Reportage dalla striscia di Gaza dove gli aiuti non arrivano quasi più oppure vengono saccheggiati. Israele blocca i convogli e i pochi generi alimentari che si trovano hanno prezzi altissimi: 100 euro per un sacco di farina. La devastazione è totale, l’inverno è alle porte
L’arrivo di una consegna si nota subito: i pochi beni esposti diventano più vari, a qualche latta di piselli si affiancano bagnoschiuma o una decina di berretti per l’inverno. Intanto le gang saccheggiano i pochi camion in entrata sotto gli occhi delle truppe israeliane e piccole botteghe riaprono sotto le tende. E la gente mangia sempre meno
Folla davanti all’unico forno di Deir al-Balah – Getty/Ashraf Amra
Qualche giorno fa, alle prime ore del mattino, gruppi di uomini camminavano torvi per il mercato di Deir al-Balah assicurandosi, con l’ausilio di spavaldi Ak47, che le serrande fossero abbassate. Il mercato del centro è forse l’ultimo ancora in piedi di tutta Gaza. Chi ha viaggiato lungo la Striscia ormai resta sorpreso non di fronte ai palazzi sventrati o crollati su se stessi, ai cumuli di detriti e ambulanze accartocciate, agli accampamenti precari di tende avvolti dalla polvere, bensì di fronte a strade ancora integre, pareti verticali e palazzine con vetri alle finestre.
COME ANNUNCIATO da giorni, in queste vie con negozi e magazzini, una serrata è stata imposta contro il caro prezzi. Solo le piccole bancarelle potevano vendere i loro pochi prodotti. La frustrazione per i costi dei prodotti è ovunque, la protesta è stata un atto autonomo guidato dalle grandi famiglie che abitano la zona.
Nella zona centrale della Striscia si riflette la condizione generale: ciò che resta dell’amministrazione pubblica è in affanno e, mentre i combattimenti continuano a nord e sud, la sicurezza interna delle comunità è precaria visto l’aumento di criminalità e instabilità. In questo contesto le grandi famiglie hanno deciso di agire direttamente per contrastare quelli che sono definiti gli speculatori della guerra. Da moltissimi mesi i prezzi seguono le più classiche regole del libero mercato; nessun prodotto è facilmente accessibile, alcuni sono assenti, altri in limitata quantità e perciò soggetti alla mera logica del profitto.
Lungo la strada del lungomare di Al-Mawasi si incontrano piccoli nuovi commercianti, o i negozianti che hanno visto sparire la loro bottega e ricompongono le loro insegne in un nuovo spazio. L’arrivo di una consegna all’ingrosso si nota subito quando i pochi prodotti esposti diventano un poco più vari, e quindi a qualche latta di piselli si affianca una fila di bagnoschiuma o una decina di berretti per l’inverno.
Oltre a questo genere di negozio si incontrano banchi più settoriali, come dei ferramenta con rubinetti impolverati e water raccolti intatti fra le macerie, elettricisti con router sporchi e pannelli solari bucati dai proiettili, venditori di legno da ardere ricavato sradicando alberi o spaccando pezzi di mobili.
LE VERDURE sui banchi provengono da quel povero 30% delle terre agricole sopravvissute e l’apparizione di confezioni di aglio era una conferma: alcuni camion commerciali hanno passato la frontiera facendo sperare almeno in un lieve generale calo dei prezzi.
Un uomo che fuma a bordo strada attira l’invidia per il suo atto opulento poiché i prodotti di lusso come le sigarette (tutte di contrabbando) sono oggetto di quotazioni ormai leggendarie, 25 dollari una Marlboro, 30 dollari una Karelia egiziana, talmente pesante che può esser venduta ormai anche a misura, se in tasca non si ha abbastanza disponibilità: 10 dollari al centimetro.
