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Striscia di sangue L'Unmas riferisce che 92 palestinesi sono stati uccisi o feriti da bombe e ordigni israeliani dall'ottobre 2023

Un ordigno inesploso a Deir al-Balah, nella Striscia di Gaza foto Majdi Fathi/Getty Images Un ordigno inesploso a Deir al-Balah, nella Striscia di Gaza – Majdi Fathi/Getty Images

Il 7 febbraio, Mohamed Al Qadi, 10 anni, giocava tra le macerie di Badr, a Rafah. Il cessate il fuoco era cominciato da un paio di settimane e, terminata la pioggia israeliana di bombe e missili su Gaza, il bambino credeva di potersi muovere e correre spensierato. I suoi compagni di giochi hanno raccontato che, a un certo punto, Mohamed si è allontanato per cercare qualcosa tra le rovine di un palazzo distrutto, quando un’esplosione lo ha ucciso all’istante. Una bomba o forse un proiettile di artiglieria, non ci sono certezze. La stessa sorte è toccata sette giorni dopo a Hammude Saud, 14 anni, saltato in aria su un ordigno nel campo profughi di Nuseirat. Sono solo due dei sempre più numerosi casi di palestinesi, spesso bambini, uccisi dalle bombe inesplose. Gaza è un campo minato. La popolazione, ogni giorno, deve affrontare un pericolo meno visibile, ma altrettanto letale delle bombe sganciate dagli aerei israeliani.

Il primo allarme era stato lanciato già lo scorso anno da Charles Birch, supervisore del Servizio di Azione contro le Mine dell’Onu (Unmas) nei Territori palestinesi, che in un’intervista aveva definito la quantità di bombe e missili inesplosi nella Striscia come una delle più alte registrate dalla Seconda guerra mondiale. Un nuovo allarme è arrivato nei giorni scorsi da Ocha (Onu): il numero delle vittime provocate dagli ordigni esplosivi è in rapido aumento. Dall’inizio del 2025 al 10 marzo si sono verificati almeno 18 incidenti con esplosioni che hanno provocato tre morti e 38 feriti, tra cui due bambini uccisi e 18 feriti. La maggior parte di questi episodi si è verificata dopo il cessate il fuoco il 19 gennaio, quando migliaia di sfollati palestinesi hanno cercato di tornare alle proprie case o a ciò che ne restava.

Unmas avverte che tra il 5 e il 10% delle bombe usate da Israele contro Gaza non sono esplose: da ottobre 2023, almeno 92 palestinesi sono stati uccisi o feriti da ordigni esplosivi. Aggiunge che migliaia di bombe e munizioni giacciono inesplose tra le macerie, rendendo impossibile una vera ripresa di Gaza senza una massiccia operazione di bonifica. Gli interventi dovranno essere realizzati esclusivamente da personale altamente specializzato, il cui addestramento nella Striscia è impossibile a causa dell’assedio israeliano. C’è anche il problema della presenza di oltre 10.000 corpi sepolti sotto le macerie. Il loro recupero aumenta il rischio per le squadre della Protezione civile di finire su bombe inesplose. Pertanto, è necessario l’impiego anche di squadre internazionali specializzate, con costi elevati e tempi lunghi.

Per Gaza è un’altra sfida titanica che, oltre all’Unmas, dovrà necessariamente coinvolgere organizzazioni non governative e aziende specializzate. Il livello di distruzione della Striscia infatti supera quello di altre zone di guerra recenti, Ucraina inclusa, sebbene il conflitto in quest’ultima si sviluppi su un fronte di quasi mille chilometri rispetto ai 40 di Gaza. Gli specialisti fanno riferimento al caso di Mosul, in Iraq, una città che ha subito una distruzione massiccia. L’operazione di sminamento e rimozione delle macerie a Mosul è stata estremamente complessa, e le stesse difficoltà sono attese a Gaza. «Se c’è una lezione che abbiamo appreso a Mosul – disse nell’intervista Charles Birch – è che ogni grande progetto di bonifica costa il doppio di quanto preventivato e richiede il doppio del tempo. La situazione a Gaza non farà eccezione».

Sul processo di sminamento peseranno i milioni di tonnellate di detriti dovuti alla distruzione di strade ed edifici. La stima è tra 41 e 47 milioni di tonnellate di macerie, di cui 2,3 milioni potenzialmente contaminate dall’amianto. La Banca Mondiale calcola che l’80% della rete stradale è stata danneggiata o distrutta e che 292mila case sono state rase al suolo.

