La protesta degli atenei per la Palestina diventa sempre più globale: negli Stati uniti cresce insieme a repressione e arresti; a Parigi occupa l’università più prestigiosa, Sciences Po. A Berlino sgomberate le tende davanti al parlamento, mentre Gaza aspetta l’attacco su Rafah
STATI UNITI. Reportage da Ucla e Usc, dove la polizia smantella l’accampamento solidale e arresta oltre 90 persone. Cancellata la cerimonia di laurea
L’accampamento per la Palestina nell’Università della California - Ap/Jae C. Hong
«Abbiamo cinque richieste», spiega Marie, studentessa del coordinamento Uc Divest che da l’altro ieri occupa il campus di Ucla. «Disinvestimento da aziende complici nel genocidio, come la Blackrock, interruzione delle collaborazioni accademiche con istituzioni israeliane, trasparenza sugli investimenti dell’università e che questa prenda una posizione a favore del cessate il fuoco. Infine respingiamo ogni repressione poliziesca sui campus». Parliamo nell’ultimo villaggio in solidarietà con la Palestina, quello sorto alla University of California di Los Angeles dove da giovedì un migliaio di studenti si sono appropriati dello spiazzo antistante Royce Hall, l’edificio neoromanico simbolo dell’ateneo.
Ucla è l’ultimo campus ad essersi aggiunto alla protesta che sta dilagando nelle università americane e coalizzando contro la guerra e la strage infinita di Gaza, un ampio movimento per la pace e contro la logica dell’oppressione.
Negli ultimi giorni la protesta si è allargata ad una cinquantina di atenei in oltre venti stati. In almeno 15 di questi la polizia ha effettuato arresti che sono complessivamente ormai oltre 550, in nessun caso ad oggi sono state formalizzate accuse contro i fermati, profilando l’uso delle forze dell’ordine come semplice strumento repressivo.
LE PROTESTE, pacifiche anche quando rumorose, sono degenerate solo dove c’è stato l’intervento della polizia, come ad Austin, dove sono state utilizzate cariche a cavallo, gas urticanti e proiettili di gomma. O alla Usc dove l’accampamento in solidarietà coi palestinesi è stato smantellato dai reparti antisommossa della polizia di Los Angeles e gli arresti sono stati più di novanta. Motivazione: gli studenti avrebbero «messo in pericolo gli agenti».
Il campus della University of Southern California è ora sigillato dall’esterno con guardie ad ogni cancello che filtrano esclusivamente gli studenti con documenti. Founders Park dove erano state erette le tende è deserto e transennato. In ultimo, l’università, piuttosto che rischiare ulteriori espressioni di dissenso, ha deciso di annullare del tutto l’annuale cerimonia di laurea, che proprio nel parco si sarebbe dovuta tenere il 10 maggio.
LA USC, si noti, ospita istituti di grande prestigio accademico ed autoproclamata cultura liberale come il Center for Advanced Genocide Research (dedicato allo studio delle «origini, dinamiche e dimensioni della resistenza al genocidio») o la scuola di giornalismo Annenberg che produce ricerca sulla
Commenta (0 Commenti)IRRESISTIBILI. Dall’inizio alla fine, la liberazione palestinese attraversa generazioni e lotte: ecologismi, femminismi, pacifismo. Alla partenza contestata la Brigata ebraica, all’arrivo a piazza Duomo qualche tensione
Un momento del corteo del 25 aprile a Milano - Gabriele Puglisi
Lia è appoggiata a un paracarro all’ingresso di piazza Duomo a Milano. Guarda sfilare il corteo, lunghissimo, e applaude a ogni bandiera palestinese. Al collo ha un fazzoletto dell’Anpi e una kefiah. «L’ho comprata anni fa a Hebron – dice – ma fino a oggi l’ho tenuta nel cassetto. Di solito venivo solo col vessillo dell’Anpi, ma questa volta l’ho voluta portare». La questione palestinese ha invaso la festa della Liberazione.
