Ripensare il tanto chiacchierato superbonus in chiave ecologica, attraverso l’elettrificazione degli edifici residenziali. È una delle proposte emerse nella terza edizione della Conferenza nazionale sul clima «Italy for Climate», che si è svolta ieri a Roma presentando una nuova roadmap «per realizzare anche in Italia una accelerazione senza precedenti della transizione ecologica».
Per farlo, sono state illustrate tre proposte operative prioritarie che «nei prossimi tre anni da sole produrranno un risparmio di oltre 15 miliardi di metri cubi di gas e il taglio di quasi 40 milioni di tonnellate di gas serra». Sono rivolte a governo, istituzioni, imprese e cittadini. La prima è raggiungere al 2030 l’85% della produzione elettrica nazionale attraverso fonti rinnovabili (oggi è circa al 40%). Poi, appunto una riforma del superbonus dell’edilizia per elettrificare 3 milioni di abitazioni in tre anni, con un risparmio di risorse pubbliche e un innalzamento dei benefici ambientali connessi. Il sistema in vigore da quasi due anni non ha prodotto risultati sufficienti nell’ottica della riduzione dei consumi energetici e della decarbonizzazione. E, infine, come terza proposta, mobilitare i cittadini attraverso «Faccio la mia parte»: una campagna per incidere molto e velocemente sui consumi di energia attraverso i comportamenti individuali.
Italy for Climate è un’iniziativa della Fondazione per lo sviluppo sostenibile, presieduta dall’ex ministro dell’Ambiente Edo Ronchi, realizzata in partnership con Enea e Ispra, promossa da alcune aziende e associazioni. E ha ottenuto il patrocinio del Ministero per la Transizione Ecologica, della Commissione Europea e di Rai per la Sostenibilità.
«L’Italia – ha detto Edo Ronchi –deve dotarsi quanto prima di una legge per il clima, come hanno già fatto Germania, Francia e Regno Unito, per varare misure concrete di adattamento al cambiamento climatico, coinvolgendo i diversi settori e i territori. Abbiamo accumulato 30 anni di ritardi e, a causa dello scarso impegno nella riduzione delle emissioni, subiamo già oggi ingenti danni: incendi, siccità, eventi meteorologici estremi sono conseguenze gravi davanti agli occhi di tutti».
Danni ambientali, alle persone, all’economia, all’agricoltura, alle imprese sono evidenti e saranno sempre più gravi, con una perdita di Pil – stimata da Italy for Climate, che a dicembre aveva presentato un pacchetto di 40 proposte – dell’8%, ossia oltre 140 miliardi di euro ogni anno a partire dai prossimi decenni.
Le rinnovabili, sostiene il documento della conferenza, sono considerate «strategiche e decisive» e l’elettrificazione dei consumi è «un driver fondamentale della transizione energetica, ma solo se associata alla progressiva decarbonizzazione grazie alle fonti rinnovabili». Italy for climate propone di rendere le città e il territorio protagonisti con nuovi target effettivamente vincolanti su produzione e consumo di energie rinnovabili. «Per uscire dalla dipendenza fossile dalla Russia e costruire un sistema energetico più sicuro e resiliente, dobbiamo accelerare subito la transizione energetica – ha aggiunto Ronchi, sottolineando la coerenza della richiesta con il piano europeo RePowerEu –, è prioritario attivare subito un programma organico di misure concrete per le fonti rinnovabili e l’autonomia energetica».
No, infine al nucleare, che vede invece più favorevole il ministro Roberto Cingolani. I tempi tecnici di realizzazione degli impianti nucleari sono molto lunghi e, anche immaginando di partire domani, andrebbero ben oltre il 2035, cioè ben oltre il tempo limite per vincere la sfida climatica. «Dobbiamo trasformare questo momento difficile – conclude Andrea Barbabella, coordinatore di Italy for Climate – in una opportunità per accelerare la costruzione di un sistema energetico più efficiente, più rispettoso della salute del pianeta e delle persone e basato prioritariamente sulle risorse che abbiamo in casa nostra, come il sole o il vento. Tutto questo non solo è possibile ma ha anche ricadute economiche e sociali positive importanti, anche se ovviamente la transizione va saggiamente accompagnata per non lasciare nessuno indietro».
«Il Paese è sull’orlo del baratro. Il M5S è l’unica forza che incalza il governo su questa emergenza. È responsabilità far finta di non vedere? Siamo disponibili a collaborare con il governo. Non a concedere una cambiale in bianco. Non possiamo che agire con coerenza o il Pese non capirebbe. Al Senato domani non parteciperemo al voto. Chi ci accusa di irresponsabilità deve guardare al suo cortile».
