Centinaia di migliaia di israeliani sono tornati in strada ieri contro Netanyahu. Dolore e rabbia per i sei giovani ostaggi uccisi da Hamas a un passo dalla liberazione, dopo il sistematico sabotaggio del negoziato da parte del premier, che non cede: «Nessun ritiro da Gaza»
Muro del Pianto. Israele è stato paralizzato dallo sciopero contro il primo ministro e a favore di un accordo con Hamas per liberare gli ostaggi vivi.
Manifestazione a Tel Aviv contro Benyamin Netanyahu - Ap
Centinaia di migliaia di israeliani ieri sono scesi in strada contro Benyamin Netanyahu, replicando le manifestazioni oceaniche di sabato sera. Non è riuscito a fermarli neppure il tribunale del lavoro che, accogliendo il ricorso del governo per la natura politica e non sindacale della protesta, ha ordinato alle 14.30 la fine dello sciopero generale in Israele proclamato da Arnon Ben David, capo della centrale sindacale Histadrut. Lo stop al lavoro in svariati settori, dalle imprese private ed enti locali a scuole ed università, ha comunque raggiunto il suo scopo.
Netanyahu non può nascondere quanto sia ampia la contestazione alla sua linea di chiusura di fatto all’accordo di tregua con Hamas a Gaza che può portare alla liberazione di decine di ostaggi israeliani ancora in vita in cambio della scarcerazione di centinaia di prigionieri politici palestinesi. Se da un lato gli israeliani condannano Hamas che ha giustiziato i sei ostaggi ritrovati alla fine della scorsa settimana in un tunnel a Rafah, dall’altro sanno che l’ostruzionismo del premier e la sua idea che solo la forza riporterà a casa i sequestrati, sono tra le prime cause della loro morte.
A maggior ragione dopo che si è scoperto che i nomi di alcuni degli uccisi figuravano nell’elenco dei 33 israeliani che Hamas si diceva pronto a liberare nella prima fase dell’accordo in tre fasi proposto a maggio da Joe Biden. Ieri sera Abu Obeida, il portavoce dell’ala militare di Hamas ha spiegato l’uccisione a sangue freddo dei sei ostaggi «con le nuove istruzioni date a coloro che sorvegliano i prigionieri dopo l’incidente di Nuseirat in caso di avvicinamento dell’esercito israeliano» (dove, l’8 giugno scorso, con una operazione costata la vita a oltre 200 palestinesi, l’esercito israeliano liberò 4 ostaggi). Abu Obeida ha voluto far capire che gli ostaggi saranno giustiziati se i soldati israeliani arriveranno ai loro luoghi di detenzione. «L’insistenza di Netanyahu nel liberare i prigionieri attraverso la pressione militare invece di concludere un accordo, significherà il loro ritorno alle famiglie dentro le bare».
Scioperanti e manifestanti israeliani ieri hanno scandito slogan di rabbia e sconforto mentre bloccavano strade e incroci in tutto il paese e la tangenziale Ayalon di Tel Aviv. Giunti in via Begin e poi in Piazza degli Ostaggi, vicino al quartier generale del ministero della Difesa, hanno invocato, al ritmo dei tamburi, un rapido accordo per il rilascio dei
Commenta (0 Commenti)Nella foto: Ragazzi ballano durante il festival musicale Brave Factory a Kiev, in Ucraina @Evgeniy Maloletka, Ap
Oggi un Lunedì Rosso che esplora il tema della comunicazione virtuale. Grida alla censura il magnate di X Elon Musk, dopo la decisione di un giudice brasiliano di bloccare le attività del social nel paese, per la presunta diffusione di fake news e propaganda pro Bolsonaro.
Il caso si aggiunge al recente arresto del fondatore di Telegram e induce una riflessione sul ruolo della tecnologia. Come la combinazione di smartphone e social media abbia aperto uno squarcio epocale sulla tutela dei diritti all’espressione, alla privacy e all’informazione.
Tra tweet, messaggini e comunicati stampa si è mossa anche la accidentata linea comunicativa del governo durante l’estate. La premier dichiara e sottolinea che la maggioranza è unita, ma per portare a casa la manovra non basterà un post.