Da ottobre 2023 l’importazione di sigarette è stata bloccata dalle autorità israeliane, anche i cerotti alla nicotina che alcune organizzazioni fornivano per trattare la dipendenza sono stati recentemente bloccati. Nonostante questo divieto, dagli aerei israeliani sono stati lanciati volantini con allegata una sigaretta, promettendone altre a chi avrebbe collaborato con lo spionaggio.
Anche i beni di prima necessità come cibo, materiale igienico, prodotti di uso quotidiano fluttuano con prezzi che fanno mascherare lo sconforto dei gazawi con un
Leggi tutto: La «legge» del mercato a Gaza - di Mattia Fontanella AL-MAWASI, GAZA
Commenta (0 Commenti)Dopo 44mila palestinesi uccisi la Corte penale internazionale spicca i mandati d’arresto per i leader israeliani Netanyahu e Gallant e il capo militare di Hamas Deif. L’accusa: aver intenzionalmente affamato e sterminato Gaza. Ma i massacri continuano: altri 90 morti
Arrestateli La Corte penale emette mandati d’arresto per il premier israeliano, l’ex ministro della difesa Gallant e il capo delle al-Qassam Deif. Sui leader israeliani pesano le accuse di crimini di guerra e contro l'umanità: sterminio, fame, trattamenti disumani. Canada, Paesi bassi, Italia pronti a eseguire, Parigi e Londra oblique. Amnesty: «Momento storico»
All’Aja c’è una giudice, anzi ce ne sono tre. E, comunque vada, hanno fatto la storia: per la prima volta in 22 anni la Corte penale internazionale ha emesso mandati d’arresto per leader occidentali, parte di quel gruppo di paesi che si autodefiniscono democrazie liberali pure quando il più alto tribunale del pianeta – la Corte internazionale di Giustizia – dice che no, sei un regime di apartheid.
I due leader sono Benyamin Netanyahu, primo ministro di Israele, il più longevo di tutti, e Yoav Gallant, suo ex ministro della difesa con cui – pur avendolo malamente licenziato appena due settimane fa – condivide un sacco di cose: un’accusa di genocidio di fronte all’Aja e ora la «certificazione» di ricercati per crimini di guerra e contro l’umanità.
«Dì al mondo che qui non ci sono strutture, strumenti, non c’è niente con cui operare. Nessuno ascolta», gridava la notte precedente un soccorritore palestinese ad al Jazeera. Davanti aveva un corpo decapitato che non riusciva a tirare fuori dalle macerie a Sheikh Radwan, quartiere di Gaza City dove due notti fa l’aviazione israeliana ha spianato un edificio di cinque piani. Apparteneva alla famiglia Al-Arouqi, ospitava sfollati. Ventidue uccisi.
QUALCUNO ad ascoltare c’era. C’è voluto del tempo, troppo, molto più del solito: sei mesi dalla richiesta mossa dal procuratore capo Karim Khan di spiccare mandati d’arresto per Netanyahu, Gallant e i vertici di Hamas, Ismail Haniyeh, Yaya Sinwar e Mohammed Deif.
In mezzo c’è stato tanto: l’omicidio extragiudiziale di Haniyeh, fatto saltare in aria a Teheran a fine luglio; l’assassinio in battaglia di Sinwar, un mese fa; una mole di minacce dietro le quinte e di pressioni pubbliche sulla Corte da parte di mezzo Occidente; le memorie difensive di Stati alleati di Tel Aviv che mettevano in discussione la giurisdizione della Corte.
I giudici hanno risposto ieri, contestualmente all’emissione dei mandati d’arresto: il tribunale può agire perché ha giurisdizione sulla Palestina, aderente allo Statuto di Roma. Seppur secretati, la Corte ha reso pubblici i mandati, scrive, perché è «nell’interesse delle vittime e delle loro famiglie venirne a conoscenza». Quasi a dare sollievo, giustizia o almeno un’impressione.
