ISRAELE. La protesta si allarga: non solo più le famiglie degli ostaggi. Il governo: «Chi manifesta favorisce Hamas». Ma nessuno ci crede più.
Gerusalemme. Proteste contro il premier Netanyahu - Ap
Ronit Haufmann si è unita alle proteste domenica, quando un fiume umano ha raggiunto la Knesset per una nuova ondata di contestazioni del primo ministro Netanyahu. Ora è alla tendopoli allestita dai manifestanti davanti al parlamento. «Queste manifestazioni non sono più soltanto per chiedere un compromesso (con Hamas) che porti alla liberazione degli ostaggi. Vogliamo di più, le dimissioni di Netanyahu e le elezioni anticipate», spiega Ronit descrivendo l’escalation politica avuta dalla battaglia contro il premier cominciata mesi fa dalle famiglie degli ostaggi israeliani a Gaza. «Netanyahu è un fallimento totale, ha sbagliato tutto. Un anno fa ha attaccato le istituzioni giudiziarie, poi non saputo prevenire il 7 ottobre e non ha riportato a casa tutti gli ostaggi. E ora vuole permettere agli ebrei haredim (suoi alleati) di evitare la leva obbligatoria» aggiunge Ronit riferendosi al progetto di legge sostenuto dal primo ministro che esenta i giovani ultraortodossi dal servizio militare. A pochi metri, seduta accanto a un muretto all’ombra, c’è una anziana, con un gomitolo di lana rossa ai suoi piedi, che lavora a maglia la sua parte di una lunga sciarpa, ben 80 chilometri, che dovrà idealmente unire la tendopoli di Gerusalemme agli ostaggi a Gaza.
Dopo mesi le proteste sono sfociate in una contestazione che abbraccia un po’ tutto e non più solo l’insoddisfazione, se non la rabbia, delle famiglie degli ostaggi per negoziati in Qatar e al Cairo, ripresi ieri, che non hanno
Commenta (0 Commenti)Con una telefonata al padre di Ilaria Salis, Mattarella interviene per raddrizzare la linea del governo. È la seconda volta a stretto giro, dopo Pioltello. Stavolta il Capo dello Stato riconosce che la nostra concittadina nel carcere di Orbán sta subendo una disparità di trattamento. E dà la colpa al sistema ungherese: il governo amico di Meloni non è ispirato ai valori europei
IL TEMPISMO. Evidentemente il presidente della Repubblica ritiene importante controbilanciare con i propri interventi gli atti del governo quando risultano essere divisivi dell’opinione pubblica del Paese
Il presidente Mattarella - Ansa
La tempestività con cui il presidente della Repubblica ha voluto rispondere all’appello di Roberto Salis, addirittura meno di 24 ore, dice molto su diversi aspetti della vicenda di Ilaria, la concittadina detenuta in Ungheria in attesa di giudizio in condizioni al di fuori degli standard europei. Ma induce anche una riflessione su tema più generale dei rapporti tra il governo e il Capo dello Stato e sulla riforma del premierato che stravolgerebbe gli attuali assetti.
Venerdì pomeriggio, dopo la provocatoria udienza a Budapest, il padre aveva annunciato l’invio di un appello a Sergio Mattarella chiedendogli di «smuovere il governo italiano perché non aveva fatto quello che doveva fare». La telefonata del presidente della Repubblica è arrivata ieri mattina, praticamente subito, e già questo è un modo per condividere l’affermazione di Roberto Salis che il governo Meloni «non ha fatto quello che doveva fare».
A corroborare tale interpretazione c’è il fatto che lo stesso Mattarella ha autorizzato il suo interlocutore a diffondere la notizia della sua telefonata. Come qualche giorno fa, il 26 marzo, aveva autorizzato la vicepreside del liceo di Pioltello, professoressa Maria Rendani, a rendere pubblica la sua lettera di «apprezzamento» per il lavoro svolto dai docenti di quell’istituto scolastico, finito nel mirino del ministro Valditara.