LA NUOVA MILANO
In piazza Duomo, già alle 13, le bandiere della Palestina occupano le prime file davanti al palco. In realtà, sono ovunque. Non c’è spezzone della manifestazione, di gran lunga la più partecipata degli ultimi anni, in cui il massacro in corso a Gaza non sia presente. Non poteva che essere così. Se i valori della Resistenza, come dice anche Primo Minelli, presidente del comitato permanente antifascista che organizza il corteo, «sono carne viva e cemento unitario della società italiana» quello che sta succedendo nel qui e ora nel mondo doveva essere centrale. Così è stato. «Stop Gaza genocide», c’è scritto su un cartello in mano a un giovane ragazzo, avrà vent’anni al massimo.
Lia applaude. «Quello è milanese», sottolinea. Certo, milanese di seconda generazione, come moltissimi partecipanti alla manifestazione. Ieri Milano c’è stata, e la cosa non stupisce. Milano c’è sempre il 25 aprile, perché la festa della Liberazione è nel dna di qualsiasi milanese che non sia fascista.
Ma ieri c’era anche una nuova Milano, quella delle seconde generazioni, che si è presa una fetta di corteo e l’ha fatto proprio. Chi in città ci vive, li conosce: sono i ragazzi e le ragazze (soprattutto le ragazze) delle periferie milanesi, quelle in cui sono costretti dalla gentrificazione. Indossano la kefiah, ascoltano la trap. E, dall’8 ottobre a oggi, hanno imparato a farsi vedere. Hanno riempito i cortei pro Palestina ogni sabato da mesi a questa parte e ieri erano in piazza per festeggiare una Liberazione che sentono lontana e per rivendicare la fine di un massacro che invece sentono vicino, troppo vicino.
QUELLI DEL 25 APRILE
Accanto a loro, c’era anche la solita Milano del 25 aprile, quella che sempre c’è stata e sempre ci sarà. Ma con una motivazione in più. Perché se al passaggio della Brigata ebraica a urlare «Israele assassino» c’era anche chi abita ogni giorno le vie della città un motivo c’è: la fine del massacro a Gaza è
25 APRILE, UNA DATA ESIGENTE. «Vogliamo che sfili una grande manifestazione, più grande del solito» scrivevamo un mese fa nell’appello che invitava a tornare a Milano questo 25 aprile. Siamo ottimisti, pensiamo che andrà così, […]
25 Aprile 1994 - Dall'archivio del Manifesto
«Vogliamo che sfili una grande manifestazione, più grande del solito» scrivevamo un mese fa nell’appello che invitava a tornare a Milano questo 25 aprile. Siamo ottimisti, pensiamo che andrà così, il corteo sarà pienissimo.
Ce lo dicono le tante adesioni, collettive e individuali, l’impegno degli organizzatori, la sensazione di aver intercettato e dato voce a un desiderio diffuso. Persino cresciuto nelle ultime settimane, al crescere delle motivazioni per fare di questa Liberazione una liberazione speciale.
Al centro del nostro 25 aprile c’è l’urgente mobilitazione contro le destre estreme in Italia e in Europa, che ormai mettono in discussione o cancellano principi e diritti che parevano acquisiti. E c’è l’opposizione popolare alla guerra, ormai trattata come un punto di programma dalle massime istituzioni Ue.
Cessate il fuoco e no al riarmo sono le parole d’ordine per l’unica opzione che ci resta: la pace.
In piena coerenza con l’eredità della Resistenza, combattuta anche per scacciare la guerra dal destino dell’Europa, quella di oggi sarà anche la grande manifestazione pacifista che aspettavamo da tempo. Per una soluzione negoziale del conflitto in Ucraina a più di due anni dall’aggressione russa. E per chiedere all’Unione e agli stati europei di agire per fermare la carneficina di Israele a Gaza. Smettendola con l’avallare – di fatto – l’azione di Netanyhau, capace di annientare l’istintiva solidarietà che il 7 ottobre aveva portato a Israele, seppellendola sotto una montagna di macerie e cadaveri palestinesi.