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Leggi ultimo numeroSi vota oggi in due Land orientali della Germania, Turingia e Sassonia. Ma non è solo un test locale: i sondaggi prevedono l’exploit della destra neofascista di Afd, il candidato di punta è un antisemita conclamato. Socialisti e sinistra in crisi ed è il primo atto della corsa elettorale
Vento dell'est. Il voto di oggi in Sassonia e Turingia è destinato a innescare un terremoto in tutto il Paese, che andrà alle urne tra un anno. Il muro dei partiti tradizionali contro i deliri negazionisti di Höcke & co.
I sostenitori del partito di estrema destra AfD durante il discorso di Bjorn Höcke a Erfurt - Ansa
«Mi pesa il cuore pensando al risultato di questa sera». La confessione di Saskia Esken, segretaria della Spd, poche ore prima dell’apertura dei seggi, riflette in pieno l’importanza della posta politica in gioco oggi. Sulla carta il valore delle urne in Sassonia e Turingia è appena l’equivalente del rinnovo di due giunte regionali italiane nell’area più depressa del Paese, anche se i Land tedeschi sono veri e propri Stati semi-autonomi.
In realtà il doppio voto nella ex Ddr è destinato a innescare un terremoto politico in tutta la Germania al di là del mero esito del conteggio delle schede: sarà l’anticipazione dell’identico bubbone nero e rossobruno pronto a scoppiare alle elezioni in Brandeburgo tra 23 giorni ma anche il trend politico destinato a condizionare il voto per il rinnovo del Bundestag fissato per il 26 settembre 2025.
Ma queste urne rappresentano un vero e proprio incubo per la comunità ebraica non solo tedesca: Bjorn Höcke, spitzenkandidat di Alternative für Deutschland (Afd) in Turingia, capo della corrente di ultra-destra del partito, è un antisemita conclamato già condannato dal tribunale per aver usato slogan del Terzo Reich a chiusura di un suo comizio a Erfurt. I primi a preoccuparsi sono i responsabili del Memoriale di Buchenwald per niente convinti che quelle dell’aspitante-governatore di Afd siano solo innocue sparate elettorali. Specialmente se Hoecke non può davvero sostenere di non sapere ciò che dice: oltre che deputato al Landtag di Erfurt il negazionista della Shoah è anche un insegnante di Storia, seppure in aspettativa.
Sassonia
Secondo i sondaggi la partita per la conquista del parlamento di Dresda si riduce alla sfida a due fra il governatore uscente della Cdu, Michael Kretschmer, 49 anni, astro crescente nella galassia democristiana, e il “moderato” di Afd, Jörg Urban, ingegnere sessantenne con un passato nella riforestazione del Madagascar con Green League, transitato dal partito dei Piraten ai fascio-populisti che secondo lui «non sono di estrema destra». Del resto si ritiene «un ambientalista».
All’ultima rilevazione risultavano testa a testa con la Cdu a quota 33% e Afd al 31%, seguiti dal vuoto pneumatico degli altri partiti a eccezione della marcia trionfale di Sahra Wagenknecht. La sua Alleanza (Bsw) gode del 12% del consenso, un record considerando la data di nascita del suo partito, l’8 gennaio 2024, in seguito alla scissione della Linke. In proporzione la crescita del Bsw è stata quattro volte più veloce della pur rapidissima ascesa di Afd.
Qui il peso sul cuore di Saskia Esken si deve essenzialmente al 7% alla Spd, passata da partito di massa a forza politica di nicchia, mentre il Sole dei Verdi rappresentato dalla capolista, Katja Meier, ministra aggiunta della Giustizia del Land dal 2019, con un passato da punk, acerrima nemica di Afd nella aule giudiziarie, piange incollato al palo 6%: un soffio sopra alla soglia di sbarramento per l’accesso al parlamento.