Evidentemente il presidente della Repubblica ritiene importante controbilanciare con i propri interventi gli atti del governo quando risultano essere divisivi dell’opinione pubblica del Paese, come appunto l’attacco ai docenti di Pioltello per una scelta inclusiva verso le famiglie con una fede diversa da quella della maggioranza dei cittadini, o come l’inazione dell’esecutivo nei confronti di Ilaria
Leggi tutto: La fretta del Colle nel rimettere le cose al loro posto - di Kaspar Hauser
Commenta (0 Commenti)Il tetto agli stranieri nelle classi c’è già, ma è inapplicabile. La proposta sgrammaticata e ideologica di Valditara si scontra con la realtà. Opposizioni all’attacco: «È contro la Costituzione». Imbarazzo di Fratelli d’Italia, ma la Lega sostiene il suo ministro
EDUCAZIONE CINICA. La Lega difende la proposta sgrammaticata di Valditara, opposizioni all’attacco
Il ministro all’Istruzione (e merito) Giuseppe Valditara
Separare costa. Ma la demagogia sulle spalle dei bambini con background migratorio costa di più. Anche questa volta il ministro all’Istruzione (e merito) Giuseppe Valditara, con la sua proposta sul tetto agli studenti con famiglie di origine straniera, scivola sul razzismo istituzionale e dimostra di non avere piena conoscenza dei meccanismi che regolano il ministero che occupa.
Nell’ansia di assecondare il capo del suo partito (Matteo Salvini che, ospite da Vespa, aveva ripreso un suo vecchio cavallo di battaglia per continuare a fruttare elettoralmente la vicenda della scuola di Pioltello), Valditara si è prodotto nell’ennesima gaffe. Al cubo, dato che con un solo post ha fatto capire di essere in difficoltà con la Costituzione (sulla quale ha giurato) e con la sintassi. Quello che il leader della Lega non sa, ma che il titolare del dicastero dovrebbe conoscere, è che la legge italiana prevede già un tetto per gli studenti stranieri. Lo ha introdotto il governo Berlusconi nel 2010.
La circolare firmata dalla ministra di allora, Mariastella Gelmini, tutt’ora in vigore, prevede che non si debba superare il 30% di alunni stranieri «con una ridotta conoscenza della lingua» per classe. Ma concede delle deroghe che escludono, naturalmente, i bambini nati in Italia e quindi di madrelingua anche se con genitori immigrati.
UN RECENTE RAPPORTO di viale Trastevere, pubblicato quando il governo Meloni si era già insediato da otto mesi, ma che forse il ministro non ha avuto
Leggi tutto: Alunni stranieri, la propaganda del ministro fuori dalla realtà - di Luciana Cimino
Commenta (0 Commenti)Ilaria Salis torna in aula in catene: «13 mesi di carcere non sono poi tanti», la Corte magiara la rimanda in cella negando i domiciliari. Schiaffo a Meloni dall’amico Orbán. Ma a Milano i giudici negano l’estradizione a Budapest di Gabriele Marchesi: rischia trattamenti inumani
ANGHERIA. Il tribunale di Budapest dice no ai domiciliari, smentita la linea voluta dal governo. E i neonazisti minacciano. Intanto Gabriele Marchesi torna libero: la Corte d’appello di Milano respinge l’estradizione
Ilaria Salis in aula a Budapest durante il suo processo - Ansa
I Lei entra in tribunale a Budapest in catene. Lui esce dal tribunale di Milano da uomo libero. Le vicende di Ilaria Salis e Gabriele Marchesi, accusati entrambi di aver aggredito dei neonazisti in Ungheria nel febbraio dell’anno scorso, ieri hanno restituito tutti e due i lati di una medaglia di certo ingloriosa per il governo Meloni e per la diplomazia italiana.
Salis è tornata in aula a Budapest soltanto per vedersi respingere la richiesta di domiciliari in Ungheria: una decisione ampiamente annunciata ma lo stesso bruciante. La 39enne è prigioniera da 13 mesi per accuse che in Italia sarebbero di lesioni lievissime, e l’udienza di ieri stata soltanto uno spettacolo messo in piedi per ribadire al mondo il punto di vista di Budapest su questa storia. Lo spiega bene Roberto Salis, il padre: «Qui Ilaria è colpevole per tre motivi: è donna, non è ungherese ed è antifascista»«. La situazione, del resto, era chiara da tempo. E qualora qualcuno non lo avesse capito, all’ingresso in tribunale, la folta pattuglia solidale accorsa dall’Italia (parlamentari, associazioni umanitarie, il funzionario d’ambasciata Attila Trasciatti e anche il fumettista Zerocalcare) è stata accolta dagli insulti e dalle minacce di un manipolo di neonazisti: «Zitti o vi
Leggi tutto: Salis ancora in catene, Italia umiliata - di Mario Di Vito
Commenta (0 Commenti)I malati e i feriti di Gaza accolti negli ospedali italiani sono finiti in un limbo. Affidati alle associazioni o ai centri per migranti, senza finanziamenti né protezione speciale. Così l’operazione di soccorso del governo italiano è uno spot, mentre Roma taglia i fondi all’Unrwa e alle ong in Palestina
ACCOGLIENZA A METÀ. La vicenda dei bambini gazawi curati e "abbandonati" da noi e la tragedia di quelli che restano senza cure nella Striscia
Gaza City, 24 novembre 2023, corsa disperata verso l'ospedale al-Shifa - Ap
Sedotti e abbandonati. Prima trasferiti in Italia per essere curati, poi relegati in una zona grigia umiliante che con la protezione internazionale ha poco a che fare. Scaricati come pacchi ingombranti a quello stesso terzo settore che sul terreno, nei teatri di crisi dove è spesso l’ultimo baluardo di umanità, viene scientemente esautorato, screditato, de-finanziato. Sulla falsariga di quanto successo sempre in tema di Palestina con l’Unrwa.