Nella nota diffusa ieri in tarda mattinata la camera preliminare della Corte dice di ritenere Netanyahu e Gallant «co-responsabili» di «crimine di guerra della fame come metodo di guerra e crimini contro l’umanità di omicidio, persecuzione e altri atti inumani» e di «attacchi intenzionali contro la popolazione civile» su base politica e nazionale: ci sono ragionevoli motivi per credere che Netanyahu e Gallant abbiano «intenzionalmente e consapevolmente privato la popolazione civile di Gaza di beni indispensabili alla sopravvivenza, tra cui cibo, acqua, medicine e forniture mediche, oltre a carburante ed elettricità, almeno dall’8 ottobre 2023 al 20 maggio 2024».
I tre giudici citano il taglio dell’elettricità, dell’acqua e del gas e la scarsità di aiuti alimentari e medici in entrata, che hanno reso gli ospedali incapaci di salvare vite umane, costringendoli a operare e amputare arti senza anestetici, infliggendo una sofferenza disumana.
E poi il crimine di sterminio che ricorda il lessico utilizzato nella Convenzione contro il Genocidio per cui da gennaio è aperto un fascicolo alla Corte internazionale: ci sono «ragionevoli motivi per ritenere che la mancanza di cibo, acqua, elettricità e carburante e di forniture mediche abbia creato condizioni di vita dirette a condurre alla distruzione di una parte della popolazione civile di Gaza».
Deif, comandante delle Brigate al-Qassam a Gaza – che Israele dice di aver ucciso a luglio, ma che la Corte considera in vita in mancanza di prove certe – è invece ricercato per i crimini di guerra di omicidio per le uccisioni di massa del 7 ottobre 2023 (1.100 israeliani vittime) e di rapimento (250 ostaggi) e per il crimine contro l’umanità di sterminio.
ORA – 44MILA, di sicuro molti di più, palestinesi uccisi dopo – ai 124 paesi firmatari dello Statuto di Roma spetta di fare da braccia esecutive di una Corte che non ha una sua polizia: se Netanyahu, Gallant o Deif mettono piede nel loro territori sono tenuti ad arrestarli e consegnarli all’Aja.
È su questo che si sono concentrate ieri le reazioni internazionali, con dichiarazioni di intenti chiarissime
Leggi tutto: «Ora Netanyahu è ufficialmente un ricercato» - di Chiara Cruciati
Commenta (0 Commenti)Il primo ministro di Israele e l’ex ministro della Difesa accusati di crimini di guerra e crimini contro l’umanità.
In particolare il crimine di guerra della fame come metodo di guerra; i crimini contro l’umanità di omicidio, persecuzione e altri atti disumani contro i palestinesi di Gaza; infine, in almeno 2 occasioni avrebbero attaccato intenzionalmente civili palestinesi.
Il comunicato della Corte penale internazionale
Balla fino all’ultimo la nomina del meloniano Fitto a vicepresidente della Commissione Ue. È il Pd che spinge i socialisti ad accettarlo. Ma le manovre dei Popolari contro la spagnola Ribera tengono tutti in ostaggio. La nuova maggioranza europea, con la destra, è già all’opera
Passaggio a destra Firmata l’intesa tra Ppe, socialisti e liberali sui commissari. Ma i popolari spagnoli ricattano la spagnola Ribera e tutto si complica
Foto di gruppo dei nuovi commissari europei Ap – foto Laurie Dieffembacq
Sulla strada dell’accordo per il via libera ai vicepresidenti della Commissione Ue si sono messi di traverso i popolari spagnoli. Era fondamentale per loro che nella lettera di valutazione della commissaria spagnola designata, la socialista Teresa Ribera, fosse inserita una nota: dimissioni in caso di incriminazione per le responsabilità nell’alluvione di Valencia. Una richiesta irricevibile per i socialisti europei anche per il fondato timore di politicizzazione di un eventuale caso giudiziario sollevato in Spagna. Durante le trattative (ancora in corso a sera inoltrata, mentre finiamo di scrivere questo articolo) i socialisti hanno rifiutato ogni riferimento a eventuali dimissioni. Arrivando a ipotizzare lo stop al commissario meloniano Raffaele Fitto, Ecr ma appoggiato con forza dal Ppe.