Dopo le 12 ore più surreali nella storia politica italiana, dopo ore di indecisioni, ripensamenti ed esitazioni, Giuseppe Conte ha scelto di andare avanti anche a costo di rischiare la crisi
Leggi tutto: Il premier deciso a dimettersi. Ma il dilemma ora è il suo - di Andrea Colombo
Commenta (0 Commenti)QUASI CRISI. Oggi consiglio nazionale e assemblea dei senatori
Giuseppe Conte si chiude nel bunker in attesa del «segnale» dal presidente del consiglio: gli serve un argomento che gli consenta di poter rivendicare di aver spostato l’agenda del governo. Mario Draghi non può aprire il mercato delle rivendicazioni all’interno della maggioranza, ma a modo suo cerca di spedire messaggi.
Fa sapere che dopo di lui non c’è un Draghi bis e manda a dire ai grillini che la lettera che gli ha consegnato una settimana fa Giuseppe Conte contiene «punti di convergenza» col programma di governo. Poi mette sul tavolo il salario minimo ancorato alla contrattazione collettiva.
Conte ascolta, prende nota ma non si esprime. Convoca per questa mattina il Consiglio nazionale pentastellato. «Non parlerà prima di domani, per rispetto dell’organismo che deve coadiuvarlo nella decisione», dicono i suoi. Il leader procrastina anche perché da giorni percepisce che è fuori sincrono: non è lui a battere lui il ritmo della crisi e non aveva messo in conto di dover imboccare così presto il bivio della rottura col governo.
I tempi gli sfuggono. Aveva chiesto risposte «entro luglio» e meditava un’eventuale uscita dalla maggioranza «entro l’estate», cioè a settembre. Nell’arco di queste settimane avrebbe potuto elaborare una strategia e soprattutto avrebbe fatto apparire la rottura, se si fosse arrivati a quel punto, come inevitabile. Ma l’avvocato non ha tenuto presente alcune variabili. Le prime riguardano l’esistenza di altri attori. In una partita tanto delicata e complessa i tempi non li gestisci da solo: basta che Silvio Berlusconi torni in scena per chiedere una verifica di maggioranza per far saltare i piani. Inoltre, uscire dall’aula dopo aver votato la fiducia alla Camera o evitando persino di farlo al Senato non è segnale di attesa paziente e costruttiva: sono scene che raccontano una spaccatura già in corso.
Questo, d’altra parte, è quello che chiede la maggioranza dei parlamentari del M5S: si considerano ormai liberi di giocare la loro partita all’opposizione, senza il contrappeso dei realisti di Di Maio. La spaccatura la vogliono quelli al secondo mandato, per giocarsi il tutto per tutto. La chiedono quelli che stanno ancora al primo, in modo da investire alle prossime elezioni i dividendi (presunti) del ritorno all’opposizione. C’è un drappello di avanguardia che ha già fatto sapere che non seguirà il leader se dovesse decidere di restare nell’esecutivo. Questa sera all’assemblea dei senatori si manifesterà anche la forza uguale e contraria di quelli che gli chiedono di tirare il freno a mano e restare al governo. Carlo Sibilia, sottosegretario all’interno che a pochi minuti dalla conferenza stampa di Draghi ieri si è affrettato a diffondere un messaggio che canta vittoria per rivendicare l’importanza dello stare al governo. «Da giorni ci definiscono irresponsabili perché chiediamo con forza il salario minimo – dice Sibilia – Oggi Draghi annuncia un provvedimento sul salario minimo. L’azione politica del M5S è seria ed efficace». Da via Campo Marzio prendono le distanze: «È una posizione individuale».
Intanto, Luigi Di Maio continua il suo viaggio al centro dello spettro politico. Ieri ha riaccolto tra i suoi anche l’ex direttore del Tg5 Emilio Carelli, che si propone come ambasciatore tra i moderati (tendenza centrodestra) del sindaco di Venezia Luigi Brugnaro. Il ministro degli esteri attacca il M5S e manda messaggi a quelli rimasti dentro che vorrebbero restare in maggioranza. «C’è una forza politica, il Movimento 5 stelle, che sta generando instabilità e che sta mettendo a repentaglio gli obiettivi che dobbiamo raggiungere per il paese – dice il ministro degli esteri – Giovedì al Senato c’è una verifica della maggioranza. Non ci può essere una forza che dice: ‘Forse giovedì mi astengo’. Ci dicano se stanno dentro o fuori».
