche se Letta ci tiene a difendere il lavoro fatto dal suo predecessore al Nazareno Nicola Zingaretti e rivendica il dialogo intrattenuto in questi anni con Conte. «Senza quel lavoro fatto col M5S il governo Draghi non sarebbe mai nato», dice il segretario. Ne ha anche per Forza Italia, che entra nel club degli irresponsabili, ma il cui atteggiamento, secondo Letta, apre spazi di manovra verso il centro, anche perché sottolinea che con i berlusconiani in questi anni il Pd ha «lavorato bene». Il lavoro sporco dello svuotamento del mondo forzitaliota è con tutta evidenza affidato a Carlo Calenda. Ma nel pomeriggio il leader Pd ha incontrato nella sede della fondazione Arel Luigi Di Maio e Beppe Sala. Il sindaco

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Rimosso Ruslan Demchenko, primo vice-segretario del Consiglio per la sicurezza. La sua colpa: firmò gli accordi di Kharkiv

Zelensky fa pulizia nuova tornata  di licenziati eccellenti

È innegabile, come ha dichiarato il presidente Zelensky, che è un momento storico per gli ucraini. Ma qual è il prezzo della fermezza ribadita ancora nel proclama «non rinunceremo mai alla nostra indipendenza»? Il «passo che le generazioni precedenti non hanno potuto fare», ovvero entrare nell’Unione europea e svincolarsi drasticamente dai legami con la Russia, ha un costo. Con una guerra in corso è difficile ragionare, çela va sans dire, tuttavia, non è così complicato trovare dei nemici, anche se si tratta di collaboratori di vecchia data, amici o membri dello stesso partito.

Dopo i licenziamenti illustri del Procuratore Generale della Repubblica, Iryna Venediktova, e del capo del servizio di sicurezza, Ivan Bakanov, anche Ruslan Demchenko, il primo vice-segretario del Consiglio per la sicurezza e la difesa nazionale dell’Ucraina, è stato rimosso dal suo incarico. Lo ha reso noto il portavoce del presidente, Sergiy Nijiforov, adducendo come motivazione lo stato di salute e di stress psicologico di Demchenko. In realtà, secondo un’inchiesta di Radio Free Europe pubblicata nel novembre 2021, Demchenko avrebbe esercitato pressioni per la firma dei cosiddetti «accordi di Kharkiv» del 2010, i quali prevedevano che, in cambio di alcuni sconti all’Ucraina sull’acquisto del gas, la Russia potesse estendere l’affitto della base navale di Sebastopoli in Crimea di 25 anni. È chiaro che secondo l’attuale governance ucraina, la presenza militare russa in Crimea è stata determinante per la perdita di quel territorio. Del resto, l’ex-vice segretario non è il solo.

Ieri, anche l’ex-ministro degli esteri Kostyantyn Gryshchenko e l’ex ministro della giustizia Oleksandr Lavrynovych, entrambi in carica durante la legislatura dell’ex-presidente in fuga Viktor Yanukovych, sono stati accusati in contumacia per il loro coinvolgimento negli «accordi di Kharkiv».

A proposito di accuse, l’uomo d’affari e politico Hennady Korban ha dichiarato che le guardie di frontiera ucraine hanno confiscato il suo passaporto e si sono rifiutate di farlo entrare in Ucraina attraverso il confine polacco. Per questo l’uomo ha chiesto ufficialmente al presidente Zelensky di «risolvere il malinteso» sulla revoca della sua cittadinanza. Korban è noto anche per essere uno dei principali soci d’affari dell’oligarca Igor Kolomoisky, tra gli uomini più ricchi d’Ucraina, nemico giurato dell’ex-presidente Petro Poroshenko e proprietario del canale televisivo che ha mandato in onda la serie «Servitore del popolo» con protagonista proprio Zelensky.

Mentre Kolomoisky era a capo dell’oblast di Dnipropetrovsk, nel 2014 Korban (che ne era il vice) lo avrebbe aiutato a organizzare alcuni gruppi di milizie come il battaglione «Dnipro» e si crede che l’oligarca finanziasse anche i battaglioni di estrema destra «Azov» e «Aidar». Nonostante questo passato comune e gli intrecci con la carriera politica dell’attuale presidente ucraino, in seguito allo scoppio della guerra Zelensky aveva ricevuto forti pressioni dagli alleati Usa per allontanare Kolomousky che oltreoceano è imputato in un processo penale per crimini fiscali.