Fino a poco prima, la matassa dell’accordo sulla Commissione sembrava essersi sbrogliata attraverso l’intesa tra i capigruppo di maggioranza (Weber per Ppe, Garcia Perez per S&D, Hayer per Renew). A cascata era arrivato il via libera per i 6 vicepresidenti: Fitto e Ribera passano entrambi, l’ungherese Varhelyi pure, ma senza le competenze sui diritti riproduttivi e la gestione delle crisi sanitarie (leggi: vaccini).
AL VOTO sui vicepresidenti si era arrivati in modo a dir poco affannoso. Perché l’accordo di maggioranza negoziato tra i leader e passato al vaglio dei gruppi politici fosse confermato, si dovevano riunire le commissioni parlamentari e votare a maggioranza dei due terzi, un voto espresso dai soli coordinatori (uno per ciascuno degli otto gruppi parlamentari). Eppure, le riunioni, tenute in simultanea a partire dalle 19 di ieri, hanno riprodotto lo «stallo alla messicana» già
Leggi tutto: Europa, l’accordo c’è ma è appeso a un filo - di Andrea Valdambrini BRUXELLES
Commenta (0 Commenti)I pronto soccorso sotto stress, reparti in emergenza, cure rimandate. La salute italiana è malata e definanziata, anche l’Ocse lancia l’allarme. Medici e infermieri sono ancora senza risorse, senza sicurezza e anche senza risposte dal governo. Oggi scioperano
La chiamavano sanità Scioperano oggi medici e infermieri. Non tutti: l’emergenza va garantita ma proprio nel comparto più cruciale lo Stato non investe. Il ministro Schillaci ha ammesso: solo un miliardo in manovra, le assunzioni rimandate al 2026
Niente fondi né assunzioni: salute a rischio
Non sarà un giorno senza medici perché, come in tutti i servizi essenziali, il diritto di sciopero nel comparto sanità è rigidamente regolato. Ma l’astensione dal lavoro proclamata per oggi da medici e infermieri rischia di scombussolare i piani di recupero delle liste d’attesa del ministero. Secondo l’Anaao, la Cimo-Fesmed e il Nursing Up che hanno indetto lo sciopero «sono a rischio tutti i servizi di assistenza, cinquantamila esami radiografici, quindicimila interventi chirurgici programmati e centomila visite specialistiche», più vari servizi assistenziali infermieristici e ostetrici a domicilio.
IL PRONTO SOCCORSO però deve essere garantito per legge. E tra gli infermieri, la categoria più in crisi di organico, sono pochi i lavoratori che possono scioperare senza scoprire turni indispensabili. Molto dunque dipenderà dalla partecipazione dei medici ospedalieri. In ogni caso, per dare visibilità alla mobilitazione le sigle si sono date appuntamento a mezzogiorno a Roma nella centrale – ma non enorme – piazza Santi Apostoli dove interverranno i segretari Pierino Di Silverio (Anaao), Guido Quici (Cimo-Fesmed) e Antonio De Palma (Nursing Up). L’ultima sigla ad aderire allo sciopero è stata l’Ascoti, il sindacato dei chirurghi ortopedici e traumatologi attivi soprattutto nella sanità privata. Non saranno in piazza invece medici e infermieri della Cgil, già impegnati per il prossimo sciopero generale del 29 novembre.
LA PIATTAFORMA di oggi mette al centro le retribuzioni degli operatori su cui pesa il mancato rinnovo del contratto per i medici della sanità privata, la detassazione promessa e mai arrivata per quelli del Servizio sanitario nazionale (Ssn) e «l’esiguo e intempestivo incremento dell’indennità di specificità infermieristica». Il tema che più interessa i cittadini è la denunciata «assenza di risorse per l’immediata assunzione di personale» nella prossima manovra. La data di oggi nasce infatti dopo le giravolte del ministro della salute Orazio Schillaci. Prima della presentazione della manovra, si diceva ottimista sulla possibilità di un investimento di oltre tre miliardi e vagheggiava un piano di assunzioni a lungo atteso. Poche ore dopo, sconfessato dal collega dell’economia Giancarlo Giorgetti, era costretto ad ammettere che il miliardo sul piatto era uno solo e che le assunzioni non sarebbero partite prima del 2026, conti permettendo. Troppo anche per i sindacati più accomodanti.