Commenta (0 Commenti)SPAGNA. L’inasprimento della guerra del gas con Mosca e il continuo aumento dei prezzi - in Spagna l’inflazione viaggia al 10,2%, oltre la media europea - hanno convinto il leader socialista ad accelerare
«La storia ci chiama» ha detto Pedro Sánchez durante il discorso sullo stato della nazione, prima di annunciare alcuni provvedimenti volti a rintuzzare la crisi economica, alcuni dei quali già accantonati o scartati nei mesi scorsi generando scontento in Unidas Podemos e tra gli indipendentisti baschi e catalani. Ma l’inasprimento della guerra del gas con Mosca e il continuo aumento dei prezzi – in Spagna l’inflazione viaggia al 10,2%, oltre la media europea – hanno convinto il leader socialista ad accelerare. Giusto in tempo per i notiziari di metà giornata, Sánchez ha informato sul varo di due nuove imposte straordinarie che avranno la durata di due anni: una si abbatterà sui profitti stellari delle imprese energetiche, l’altra su quelli accumulati dalle banche grazie al rialzo dei tassi d’interesse. Le misure mirano a portare nelle casse pubbliche 3,5 miliardi l’anno, utili a tamponare gli effetti dell’aumento dei prezzi sui settori sociali più deboli. Aumento dei prezzi, come dimostra uno studio dell’Ufficio Economico del sindacato Cc.Oo., frutto della speculazione e all’80% circa della crescita esponenziale dei profitti d’impresa, mentre i salari rimangono al palo o quasi.
«Questo governo non tollererà che imprese o singoli individui approfittino della crisi. I profitti provengono dalle tasche dei consumatori» ha promesso Sánchez. Per tentare di abbattere i consumi energetici privati, da settembre a dicembre gli abbonamenti per il trasporto ferroviario statale a corta e media percorrenza saranno gratuiti, e anche le comunità autonome concederanno lauti sconti. L’esecutivo poi concederà 400 euro a tutti gli studenti con più di 16 anni che beneficiano di una borsa di studio e sbloccherà la Operación Campamento, un piano per la realizzazione a Madrid di 12.000 alloggi, il 60% dei quali a gestione pubblica.
Imbracciando alcuni degli argomenti utilizzati dalle sinistre per criticarne lo scarso coraggio, l’ultima parte del suo intervento Sánchez l’ha dedicata ai provvedimenti che intende approvare nell’ultimo anno di legislatura: dalla legge per la mobilità sostenibile a quella contro la tratta e lo sfruttamento degli esseri umani, dalla norma contro la discriminazione razziale alle leggi sul segreto di stato (quella in vigore risale al franchismo) e sulle lobby. E poi la legge sulla casa, finora rimandata a per i contrasti tra il Psoe e Up, e quella sulla «Memoria Democratica» che incontra resistenze nello stesso Partito socialista.
Mentre Miguel Tellado del Pp prometteva opposizione, i viola hanno rivendicato la «svolta a sinistra» quale frutto delle proprie pressioni. Difficilmente, però, Up potrà bloccare l’aumento di un miliardo della spesa militare decisa dal premier.
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Negli ultimi decenni, a partire dal 1991, i pacifisti dei paesi Nato hanno considerato un esempio quegli Stati occidentali neutrali, che non bombardavano paesi in guerre di aggressione né manovravano in guerre per procura – anche se Svezia e Finlandia avevano entrambe aderito al Partenariato per la pace promosso dalla Nato nel 1994.
La svolta atlantista inaspettata di questi ultimi mesi ha indotto due organizzazioni pacifiste attive in Svezia, Svenska Fredskommittén (Comitato per la pace) e Riksföreningen Nej till Nato (Associazione nazionale No alla Nato) a scrivere ai Parlamenti degli Stati membri dell’Alleanza atlantica chiedendo che la domanda di adesione da parte del loro paese venga respinta. Ne parliamo con Ulf Sparrbåge di Nej till Nato.
Come avete motivato la vostra richiesta di tenere fuori la Svezia?
Con due ragioni forti. Primo, in questa brusca rottura della tradizionale politica svedese di non allineamento, i cittadini non sono stati interpellati; il governo sa che c’è una diffusa opposizione e ha deciso in modo affrettato, quando in precedenza il primo ministro svedese Magdalena Andersson sosteneva che i cambiamenti improvvisi sono rischiosi. In secondo luogo, l’ingresso destabilizzerebbe la regione e renderebbe il mondo più insicuro. Vista anche la collocazione geografica di Finlandia e Svezia, il loro status di neutralità in un’area cruciale fra Nato e Russia è stato un fattore stabilizzante, ininterrottamente, per tutte le parti. È incomprensibile che si voglia far franare tutto questo.