La Linke ci prova candidando simbolicamente i due co-leader locali del partito, l’infermiera Susanne Schaper e il consulente Stefan Hartmann, ma parte dal 3% nei
Leggi tutto: Il bubbone nero è pronto a esplodere in Germania - di Sebastiano Canetta, BERLINO
Commenta (0 Commenti)Facciamo finta che tutto va bene. Dopo un’estate di litigi, il vertice di maggioranza si chiude con un comunicato che glissa su Ius Scholae, nomine Rai, balneari e autonomia. Parole vaghe anche sulla manovra senza coperture. Ma una «svista» rivela le distanze sull’Ucraina
Politica. «Totale sintonia su tutti i dossier», dice un comunicato preparato prima dell’incontro. Ma una «svista» rivela le distanze sull’Ucraina
Antonio Tajani e Giorgia Meloni - foto Ansa
Il comunicato conclusivo di un vertice di maggioranza tanto atteso quanto lungo, tre ore buone con i tre leader più Maurizio Lupi intorno al tavolo, è di quelli che si potrebbero scrivere alla vigilia e poi diffondere senza cambiare niente. Il summit non era convocato per chiarire e dipanare ma per chiudere, almeno ufficialmente, la guerriglia estiva. Questo e solo questo voleva la premier e questo è stato. Ecco dunque le varie e troppo ripetute attestazioni di granitica unità, indefessa determinazione nell’arrivare a fine legislatura portando a termine riforme e programma, addirittura «totale sintonia su tutti i dossier a partire dalla politica estera». Su un solo punto la premier, nella prolusione introduttiva, è tassativa: «Basta insistere con richieste impossibile in manovra come quota 41 o le pensioni minime a mille euro. Così si illudono i cittadini». E l’inevitabile delusione diventa un boomerang.
È Meloni stessa a dettare i tre punti credibili in una legge di bilancio «seria ed equilibrata»: «Taglio delle tasse, sostegno a giovani, natalità e famiglie, interventi per le imprese che assumono». Di pensioni non si parla.
Tajani, che prima del vertice aveva riunito lo stato maggiore azzurro, arriva combattivo. Non su qualche singola questione ma in generale. Rivendica il suo ruolo centrale nella trattativa sin qui vincente sulle deleghe per il commissario Fitto, la cui indicazione il Consiglio dei ministri ufficializzerà subito dopo il vertice. Reclama quella postazione centrale che il compagno di eurogruppo Weber, presidente del Ppe, già gli riconosce parlando senza mezzi termini di «governo Meloni-Tajani». Nel merito però il leader azzurro non si sottrae all’imperativo della premier: dal vertice bisogna uscire sbandierando una ritrovata unità. Anche a costo di una inaudita reticenza, di una conclusione che fa leva solo sulla vaghezza e più spesso sul rinvio.
L’INCIDENTE si verifica proprio sul punto su cui è d’obbligo glissare per quanto possibile, la
Leggi tutto: Destre nella palude. La pace è sulla carta, tutto il resto è rinvio - di Andrea Colombo
Commenta (0 Commenti)Israele e l'Occidente. Dietro l’escalation in Cisgiordania c’è assai di più della «lotta al terrorismo» palestinese o iraniano. C’è il progetto di arrivare all’annessione della West Bank e di tutte le terre bibliche di Giudea e Samaria
L'esercito israeliano pattuglia le strade durante l'attacco al campo profughi di Nur Shams vicino la città di Tulkarm in Cisgiordania foto di Issam Rimawi/Getty Images
Israele è uno «stato canaglia» o fuorilegge che minaccia la pace mondiale? Si direbbe che lo è diventato, violando per decenni le leggi internazionali e stando anche a quanto scrive in una recente lettera indirizzata al premier Netanyahu lo stesso capo dei servizi dello Shin Bet, Ronen Bar. Avvisando del pericolo rappresentato dai coloni israeliani armati, Bar afferma che «le armi ai civili sono state distribuite legalmente dallo stato israeliano».
Le forze armate israeliane, finanziate e rifornite a piene mani dagli Usa ma anche dagli europei e dall’Italia, hanno per altro inquadrato i coloni in una nuova unità la Desert Frontier Unit che recluta i suoi membri tra i più estremisti della destra israeliana. Dietro l’escalation in Cisgiordania c’è assai di più della «lotta al terrorismo» palestinese o iraniano. C’è il progetto di arrivare all’annessione della West Bank e di tutte le terre bibliche di Giudea e Samaria.
Anzi tra gli arabi c’è chi parla di un «terrorismo israeliano sostenuto dallo stato» con l’obiettivo di spaventare le popolazioni locali palestinesi, distruggere le loro proprietà e trasferirle in enclave isolate e assediate.
Al massacro di oltre 40mila abitanti di Gaza, si è aggiunto il massacro della Cisgiordania che come scriveva ieri Chiara Cruciati è la vera posta in gioco per Israele. La guerra a Gaza sta facendo da copertura per le costanti violenze e la continua espansione israeliana nella Cisgiordania occupata. Il ministro delle finanze israeliano di estrema destra, Bezalel Smotrich, ha annunciato nuovi progetti per espandere gli insediamenti nei territori palestinesi occupati, ignorando il diritto internazionale e il recente verdetto della Corte internazionale di giustizia secondo cui la presenza di Israele in quelle aree è illegale.