Non è difficile comprendere come in questo momento Zelensky reputi più importante la fornitura di armi che una vecchia conoscenza dal passato poco chiaro e, per questo, il 18 luglio scorso, ha firmato un decreto presidenziale che revoca la cittadinanza ucraina a Kolomoyskyi e ad altre figure di spicco, tra cui proprio Hennady Korban, che, tra l’altro, dal 24 febbraio era il capo dei battaglioni di difesa territoriale di Dnipro, Vadim Rabinovich, considerato un legislatore filo-russo e a Igor Vasylkovsky, uno dei membri del partito del presidente.

In altri termini, siamo all’ostracismo. Anche la nomina di Oleksiy Symonenko, diventato procuratore generale ad interim il 17 luglio, va in questa direzione. Il funzionario non ha un passato chiaro. I suoi trascorsi politici sono segnati dalle accuse di depistaggio in alcuni casi di frode e di procedimenti ad hoc contro i partiti opposizione. Secondo il Kiev Independent l’uomo «attribuisce più importanza alla lealtà nei confronti dell’amministrazione presidenziale che all’efficacia nel lavoro». Eppure, potrebbe essere formalmente nominato procuratore generale dal parlamento ucraino la prossima settimana.

Intanto, a conclusione di una giornata frenetica, Zelensky ha sostituito il comandante delle Forze Speciali destituendo Grygorii Galahan e nominando Viktor Khorenko. Attendiamo di capire il perché di questo ennesimo cambio al vertice.

 

 

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PATADRAG. Cresce il fronte critico dei grillini

«Il Pd sceglie l’agenda liberale». Il M5S si prepara alla rottura Giuseppe Conte e Roberto Fico - Ansa

Se Luigi De Magistris chiama, Giuseppe Conte ancora non risponde, anche se comincia a elaborare la rottura con il campo largo. Quest’oggi la direzione democratico chiuderà definitivamente all’alleanza col Movimento 5 Stelle. Fino ad oggi i messaggi dell’Unione popolare dell’ex sindaco di Napoli con Rifondazione e Potere al popolo erano stati messi da parte in attesa di sviluppi. Dal M5S consideravano normale, quasi fisiologico, che la tempesta durasse qualche giorno.

LO FA CAPIRE Giancarlo Cancelleri. «Ho imparato che in politica può succedere di tutto e che persone di buon senso possono parlare e trovare soluzioni – dice il sottosegretario alle infrastrutture – Diamoci tempo fino ad agosto, quando dovranno essere presentate le liste. Se c’è unità di intenti e voglia di correre insieme per un obiettivo comune su scala nazionale, bene. Altrimenti sarà davvero liberi tutti». Ma la sensazione che il «liberi tutti» sia già ineluttabile viene dalle parole di un altro grillino di governo: il capodelegazione Stefano Patuanelli attacca a testa bassa il dialogo tra Letta e Calenda. «Patto Repubblicano ma senza Tizio, Caio e Sempronio – scrive Patuanelli su Facebook – Agenda Draghi, ma senza agenda sociale. Scissioni che impongono condizioni. Correnti interne che dettano le linee politiche ai segretari. Raggruppamenti politici per metà al governo e per metà all’opposizione. Partiti senza posizioni che tentano di posizionarsi. Transfughi in cerca di seggi sicuri. Era questa l’unità nazionale? Che gran casino».