LA MOBILITAZIONE sottolinea anche la scarsa sicurezza degli operatori dopo un autunno punteggiato dalle aggressioni a medici e infermieri. Il governo ha risposto all’emergenza con
Leggi tutto: Niente fondi né assunzioni: salute a rischio - di Andrea Capocci
Commenta (0 Commenti)Elezioni regionali Il risultato è una democrazia in crisi: resta il guscio della sfida - campagna elettorale, promesse, polemiche, maratone - ma non c’è alcuna vera delega
Seggi vuoti in Umbria – LaPresse
Per le Regioni che si immaginano come Stati, competenti su tutto e proprietarie di tutte le risorse, secondo il progetto di Autonomia fermato dalla Corte costituzionale ma non per questo abbandonato dalla destra, ormai non vota quasi più nessuno.
Questo è il primo dato che le elezioni di ieri in Emilia Romagna e Umbria non confermano rispetto alle precedenti cinque regionali di quest’anno: alle urne va solo un elettore ogni due. Almeno quando va bene, altrimenti è anche peggio, come ieri in Emilia Romagna dove il crollo è stato verticale: tra le ultime elezioni e quelle di domenica e lunedì sono spariti altri 700mila elettori (come il totale degli abitanti di Bologna, Parma e Piacenza).
L’astensione ha motivazioni sia profonde – debolezza dei partiti, sfiducia nella capacità delle politica di risolvere i problemi, proposte al tempo stesso non credibili e non radicali – sia contingenti – voto in inverno e, nel caso dell’Emilia Romagna, scarsa contendibilità. Il risultato è una democrazia in crisi: resta il guscio della sfida – campagna elettorale, promesse, polemiche, maratone – ma non c’è alcuna vera delega. Per fare solo un esempio, la Lega in Emilia Romagna dopo le elezioni di quattro anni fa poteva parlare a nome di 20 elettori ogni 100, oggi ne rappresenta appena 2.
Su queste macerie sorride il Pd. Il Pd più che il centrosinistra, entità in perenne via di formazione malgrado ogni passaggio elettorale confermi l’ovvio: una forma di unità è la strada obbligata per battere la destra nelle urne. I numeri dicono che, giocando in casa, il Pd è da solo la quasi totalità del centrosinistra: in Umbria vale sei volte la seconda lista della coalizione, in Emilia Romagna otto volte.
Una conferma dello schema «tronco più cespugli» che è anche conseguenza della polarizzazione dello scontro tra Meloni e Schlein. Una tendenza al ritorno del bipolarismo che non è nuova e che naturalmente non piace per niente ai più piccoli alleati. Conte e 5 Stelle per primi, il cui crollo elettorale continua voto dopo voto e che per questo rappresenta un problema anche per Schlein. Da quella parte si aspetti nuova concorrenza e altra ostilità.
Per fortuna della segretaria del Pd, il fenomeno del partito mangia-alleati si replica dall’altra parte, con la lista di Meloni a svolgere il ruolo di quella di Schlein. E con tutte le tensioni interne che questo squilibrio sta già producendo, e che può ancora aumentare, in una coalizione che deve (dovrebbe) tirare avanti a governare. Non è l’unica buona notizia per Schlein, visto che l’Umbria chiude l’anno delle regionali con la stessa nota positiva con cui era cominciato a febbraio in Sardegna: un’altra regione riconquistata dalla destra. In mezzo solo delusioni, dunque è un bel sospiro di sollievo. Ma è un sospiro e basta.
Commenta (0 Commenti)