Israele persegue da decenni una politica di espansione in Cisgiordania, ma i vari governi hanno usato tattiche diverse. La coalizione di estrema destra oggi al potere ha accelerato il processo di occupazione della terra araba, con l’obiettivo di formalizzare quella che da tempo è una realtà di fatto.
Per terra e cielo, invasa mezza Cisgiordania
Altro che due popoli e due stati, formula logora e sfiancante che serve soltanto alla diplomazia occidentale per trarsi d’impaccio ed eludere le
Leggi tutto: Complici di uno Stato fuorilegge - di Alberto Negri
Commenta (0 Commenti)Medio Oriente. Operazione israeliana a Jenin, Tulkarem e Tubas. Dieci combattenti uccisi, campi devastati. Ordinato il coprifuoco per 80mila persone
Una madre fermata e in attesa di essere identificata dall’esercito israeliano durante l’operazione scattata a Jenin foto di Alaa Badarneh/Ansa
L’operazione militare lanciata ieri racconta una storia lunga sei decenni: è la Cisgiordania il vero obiettivo di Israele, non Gaza. Di Gaza non sa che farsene: territorio tra i più ricchi e liberali prima del 1948, dalla Nakba è una terra disastrata, definitivamente annichilita dall’assedio totale iniziato nel 2007. Dentro ci vivono 2,2 milioni palestinesi, praticamente lo stesso numero della Cisgiordania ma in un fazzoletto di terra infinitamente più piccolo. Ariel Sharon nel 2005 ordinò il ritiro di esercito e coloni non perché spinto da un inatteso desiderio di pacificazione, e difatti l’occupazione non è finita, si è solo resa invisibile.
Apparizioni improvvise, «da remoto»: bombardamenti a tappeto e confini sigillati. Si ritirò perché Gaza non interessa. La Cisgiordania è un’altra cosa: è «Giudea e Samaria», così la chiamano le autorità israeliane; è terra destinata a Israele, così la pensa l’ultradestra messianica oggi al governo. È l’obiettivo: confiscare più terra possibile con meno palestinesi possibile e realizzare un’annessione di fatto, come ora dice anche la Corte internazionale di Giustizia. Con buona pace della soluzione a due stati che riempie la bocca delle cancellerie occidentali.
In questi due anni di governo di ultradestra il progetto è stato portato avanti con l’ausilio dei coloni – in apparenza civili che operano per conto loro, in realtà braccio armato dell’autorità – e dai raid militari quasi quotidiani dentro le città (652 i palestinesi uccisi dal 7 ottobre). Ieri si è raggiunto un nuovo apice, con 80mila palestinesi prigionieri a Jenin, Tulkarem e Tubas e un assalto per terra e per cielo.
VENTIDUE ANNI FA l’invasione delle città cisgiordane avvenne in piena Seconda Intifada. La vita si fermò, la quotidianità divennero i funerali, gli scontri armati, i coprifuoco, gli arresti di massa e gli assedi, con due città simbolo della brutalità della risposta alla sollevazione palestinese: la Chiesa della Natività a Betlemme e la Muqata, il palazzo presidenziale, a Ramallah. Nella prima avevano cercato riparo 230 palestinesi, tanti combattenti; nella seconda viveva Yasser Arafat, leader dell’Olp e dell’Autorità nazionale palestinese.
L’operazione iniziata ieri ricorda Scudo Difensivo, 2002. Un’azione coordinata, lanciata in piena notte, che travolge la Cisgiordania settentrionale e i campi profughi negli ultimi anni alcova alla rinnovata lotta armata palestinese, Jenin, Tulkarem, Tubas. Poche ore dopo, nel primo pomeriggio, colonne di soldati a piedi sono penetrate a Shuafat, il campo di Gerusalemme.
Negoziato e bombe senza preavviso. Nella Striscia la tregua può attendere
I coprifuoco, gli ultimatum dell’esercito che danno tre ore ai residenti del campo di Nur Shams per andarsene, il ministero degli esteri che evoca l’«evacuazione» del nord della Cisgiordania ricordano anche altro. Fanno pensare a Gaza, modalità simili, stesso obiettivo: ridurre la popolazione palestinese in spazi sempre più
Leggi tutto: Per terra e cielo, invasa mezza Cisgiordania - di Chiara Cruciati
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