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Michele Serra tra vessilli Ue e bandiere della pace: «Non abbiamo risposte, solo domande»

La manifestazione "L'Europa siamo noi" a Piazza del Popolo a Roma foto Cecilia Fabiano/LaPresse Un dettaglio della manifestazione "L'Europa siamo noi" in Piazza del Popolo a Roma foto Luciana Cimino

La manifestazione "L'Europa siamo noi" a Piazza del Popolo – Cecilia Fabiano/LaPresse

C’è un momento, nel mezzo della manifestazione, in cui dal bastione che dà sulla piazza, dal lato opposto del Pincio dove si trova il palco, vengono calati due striscioni. Uno accanto all’altro. Il primo porta la scritta «Riarmo sì, anche così» ed è sorretto da un gruppetto di giovani che sventolano bandiere dell’Ucraina e della Georgia. L’altro dice «L’Italia ripudia la guerra, No Rearm Europe» e viene esposto da una coppia di mezz’età accompagnata da tre ragazzini. Le due indicazioni, speculari e opposte, si affiancano come se nulla fosse e in fondo in pochi notano la contraddizione evidente, neppure le teste che fanno capolino dietro gli stendardi.

PIÙ SOTTO, in una piazza del Popolo gremita, la gran parte dei manifestanti che ha risposto all’appello di Michele Serra porta, come da copione, le bandiere blu con le stelle gialle in cerchio dell’Unione europea. Sono un po’ di meno, ma comunque saltano all’occhio, i vessilli arcobaleno della pace, che Cgil, Anpi e altre associazioni avevano invocato per arginare le derive belliciste, esprimendo un’adesione travagliata all’evento. Spiccano un paio di bandiere della Palestina. Davanti al palco si agita un Donald Trump di cartapesta che si ingozza di banconote.

IN NOME dell’antiberlusconismo, ormai venti anni fa, i girotondi misero insieme chi sosteneva l’allargamento dei diritti e quelli che roteavano manette. Ora si è erosa la base sociale di quello che Paul Ginsborg aveva definito «ceto medio riflessivo», la spina dorsale di quel fenomeno, l’età è piuttosto alta (sia tra gli oratori che nell’uditorio) e i punti di riferimento si moltiplicano. Dunque in nome dell’antitrumpismo possono stare insieme pacifisti e bellicisti? Il padrone di casa, Michele Serra, non può fare finta che le contraddizioni non ci siano. «Questa piazza non ha risposte – dice – Ma ha ben chiare le domande. Siamo un grande punto interrogativo di colore blu e consegniamo queste domande al parlamento italiano e a quello europeo». E ancora: «Non sappiamo oggi come si fa a ottenere la pace ed evitare la guerra». E così per un Roberto Gualtieri, il sindaco di Roma che ha parlato a nome dei suoi colleghi e che ha dato una grossa mano logistica alla manifestazione, che suggerisce che il tratto distintivo dell’Europa siano i diritti e il welfare, e che dunque non si debba parlare solo di sicurezza e armi, c’è un Corrado Augias che sostiene che l’Ue potrebbe essere «una potenza, potremmo essere il quarto attore in questo scontro globale». O ancora, Francesca Vecchioni, figlia del cantautore Roberto, dice che «l’inclusione per Trump è un problema, per noi una ricchezza» ma suo padre subito dopo ci tiene a precisare che «non si può accettare qualsiasi pace». Passa per molti l’idea un po’ astratta che l’Europa sia un’oasi di civiltà in un mondo che sta impazzendo anche se Andrea Riccardi, per la Comunità di Sant’Egidio, è uno dei pochi a ricordare la questione migrante e la necessità di non ridurre il continente a una fortezza escludente.

TRA LA GENTE si aggira Fabrizio Barca, del Forum disuguaglianze e diversità. Elenca i passaggi necessari su cooperazione, riconversione industriale ed ecologica e politiche sociali e infine una politica di difesa comune che razionalizzi le spese. «Esattamente il contrario di quanto proposto dalla presidente della Commissione Ursula von der Leyen – precisa Barca – E cioè il rafforzamento degli eserciti nazionali sotto il titolo del riarmo, quando invece alla difesa comune dovrebbe accompagnarsi la ripresa di tavoli negoziali di disarmo». Ci sono anche gli attivisti della Costituente Terra con Luigi Ferraioli, sostengono che l’Ue debba essere una «tappa esemplare del processo di unificazione del genere umano sulla base di pace e uguaglianza».