La domanda di adesione di Stoccolma all’Alleanza atlantica è del 2022, ma Nej till Nato nasce nel 2014…
Sì. Fu quando il nostro paese firmò un accordo che permetteva alla Nato di condurre esercitazioni congiunte sul territorio svedese e ai paesi membri dell’Alleanza di dispiegare truppe in Svezia in risposta a presunte minacce alla sicurezza nazionale. Fu un fulmine a ciel sereno, un anno dopo le elezioni, senza tempo per informare, studiare le conseguenze. Dal 2014 protestiamo nelle strade, raccogliamo firme, prendiamo parte a dibattiti, distribuiamo volantini, scriviamo articoli. Ma ci sono anche divisioni nel mondo pacifista. E non c’è ricambio generazionale. I giovani non sembrano molto attratti dall’attivismo anti-guerra…
A maggio la Svezia ha firmato la domanda, il 5 luglio i membri dell’Alleanza hanno firmato i protocolli per l’adesione di Svezia e Finlandia ed è iniziato così il processo di ratifica che potrebbe concludersi in 6-8 mesi. Cosa pensate di fare?
La situazione è pessima. Comunque sono circa 40 le organizzazioni che lavorano per fermare questa marcia. E se la Svezia entrerà, ebbene continueremo a lottare. Per l’uscita. Come fate voi.
I partiti politici e la popolazione non temono l’impiantarsi di basi Nato e Usa, e la conseguente partecipazione diretta a conflitti all’estero?
Ormai solo due partiti sono contrari. Rappresentano insieme il 15% dei voti in Parlamento. Il Miljöpartiet (partito verde) e il Vänsterpartiet (sinistra). Chiedono di aspettare almeno fino all’esito delle elezioni di settembre per il rinnovo del Parlamento. In precedenza, nel paese la stragrande maggioranza era per la neutralità. È difficile interpretare il pensiero degli svedesi a proposito della Nato. Va detto che i media sono un grande problema. La copertura della crisi/guerra in Ucraina è sbilanciata in modo eclatante.
Ci sono ancora in Occidente paesi neutrali (Svezia e Finlandia, poi Austria, Svizzera, Irlanda, Moldavia, Serbia, Malta, la stessa Ucraina…). Se, per (improbabilissima) ipotesi, questa lista si allungasse, aiuterebbe la pace?
I paesi non allineati servono a controbilanciare le alleanze militari. E possono mostrare che le controversie vanno risolte sui tavoli negoziali. Piccoli e grandi Stati dovrebbero formare una rete di paesi militarmente non allineati, i quali lavorano affinché la guerra non sia mai più un meccanismo di risoluzione dei conflitti.
Era la proposta, tanti decenni fa, dell’economista indiano J. C. Kumarappa. E invece, dopo il vertice di Madrid lo scorso giugno, la Nato rafforzata che farà?
È un’alleanza che ha già una storia aggressiva, non certo di difesa. Lavorerà per espandersi a Est, anche in Asia. Ha puntato la Cina come il grande problema, insieme alla Russia naturalmente. La vediamo così: la Nato è il braccio militare degli Stati uniti e serve i loro interessi geopolitici, da difendere anche a mano armata, se occorre. Lavora in due modi. L’attore bellico a seconda dei casi può essere la Nato o suoi singoli Stati membri. E tutto ciò è reso possibile dal fatto che i leader europei sono deboli, molto deboli.
Nella guerra in corso la Nato agisce, oltre che politicamente, inviando armi a Kiev. Molti pacifisti ma anche analisti di diversi paesi sostengono che, senza questa fornitura militare, si sarebbero salvate molte vite perché sarebbe stato più facile condurre entrambe le parti a negoziare, sulla base degli accordi di Minsk. Che ne pensate?
È certamente un grande errore armare l’Ucraina. Prolunga la guerra, allontana il negoziato, aumenta le sofferenze e le vittime. Pochi vogliono ammettere che sulla pelle degli ucraini si gioca una guerra per procura fra Stati uniti e Russia. L’Ucraina, terra di frontiera, è il pedone da sacrificare, come nel gioco degli scacchi. Gli accordi di Minsk? La maggior parte dei giornalisti nemmeno li conosce. Eppure sarebbero il migliore punto di partenza per il peace building.
E la resa svedese alle richieste della Turchia di Erdogan?