NON SEMBRANO rassegnarsi al divorzio gli esponenti della sinistra del centrosinistra che in questi anni hanno contato sul M5S per spostare il baricentro della coalizione su alcuni temi. «Perché il Pd vuol regalare le elezioni e il governo del Paese alla peggior destra? – dice ad esempio Lorendana De Petris, capogruppo al Senato di Leu – Quale intelligenza politica c’è nel buttare a mare tre anni di paziente lavoro per costruire un programma progressista comune con il M5S, che non ha affatto sfiduciato il governo Draghi come recita la vulgata? Solo una vera alleanza progressista può fermare la destra ed è assurdo sacrificarla per il dissenso provocato da un singolo articolo sul quale è stato un errore porre la fiducia». Arturo Scotto, coordinatore di Articolo1, dà per scontata la frattura ma persegue l’idea che si possa trovare una soluzione che argini il tracollo nei collegi uninominali. «Dopo l’errore grave di aver fatto cadere il governo e diventare strumento dell’estrema destra, un accordo tecnico può darsi sia una strada percorribile, un tentativo va esperito».

LA NARRAZIONE che comincia provenire tra i 5Stelle è che il Pd abbia scelto di rompere il fronte progressista usando la crisi di governo come scusa per abbandonarsi alle correnti centriste. «Il Pd con Draghi e Calenda ha scelto l’agenda liberale – dice ad esempio il deputato Luigi Gallo – Il M5S sceglie di dare voce a chi è debole, a chi si sta impoverendo, alla generazione che contrasta le devastazioni ambientali. Siamo la forza che può guidare una moderna alleanza ecologica e progressista senza compromessi». Gallo è uno dei circa 40 parlamentari che si trova al secondo mandato e che dunque non verrà ricandidato. Ha fatto sapere, e come lui ha fatto un pugno di deputati e senatori, di voler restare comunque «al servizio del progetto politico di Giuseppe Conte». Non tutti la prendono con filosofia: alcuni dei big starebbero ancora attendendo che l’avvocato trovi modo di concedere loro una deroga. Potrebbe tornare utile una proposta di compromesso avanzata ormai più di un anno fa: i personaggi di primo piano aspiranti al terzo mandato potrebbero essere schierati soltanto in quota uninominale, là dove dovrebbero conquistarsi i voti uno a uno per superare gli altri candidati.

 

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PATADRAG. Per la destra nodo candidato premier. Il centrosinistra spazia da Fratoianni a Calenda

Letta ora svolta al centro: un Ulivo a trazione moderata Enrico Letta e Carlo Calenda - LaPresse

Davvero pronto e preparato ad affrontare la precipitazione elettorale non era nessuno. Nodi da sciogliere di corsa ci sono per tutti ma quelli della destra sono pochi anche se ben intrecciati. Per Giorgia il quesito principale si chiama Giorgia: o c’è il via libera al suo ingresso a palazzo Chigi o ci salutiamo subito e ciao ciao. «Se non riuscissimo a metterci d’accordo su questo non avrebbe senso andare al governo insieme», affonda la Sorella preparando il terreno per il vertice decisivo di domani. Salvini però non ha alcuna intenzione di impantanarsi da subito: «Lasciamo a sinistra litigi e divisioni. Chi avrà un voto in più avrà l’onore e l’onere di indicare il premier». Del resto, questi sono problemi che si pongono, se del caso, il giorno dopo le elezioni e a seconda del quadro reale che si ha di fronte, non da prima per farsi danno da soli. Le cose saranno meno facili quando domani si tratterà di comporre l’altro e ben più urgente dissidio, quello sulla composizione della lista maggioritaria, se sulla base delle percentuali rilevate dai sondaggi come nel 2018 oppure «alla romana»: 33% per uno. Si vedrà domani pomeriggio.

PER IL PD la situazione è molto più difficile e confusa: come si fa a recuperare una strategia messa a punto per anni e distrutta nel giro di qualche ora? Provando a inventarsene un’altra a spron battuto: il vecchio Ulivo, o una sua riproposizione che solo le urne diranno se fuori tempo massimo o meno. Al centro, come la Quercia che fu, il listone Democratici e Progressisti. Trattasi del Pd, con le consonanti al contrario, però con l’Art. 1 di Speranza, i cattolici di Demos, forse i socialisti e i civici di Pizzarotti a insaporireil piatto forte. Intorno il Cocomero composto da Sinistra Italiana ed Europa Verde da un lato, Azione e + Europa di Calenda-Bonino dall’altro.

FACILE A disegnarsi, un po’ meno a costruirsi ma

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