L’IDEA di ricomporre a unità questa massa di persone, di un popolo europeo senza simboli di partito, sembra svanire quando ognuno prende la sua via nel sabato del centro di Roma e la piazza si svuota. Dopo il 15 marzo viene il 16 e chi chiede un’Europa di pace e diritti, oltre l’atomizzazione e la rappresentazione, ha ancora un po’ di strada da percorrere

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Non c’è ancora la tregua e c’è già un piano per mandare le truppe dei «volenterosi» in Ucraina. Non caschi blu, ma soldati dei paesi che hanno armato Kiev. Il premier Uk Starmer, chiusa una riunione, ne convoca già un’altra di stati maggiori. L’Italia fa i conti e frena

GENIO MILITARE Starmer riunisce 25 Paesi in call e per giovedì ha già pronto un vertice militare operativo. Zelensky: «Mosca capisce solo un linguaggio»

Primo ministro della Gran Bretagna Starmer a colloquio online con vari leader europei foto Leon Neal/Ap Primo ministro della Gran Bretagna Starmer a colloquio online con vari leader europei foto Leon Neal/Ap

Giovedì ci sarà in Gran Bretagna una riunione dei responsabili militari dei paesi della «coalizione dei volontari», riuniti ieri in video-conferenza dal premier Keir Starmer, per concretizzare i piani di peace keeping che si profilano, nel caso dell’applicazione del cessate-il fuoco, per far rispettare il silenzio delle armi in Ucraina e gli impegni presi, che dovrebbero comprendere, tra le prime iniziative, il ritorno dei bambini ucraini prelevati dalla Russia. Ma neanche giovedì ci saranno gli Usa. Gli europei, con altri paesi come la Turchia, l’Australia e il Canada, stanno attraversando un momento di grande incertezza, con l’annunciata defezione dell’amministrazione Trump dalla difesa del vecchio continente. Alcuni paesi sono decisi a prendere parte a un’eventuale operazione di peace keeping – a cominciare da Gran Bretagna, Francia, Turchia – altri frenano. Keir Starmer afferma che Putin deve provare che fa «sul serio sulla pace» per arrivare ad «accordi di sicurezza solidi e credibili, il “sì, ma” della Russia non è sufficiente».

IN ATTESA della firma di Putin alla tregua, i 25 paesi rappresentati nella videoconferenza ieri hanno deciso di continuare la «pressione» sulla Russia. Volodymyr Zelensky ha sottolineato che «Putin ha già prolungato la guerra di una settimana» dopo l’accordo concluso a Gedda. Per il presidente ucraino, «Mosca capisce solo un linguaggio», quello della forza, mentre «da martedì c’è sul tavolo una proposta di cessate-il-fuoco, che avrebbe già dovuto aver luogo, ma la Russia fa di tutto per impedirlo».

«Tocca alla Russia mettere fine agli attacchi contro le città e le infrastrutture ucraine», dice Olaf Scholz. Ma anche il cancelliere tedesco, come Zelensky e tutti gli altri, non ritiene che sia il momento per recidere il legame con gli Usa. Zelensky parla di «pace più affidabile con contingenti europei e il sostegno Usa». Scholz sottolinea «l’importanza del ruolo leader del presidente Usa». Emmanuel Macron afferma che «Putin non dà l’impressione di voler sinceramente la pace», «vuole ottenere tutto e poi negoziare» e invita a «una pressione chiara» sulla Russia, «in accordo con gli Usa per ottenere un cessate il fuoco». Più marziale la presidente Ursula von der Leyen, che difende la sua agenda, con l’obiettivo di sottrarre potere agli stati nazionali sul fronte della difesa, ampliando il raggio della

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ReArm Il piano della presidente Ue spacca partiti e coalizioni. La premier dovrà compattare la sua maggioranza. La segretaria dovrà stanare la minoranza interna

La premier Giorgia Meloni a Torino per una visita all'Inalpi Arena foto Ansa La premier Giorgia Meloni a Torino per una visita all'Inalpi Arena – foto Ansa

Romano Prodi ironizza su maggioranza e opposizione impegnate in una nobile gara a chi è più diviso sul riarmo europeo. In realtà le due principali leader della politica italiana, al momento, sono impegnate soprattutto nel cercare di evitare che quelle divisioni si trasformino in disastro conclamato la settimana prossima in Parlamento. La premier rischia di più: è già un miracolo tutto italiano che la spaccatura a Strasburgo non terremoti maggioranza e governo. Ma neppure la leggendaria faccia tosta della destra italiana basterebbe a evitare lo sconquasso se il fattaccio si ripetesse in casa.

