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LA QUASI CRISI. L’avvocato rivendica «coerenza» sul decreto Aiuti. Decisivo l’incontro di oggi tra governo e sindacati. Grillo chiede un segnale «subito» sul salario minimo. Una decina i senatori contrari comunque alla fiducia

Conte alla scelta finale: «No ad accordi al ribasso» Giuseppe Conte - LaPresse

La salita al Colle di Draghi non passa inosservata nella sede 5s di Campo Marzio, dove Conte si chiude a metà pomeriggio con lo staff e un pugno di fedelissimi. In serata la linea che prevale è quella della cautela, nessuna accelerazione verso la crisi fino a quando (oggi) il premier non incontrerà i sindacati a palazzo Chigi. Da lì devono arrivare risposte sull’agenda sociale, a partire dal salario minimo rilanciato ieri da Grillo come massima tra le urgenze dopo i dati «pazzeschi» dell’Inps sul lavoro povero.

E CHISSÀ CHE NON SIA proprio il garante, anche stavolta, a guidare il Movimento in uno dei passaggi più stretti della legislatura. Se il segnale che arrivasse dal premier fosse credibile sulla lotta alla povertà, allora anche l’indigesto decreto Aiuti potrebbe essere trangugiato dal M5S giovedì in Senato. Forse. Perché dopo la mossa di ieri di uscire dall’aula della Camera per non votare il decreto (solo un deputato, Francesco Berti, ha disobbedito), il piano si è fatto inclinato.

Votarlo in Senato, dove il voto è unico (fiducia più testo) non sarà comunque semplice per la truppa grillina. Le voci di palazzo Madama, sempre più incontrollate, confermate da alcune chat interne tra senatori («Non voto neppure se mi vengono a prendere a casa»), dicono che almeno una decina su 62 non è disposta a votare la fiducia. Che uscirebbe dall’aula anche se l’avvocato desse ordine di votare sì.

MA QUESTO È SOLO UNO dei problemi. Ieri, prima che il premier salisse al Colle, Conte ha motivato la decisione del non voto alla Camera come «una questione di coerenza e linearità». «Era stato anche anticipato, è tutto chiaro». In realtà l’ordine di scuderia è arrivato pochi minuti prima, e la dichiarazione in aula del capogruppo Davide Crippa (uno dei meno propensi allo strappo) ha avuto toni piuttosto duri: «Sui temi energetici il Parlamento non ha toccato palla. Siamo di fronte a un testo blindato che lo sarà anche in Senato».

E ancora: nel decreto «ci sono interventi utili seppur non risolutivi per frenare l’impennata delle bollette», «qualche passo avanti che abbiamo contribuito a compiere». Ma «non c’è una spiegazione razionale nel voler inserire una norma che apre al termovalorizzatore a Roma».

I NODI RESTANO QUELLI di due mesi fa, quando la delegazione 5S non votò il provvedimento in consiglio dei ministri. In più c’è ormai la chiara consapevolezza che il testo non verrà toccato in Senato, come il M5S sperava fino a un paio di giorni fa di poter fare. Restano dunque intoccabili anche le norme sul superbonus edilizio. Quelle su cui il Movimento ha cercato fino all’ultimo di intervenire, per investire più soldi per sbloccare i crediti incagliati. Ed è stato proprio il no di palazzo Chigi su una nuova iniezione da 3 miliardi sul bonus a spingere Conte al primo strappo alla Camera.

IN ASSENZA DI UNO SCATTO sui temi sociali, la strada per la non fiducia sembra segnata. Nonostante le pressioni del Pd e di Articolo 1, gli alleati che pressano Conte per restare nella maggioranza fino a fine legislatura. Anche ieri telefonate e messaggi da tutti i big dem, da Letta in giù, per spingere sul senso di responsabilità dell’avvocato. Secondo i dem sarebbe «singolare» annunciare una crisi di governo proprio nei giorni in cui il premier si impegna coi sindacati per una svolta sociale.

«Non possiamo perdere questa opportunità», l’appello del Pd. «Nel vostro documento in 9 punti consegnato a Draghi ci sono proprio i temi su cui il governo intende fare un passo avanti». «Stiamo a vedere, le prossime 48 ore sono decisive», filtrava ieri dalla sede M5S. «Non vogliamo accordi al ribasso», il messaggio recapitato agli alleati.

LA LINEA DELL’USCITA dall’aula di palazzo Madama (pur non decisa ufficialmente) a ieri sera sembrava prevalente. «Un’ipotesi sul tavolo», conferma il fedelissimo Mario Turco. «Ma non significherebbe automaticamente uscire dal governo». «Ma niente fughe in avanti», è la raccomandazione recapitata ai falchi. L’avvocato ha capito, dopo la salita al Colle di Draghi, che il premier non ha intenzione di derubricare un nuovo strappo parlamentare. Che stavolta non si scherza.

E tra i senatori meno ribelli c’è chi ricorda: «Abbiamo detto che c’è tempo fino a fine luglio per valutare i nostri 9 punti. Una accelerazione potrebbe apparire incomprensibile». La decisione finale arriverà domani sera, in una riunione tra Conte e i senatori.