Poi c’è il governo Meloni che quotidianamente porta argomenti e attualità all’antifascismo. Disprezzo dei migranti, accanimento contro i poveri e gli ultimi, manganellate agli studenti, riduzione degli spazi di pluralismo, attacco ai diritti delle donne.
La lista è lunga e disegna un modello di governo e un sistema di potere che non è certo una riedizione del fascismo ma che ha nel cuore una troppo simile pulsione autoritaria.
Pensare che questa «matrice» possa essere cancellata con
Leggi tutto: La festa che non è una passeggiata - di Andrea Fabozzi
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CAMPUS LARGO. Dopo le retate alla Columbia si agitano Nyu, Yale, Mit... Proteste da Berkeley al Cal Polytechnic, richiesta la Guardia Nazionale
La protesta per la Palestina alla Columbia University - foto di Andrea Renault/Star Max
Gli arresti a centinaia non fermano le manifestazioni per la Palestina nelle università Usa, anzi sembrano provocarne l’allargamento a sempre nuovi campus. Una tendenza che non dà cenno di rientrare.
Non è più solo la Columbia University ad avere manifestazioni e sit in permanenti. A New York anche la progressista New School e la prestigiosa Nyu sono mobilitate, e così sta accadendo a Yale, al Mit di Boston, alla Tufts, alla University of North Carolina. Sulla costa ovest ci sono accampamenti di protesta all’Università della California, a Berkeley. Studenti si sono barricati all’interno della California Polytechnic State University. Per il Seattle Times, centinaia di studenti stanno organizzando una manifestazione nella regione di Puget Sound (Washington) a cui parteciperanno due dozzine di scuole superiori e college.
LA RISPOSTA DEGLI ATENEI non si discosta da quella della rettrice della Columbia, Minouche Shafik: chiamare la polizia e cercare di tenere a casa gli studenti con la didattica da remoto. La New York University ha chiamato la polizia per disperdere la folla che continuava ad aumentare, e quando da parte degli studenti sono state lanciare alcune bottiglie si sono verificati momenti di tensione ma niente arresti. A Yale invece decine di studenti sono stati arrestati con l’accusa di trespassing (sconfinamento), e Harvard ha deciso di sospendere il Comitato per la solidarietà con la Palestina. Se la risposta dei rettori non cambia, altrettanto accade con le reazioni degli studenti: «Come ebrea, come studentessa di Yale, come americana, sono convinta di non volere che gli omicidi continuino a verificarsi in mio nome e con i miei soldi – dice la 22enne Miriam Levine – E quindi continuerò a protestare».
PARTE DEL PROBLEMA è che i rettori di queste prestigiose e costose università private non possono permettersi di perdere i grandi donatori e quindi cercano di soffocare le proteste in nome della sicurezza. «Parlano della minaccia antisemita – dice Rachel Schwartzes, studentessa del Cuny, l’università della città di New York – ma più della metà degli studenti che protesta è ebrea. Il problema è che
Leggi tutto: Arrestarli non basta, la Palestina accende le università degli Usa - di Marina Catucci
Commenta (0 Commenti)Dopo i 300 cadaveri palestinesi allo Shifa, altri 283 corpi recuperati nella fossa comune dell’ospedale Nasser, terminato l’assedio israeliano. Donne, bambini, anziani, alcuni giustiziati e irriconoscibili. L’ennesimo crimine di guerra che l’occidente non vede
GAZA. Si dimette Aharon Haliva capo dell’intelligence militare israeliana per il fallimento del 7 ottobre. Bibi ora è sotto sotto pressione. Israele non ha fornito prove dell’accusa secondo cui dipendenti dell’Unrwa sarebbero membri di Hamas
Si scava nelle fosse comuni di Khan Yunis - Ap
«Vorrei dargli una sepoltura degna e pregare sulla sua tomba, solo questo», diceva ieri in un video una donna affacciandosi sulla fossa comune individuata accanto all’ospedale Nasser di Khan Yunis. Si riferiva al figlio 21enne scomparso da due mesi nella zona del complesso medico più importante nel sud di Gaza, occupato dalle truppe israeliane nelle scorse settimane. Difficilmente riuscirebbe a identificarlo. I corpi sono in avanzato stato di decomposizione. Appena recuperati, per ragioni sanitarie, vengono subito avvolti in sudari bianchi. Solo alcuni sono stati identificati grazie al ritrovamento dei documenti.