A MONTECITORIO e palazzo Madama la maggioranza dovrà mostrarsi unita sul riarmo e al confronto quadrare il cerchio è un gioco da ragazzi. La premier dovrà camminare sulle uova, assicurare che l’Italia non parteciperà mai a missioni in Ucraina senza egida Onu, prendere di mira la pretesa anglo-francese di imporre la propria egemonia, garantire che l’aumento di spesa per le armi non inciderà su Sanità e Welfare, assicurare, negando l’evidenza, che il piano di Ursula non implica ostilità nei confronti di Trump. Ma probabilmente dovrà anche trovare una formula tale da non costituire impegno rigido, per consentire a Salvini di votare un mandato e non una scelta già definita a favore del ReArm.

Sono trucchi che nella politica italiana abbondano sempre ma tutto diventerà molto più difficile se il leghista terrà il punto nel pretendere contropartite concrete su altri tavoli: soprattutto, al grido di “Non c’è pace senza pace fiscale”, il semaforo verde sulla rottamazione di 10 milioni di cartelle che vuole incassare entro marzo, in tempo utile per essere sbandierata a inizio aprile nel congresso leghista.

Per Giorgia i guai proseguiranno subito dopo, nel Consiglio europeo di giovedì e venerdì prossimi. I principali Paesi europei hanno preso male il suo strappo con l’astensione nella risoluzione sull’Ucraina. Pressata da Salvini e ancor più da Giorgetti, che guarda alla cassa, dovrà insistere su diversi punti, a partire dalle modalità di finanziamento del riarmo. Col rischio di essere considerata pericolosamente vicina all’area degli intoccabili e infrequentabili dei quali non ci si può fidare, come Orbán e Marine Le Pen. Quelli da cui da due anni fa il possibile per smarcarsi e prendere siderali distanze. Non sarà una settimana leggera.

PER ELLY le cose sono più facili. Nessuno nel Pd vuole riproporre nel Parlamento italiano la clamorosa lacerazione registrata a Strasburgo: non lei e neppure la minoranza. Lunedì e martedì i gruppi parlamentari si riuniranno e cercheranno un testo comune che, data l’ottima volontà di tutti, sarà quasi certamente trovato. La mozione del governo è destinata a essere bocciata a priori e su quella più insidiosa del M5S correrà in soccorso il voto separato. Soprattutto al Senato, dove la minoranza è più forte, qualche voto in dissenso ci sarà ma non dovrebbe assumere proporzioni tali da configurare una spaccatura profonda come quella di Strasburgo.

È POLVERE sotto il tappeto. Qualsiasi parvenza di unità il Pd riesca a trovare la settimana prossima sarà posticcia. La minoranza, consapevole di non avere chances di vittoria, non ha alcuna intenzione di imbarcarsi in una sfida congressuale dalla quale uscirebbe in ginocchio. A impugnare la carta del congresso incautamente messa sul tavolo da Zanda è così proprio la segretaria ma neppure lei, nonostante le spinte dei pasdaran del suo gruppo ristretto, riunito ieri fino a tarda sera, sembra voler davvero arrivare a uno showdown definitivo. Chiede il «chiarimento» e minaccia di scegliere la strada dell’ordalia congressuale per domare la minoranza e impedire che si ripeta il fattaccio della settimana scorsa. Ma se andrà così sarà l’ennesimo falso movimento: i due Pd continueranno a essere tali fingendo di essere uniti e non ci vuole molto a immaginare come la minoranza (e non solo quella) abbia preso le parole di Conte: «Il no al riarmo di Schlein è la premessa per un progetto politico di governo di cui la politica estera sarà un pilastro». Lo si vedrà del resto già oggi a Roma, in piazza del Popolo: mezzo partito invocherà l’Europa intendo “Riarmo” l’altra metà esalterà l’Europa per dire “No al riarmo”.

