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A Chicago via alla convention del partito democratico: l’ultimo giorno di Biden da leader, il primo della sua vice, l’insperato sorpasso su Trump… Ma la festa finisce appena parte il più grande problema dei dem: il corteo per la Palestina. Dove Harris è ancora chiamata «Killer Kamala»

Pal al centro. Si apre la convention di Chicago, ultimo giorno di Biden e primo dell’era Harris. Ma la questione palestinese si prende i riflettori

 La manifestazione per la Palestina a Chicago

Nella convention di Chicago il primo giorno è stato anche quello di Gaza. La US Palestinian Community Network, una coalizione di oltre 200 gruppi contro la strage israeliana nella Striscia ha chiamato a raccolta il popolo della contestazione alla strage infinita di Netanyahu.

«Questo è il nostro Vietnam», ha detto Hatem Abudayyeh, il coordinatore della protesta. «Dopo mesi di preparazione, il mondo ascolterà la nostra voce, non soltanto quelle che provengono da dentro il United Center», il palazzetto dove è in corso la convention, poco distante da Union Park da dove ieri è partito un corteo colorato e rumoroso. La manifestazione si è tenuta poco prima che dal palco ufficiale parlassero Hillary Clinton e Joe Biden, denunciato nel corteo come “Genocide Joe”.

«GLI STATI UNITI abilitano Netanyahu – ha aggiunto Abudayyeh – lo ha giustamente affermato anche il nostro sindaco qui a Chicago (il progressista afro americano Brandon Johnson), la maggiore città americana che ha approvato una mozione per un cessate il fuoco. Biden potrebbe fermare i bombardamenti. Oggi. È complice e con lui lo sono i leader del partito democratico. Compreso Chuck Schumer (il presidente del Senato, ndr), Nancy Pelosi e anche Killer Kamala». Nel corteo il nomignolo dispregiativo per Kamala Harris è stato invocato a gran voce.

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«La sua candidatura è storica» ammette Victoria, una studentessa con la kefyiah arrivata dalla Florida, dove in primavera è stata sospesa dall’università per aver partecipato ad un accampamento per la pace. «Ma questo non cambia sostanzialmente l’equazione su Gaza. Il problema è lo stesso partito democratico e la sua fondamentale complicità nel

sostenere Israele, compreso con l’ultimo pacchetto di forniture militari da 20 miliardi di dollari approvato appena la corsa settimana». «Ci svegliamo ogni giorno con foto di nostri amici e parenti dilaniati e bruciati dalle bombe», aggiunge un giovane palestinese di Chicago che marcia accanto a lei. «È questo dolore insostenibile che ci spinge nelle strade».

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La questione palestinese, che dallo scorso ottobre ha alimentato il più grande movimento di protesta degli ultimi decenni, è quindi inevitabilmente sfociata a Chicago, e non solo nelle strade. All’interno dello United Center, alla causa della pace ha dato voce anche una delegazione di “uncommitted”, eletti durante le primarie, senza esprimere preferenza per un candidato specifico. «Siamo qui per rappresentare le centinaia di migliaia di persone di coscienza che attraverso di noi hanno espresso al loro opposizione alla strage», ha affermato Abbas Alawieh, capo della delegazione uncommitted del Michigan, lo stato con la maggiore rappresentanza di elettori di discendenza araba e palestinese. «E siamo qui per ricordare anche a Kamala Harris che il nostro e loro voto non è scontato».

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«NON SIAMO INGENUI sul conto di Trump», dice Lexis Zeidan co-direttrice del uncommitted movement. «Siamo profondamente antifascisti e lotteremo con tutte le forze contro un suo ritorno. Oggi però siamo qui a chiedere gesti concreti da parte dei democratici e non solo parole. I bambini palestinesi non possono mangiare parole». La frase è stata ripostata da Rashida Tlaib, la parlamentare di origine palestinese che molti ricorderanno per la protesta silenziosa al discorso di Netanyahu al Congresso.

Il riferimento è all’assicurazione ripetuta da Kamala Harris. «La vice presidente Harris sostiene le proposte attualmente avanzate per un cessate il fuoco permanente, e per la liberazione degli ostaggi», si legge in un comunicato emesso dalla sua campagna. «Inoltre continuerà a dialogare con esponenti delle comunità palestinesi, ebraiche, musulmane ed israeliane». A questo scopo Harris la scorsa settimana ha designato un’emissaria speciale presso la comunità arabo americana. Si tratta di Nasrina Bargzie, lei stessa rifugiata politica afghana la cui famiglia ha trovato asilo prima di una brillante carriera iniziata con la laurea a Berkeley.

Kamala Harris ha anche avuto incontri con sindaco di Dearborn, la città del Michigan più densamente popolata di cittadini di discendenza araba, le cui preferenze potrebbero determinare le sorti di quello stato cruciale per la maggioranza nel collegio elettorale. La sensazione ieri a Chicago è stata che, se vorrà ottenerle, alle aperture simboliche dovranno necessariamente seguire azioni tali da giustificare, per molti di questi elettori, un voto per lei.

AL DI LÀ di un embargo totale ed immediato sulle forniture di armi ad Israele, che rimane improbabile, vi sono misure che potrebbero riportare almeno alcuni elettori nei ranghi. Fra queste l’applicazione delle norme già esistenti nel regolamento del Dipartimento di stato sul rispetto dei diritti civili da parte di stati che ricevono forniture militari. Esiste anche una legge inoltre, il Leahy Act, che prevede che paesi che ricevono aiuti militari non debbano avere procedimenti a carico come quelli intentati conto Israele alla Corte internazionale di giustizia. Sarebbe sufficiente che un’amministrazione Harris insistesse sul rispetto di queste regole (finora ignorate da Biden) per imporre una pausa alla forniture di armi a Netanyahu