Ieri ne sono stati recuperati altri 73, da tre fosse comuni. In quella più grande, scoperta sabato, sono stati trovati 210 cadaveri di giovani e anziani e di donne. «Alcuni erano ammanettati e spogliati dei vestiti, altri sono stati giustiziati a sangue freddo» ha detto un medico del Nasser accusando l’esercito israeliano di aver cercato di «nascondere i suoi crimini» seppellendo frettolosamente i morti. La stessa accusa rivolta a Israele dalle squadre della Protezione civile che nei giorni scorsi hanno recuperato i corpi di circa 300 persone uccise da bombardamenti e combattimenti dentro e intorno all’ospedale Shifa di Gaza city. «Ci aspettiamo di trovare altri 200 corpi nelle fosse comuni», ha previsto Ismail Thawabta, direttore dell’ufficio stampa governativo.
Il calvario di Khan Yunis non è terminato. Nella parte orientale della città ridotta in gran parte in macerie, ieri sono
Commenta (0 Commenti)Spesso, quando si parla di ciò che sta accadendo a Gaza e in Cisgiordania, si utilizzano dei linguaggi e dei termini non corretti, come per esempio la “guerra” tra Israele e la Palestina o la “guerra” a Gaza. Quando si parla di Israele e Palestina, bisogna prendere in considerazione che la guerra di solito si fa tra due Stati con due eserciti alla pari. Per questo motivo non è il caso della Palestina, perché non c’è una guerra solo a Gaza, bensì ci sono un’aggressione e invasione sia a Gaza che in Cisgiordania.
Dal 7 ottobre a tutt’oggi, l’aggressione comprende anche la Cisgiordania: basta pensare ai posti di blocco dei soldati o attuati dai coloni (oltre 700) o al numero degli arresti che ha superato i 6.500 palestinesi, compresi bambini. In aggiunta a tutto questo vanno sottolineati i comportamenti e l’aggressività dei coloni contro i cittadini e le cittadine palestinesi.
Il numero dei coloni che vive in Cisgiordania oggi ha superato le 726mila persone distribuite in quattro tipologie di insediamenti: quelli grandi come Ma’ali Adumim situato ad est di Gerusalemme, Ofra situato tra Gerusalemme e Nablus, Ariel in Cisgiordania e Kariat Arbà. Questi insediamenti hanno raggiunto una dimensione territoriale e demografica simili a vere ed effettive città con oltre 25mila abitati.
In aggiunta a questi insediamenti, ce ne sono altri di dimensione minore e altri ancora che sono dei nuclei di insediamenti collegati tra di loro per un totale di 448 insediamenti. Una nuova forma di insediamenti che sta prendendo forma è quella legata ai pastori israeliani che occupano un terreno e allevano gli animali e che piano piano si espandano sia dal punto di vista territoriale che demografico.
Tutti questi insediamenti oggi rappresentano quasi il 43% del territorio della Cisgiordania, dove doveva nascere lo Stato della Palestina secondo gli accordi di
Leggi tutto: Palestina, il rischio di una nuova Nakba - di Milad Jubran Basir
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