Sono i bambini gazawi feriti o malati giunti in Italia con le loro famiglie per ricevere cure adeguate. Gli ultimi palestinesi costretti ad andarsene, in fondo. Come ai primi, non sembra essergli concessa la prospettiva di un ritorno, né quella di una permanenza serena. Visti sbagliati, fondi non previsti e e altri piccoli dettagli non compresi nel pacchetto di accoglienza.
La vicenda esemplifica il modo in cui il governo di Giorgia Meloni intende l’azione umanitaria. Uno spot come un altro, stile Piano Mattei, il beau geste a favore di telecamera e poi il contrario di quanto quell’immagine, il sorriso della premier nella foto di rito, per quanto tirato, vorrebbe annunciare. Tuttalpiù è un “30” che non diventa mai “31” perché qui l’azione, il blitz della Difesa c’è stato ed è stato sì, vivaddio, umanitario. Non è stato neanche semplice, dovendo negoziare con gli israeliani, ma alla fine ci si è riusciti. Strano che non si riesca a chiedere con altrettanta convinzione, da alleati di Israele, non dico di fermarsi, ma che almeno gli aiuti accatastati alle porte di Rafah imbocchino la strada inversa seguita da quei bambini, per salvare altre migliaia di persone ridotte alla fame.
Ovviamente ogni ferito o malato che si riesca a tirare fuori da Gaza in questo momento di cieca violenza è oro colato. Ma non cura l’ipocrisia di fondo, la scarsa volontà di esercitare tutte le pressioni possibili nelle sedi più opportune perché questo diritto di protezione – tralasciando per un momento quello fondamentale di vivere in pace nella propria terra – si estenda subito a ogni minore, ogni donna, ogni innocente che stia soffrendo le pene, dirette o indirette, della guerra scatenata contro la Striscia
Commenta (0 Commenti)IL VETO STRAPPATO. Dopo la risoluzione Onu, escalation di bombardamenti su Rafah. Trenta uccisi accanto allo Shifa. Tel Aviv lascia il negoziato a Doha. Dodici palestinesi muoiono affogati: cercavano di recuperare i pacchi di aiuti lanciati dal cielo. Altri sei morti nella calca per procurarsi un po’ di cibo
Gli aiuti umanitari paracadutati dal cielo sulle rovine di Gaza City - Ap/Mahmoud Essa
«Sono passate 24 ore dalla risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu che chiede un immediato cessate il fuoco durante il mese di Ramadan e quello che vediamo sul terreno è l’esatto opposto di quello che domanda la risoluzione». Così ieri Hani Mahmoud, corrispondente di al Jazeera da Rafah, descriveva l’escalation di attacchi sulla città all’estremo sud di Gaza, rifugio oggi a 1,5 milioni di sfollati palestinesi.
RAID AEREI, blocco degli aiuti e minacce di avanzare via terra su Rafah, questo il resoconto in breve della giornata di ieri. Che ha continuato a ruotare intorno alla storica astensione statunitense. Un «errore morale ed etico», l’ha definito il ministro degli esteri israeliano Katz, che non solo – ha aggiunto – non farà tacere le armi ma costringerà Israele a mostrare il pugno duro (militare), più di quanto non faccia già.
È l’dentica linea del resto del governo che, ben consapevole che è stata proprio la minacciata avanzata su Rafah a far muovere gli Stati uniti, sfida apertamente l’amministrazione Biden. Da parte sua Washington, ieri, ha provato a smorzare la portata della risoluzione, lanciandosi in una disamina legale poco realistica: la risoluzione non sarebbe vincolante, dice la Casa bianca; lo è, come tutte le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni unite, rispondono gli altri membri (permanenti e non).
A dare il via alla diatriba sono state le parole del portavoce del Consiglio della sicurezza nazionale degli Usa, John Kirby, secondo cui
Leggi tutto: Raid e fame, a Gaza è un giorno come un altro - di Chiara Cruciati
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