Nel nostro paese ci sono molti curdi, in gran parte rifugiati. Era stato dato loro un porto sicuro. Adesso tutto cambia, è come un tradimento. E tradendo i principi non si ottiene rispetto nel mondo.
CRISI UCRAINA. Il Canada sospende le misure anti-Mosca per permettere la consegna delle turbine necessarie (secondo i russi) a riparare NordStream1. La Germania ringrazia. E la Commissione Ue apre agli aiuti di Stato per i settori più colpiti dal caro-energia
La stazione del NordStream1 a Lubmin, Germania - Ap/Jens Buettner
Sanzioni a geometria variabile contro la Russia, per evitare la chiusura sine die dei rubinetti del gas. Il Canada ha dato un «permesso a termine e reversibile» per consegnare le turbine Siemens, in manutenzione a Montreal, alla pipeline NordStream1, che da ieri è bloccata da Gazprom con la scusa delle «riparazioni» che dovrebbero durare per dieci giorni, fino al 21 luglio.
L’UCRAINA È FURIOSA, ha protestato e chiesto a Ottawa di non consegnare le turbine e rispettare le sanzioni. Ma il cancelliere Olaf Scholz ha ringraziato calorosamente i «nostri amici e alleati canadesi» che hanno deciso di mettere tra parentesi le sanzioni perché in caso contrario, ha detto il ministro canadese della Risorse naturali, Jonathan Wilkinson, i tedeschi sarebbero «incapaci di riscaldare le case nel prossimo inverno».
La Russia aveva già giustificato il taglio del 40% delle forniture di gas all’Europa con la scusa della mancata consegna delle turbine. La Germania è in prima linea con il blocco del NordStream1, a causa della forte dipendenza dal gas russo (al 55%, la media Ue era del 40% prima dell’aggressione all’Ucraina) e deve organizzarsi per far diminuire di circa il 30% la domanda di gas (per i Baltici si tratta di più del 50%).
Adesso sono arrivati nuovi tagli all’Eni, ormai circa la metà dei paesi Ue ha subito diminuzioni o il blocco nelle forniture di gas, il commissario all’Energia Kadri Simons rileva che gli arrivi sono oggi la metà di quelli di un anno fa alla stessa epoca.
Il 20 luglio la Commissione presenta un piano di emergenza per ridurre la domanda di energia. Il progetto non è ancora a punto, ma emerge con forza l’ipotesi di emettere un Regolamento (che gli Stati devono applicare subito, senza ulteriori passaggi istituzionali nazionali, a differenza delle Direttive, che vanno inserite nelle legislazioni dei singoli Stati) per attivare il «vincolo di solidarietà» tra i 27, come era stato fatto per il NextGenerationEu (il piano di rilancio) e i vaccini.
LA GERMANIA PREME. «Abbiamo bisogno di meccanismi vincolanti di solidarietà nella Ue», ha detto qualche giorno fa Manfred Weber, leader del Ppe. Intanto la Commissione, nell’ambito del programma RePowerEu, si prepara a essere di manica più larga nell’accettazione degli aiuti di Stato a sostegno dei settori più colpiti dal caro-energia.
In Francia il ministro dell’Economia, Bruno Le Maire, è in allarme: «Dobbiamo anticipare e metterci in ordine di battaglia adesso. Prepariamoci per un taglio totale del gas russo, oggi è l’opzione più probabile».
Per far fronte all’emergenza, il governo si prepara a presentare un nuovo piano di sostegno al potere d’acquisto, altri 50 miliardi nella speranza di evitare un autunno caldo dei gilet gialli. C’è anche la proposta del governo di requisire gli impianti di produzione di energia in caso di penuria (ha già in programma la nazionalizzazione di Edf, l’Enel francese, dove lo stato passerà dall’84% al 100%).
MA IN FRANCIA l’opposizione intona un’altra musica: France Insoumise da un lato, Rassemblement national dall’altro chiedono che Parigi esca dal mercato unico dell’energia, che essendo basato sul prezzo marginale (i prezzi sono indicizzati sulla fonte più cara) – sostengono – fa salire il costo in Francia che con il nucleare produce energia a prezzi inferiori.
A Bruxelles, la Commissione oscilla tra i difensori di un razionamento dell’energia e chi insiste sulla necessità di accelerare la diversificazione delle fonti di approvvigionamento (Gentiloni, Breton, Vertager). Nell’ultimo rapporto l’Agenzia internazionale dell’Energia prevede un raddoppio del nucleare entro il 2050, accanto alle rinnovabili, per ridurre le emissioni di Co2.
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