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Stati Uniti Nei primi 50 giorni di mandato l’indice di gradimento di Donald Trump scende di 11 punti: il 53% degli statunitensi disapprova la performance del presidente Usa, secondo il sondaggio della […]

Trump va giù nei sondaggi

 

Nei primi 50 giorni di mandato l’indice di gradimento di Donald Trump scende di 11 punti: il 53% degli statunitensi disapprova la performance del presidente Usa, secondo il sondaggio della Quinnipiac University.

Tra le manovre più odiate c’è lo smantellamento del dipartimento dell’educazione, respinto dal 60% degli intervistati, insieme alla guerra sui dazi al Canada, dal 58%, e al Messico, dal 56%.

Anche sull’immigrazione, cavallo di battaglia della sua campagna elettorale, il 49% degli interpellati ritiene che il tycoon non stia facendo un buon lavoro al confine.

Rispetto alla politica estera, i votanti approvano addirittura più Zelensky, con il 43%, rispetto a Trump, che non supera il 42%. Anche altri sondaggi di Reuters, Cnn e Center Forward, mostrano un declino nel gradimento di Trump da quando è stato eletto.

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Arrestati ed espulsi gli studenti che hanno manifestato per Gaza. E poi manette, perquisizioni nei campus e sanzioni per chi protesta contro la repressione. Trump e i presunti difensori del «free speech» si scatenano. Università richiamate all’ordine minacciando lo stop ai fondi

Reprimo emendamento L’ultimatum dell’amministrazione alla Columbia University di New York, misure disciplinari a chi ha occupato per la Palestina. Decine di facoltà sotto inchiesta: «discriminazione razziale» verso i bianchi

Protesta all’Arizona State University per l'evento della sezione ASU dei College Republicans United (Ap) Protesta all’Arizona State University per l'evento della sezione ASU dei College Republicans United – Ap

Gli agenti del dipartimento per la Sicurezza nazionale, (Dhs), giovedì sera hanno perquisito due dormitori della Columbia University. «Scrivo con il cuore spezzato per informarvi che stasera abbiamo avuto agenti federali del Dhs in due residenze universitarie – ha detto la presidente ad interim della Columbia Katrina Armstrong in una nota alla scuola – Nessuno è stato arrestato o trattenuto. Nessun oggetto è stato rimosso e non sono state intraprese ulteriori azioni». Ma la mattina successiva una piccola manifestazione di protesta è stata sufficiente a provocare l’intervento della polizia, arrivata alla Columbia con un furgone pieno di barricate per circondare la zona, e degli elicotteri per controllare dall’alto. «Per arrivare a questo risultato, l’anno scorso è servita l’occupazione del campus – dice Fernando, portiere di uno dei palazzi eleganti che si trovano intorno alla zona dell’università – ora basta un gruppetto di manifestanti pacifici».

LA PRESTIGIOSA Columbia University nei giorni scorsi ha infirmato via email che il consiglio disciplinare ha emesso delle sanzioni pesanti contro gli studenti che ad aprile 2024 avevano occupato la Hamilton Hall per protestare contro la guerra a Gaza. L’università non ha comunicato il numero degli studenti espulsi, sospesi o ai quali sono state revocate le lauree, limitandosi ad affermare che questi provvedimenti sono il risultato di una «valutazione della gravità dei comportamenti» portata avanti con un processo investigativo durato mesi e udienze individuali condotte dal Consiglio disciplinare universitario.

Tutta la procedura è stata monitorata dai deputati repubblicani che con la minaccia di cancellare miliardi di dollari in finanziamenti federali hanno ottenuto i registri disciplinari degli studenti coinvolti nelle proteste. La manovra restrittiva della Columbia arriva inoltre mentre l’università è nel caos per l’arresto e la tentata deportazione di un suo studente laureato, e attivista palestinese, Mahmoud Khalil, nonostante sia negli Usa con un permesso permanente, la carta verde, e sposato con una donna americana. Khalil, che non era tra i manifestanti accusati di aver occupato la Hamilton Hall, e altri 7 studenti identificati da pseudonimi, avevano intentato una causa per impedire al Congresso di ottenere i registri degli studenti della Columbia, sostenendo che fosse un attacco alla libertà di parola, in violazione del primo emendamento.

ORA KHALIL è detenuto in centro per migranti

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