Fronte est Macron e Starmer non intendono allentare le sanzioni a Mosca né cedere alla richiesta del Cremlino di smilitarizzare Kiev
Tusk, Zelenskyy, Macron, Starmer e von der Leyen al vertice dei “volenterosi” di Parigi – Ap
Ennesima fumata bianca da Parigi: nessuna decisione ma molte dichiarazioni altisonanti. Francia e Gran Bretagna continuano sulla linea dell’intransigenza verso la Russia, evocando una «forza di rassicurazione» che dovrebbe essere diversa dal contingente di peacekeeping menzionato finora ma si configurerebbe come una garanzia di sicurezza de facto per Kiev. Un corpo di militari internazionali (principalmente europei), sotto «un mandato delle Nazioni unite, che dispiegherebbero truppe di mantenimento della pace in quel momento». È la via della «pace attraverso la forza» più volte invocata da Zelensky che ha trovato ieri una formulazione semantica nuova.
A TENERE le fila della discussione il padrone di casa Macron, che ora vorrebbe formare un gruppo di «volenterosi e capaci», tra Paesi Ue e loro alleati (senza gli Usa) per contribuire a una «soluzione duratura» del conflitto in Europa dell’est. Una delle opzioni sul tavolo dei convitati a Parigi è stata il dispiegamento di una «forza considerevole» nell’Ucraina centrale, nei pressi del fiume Dnipro ma lontano dal fronte.
Secondo Associated Press, che ha raccolto le dichiarazioni di un anonimo alto funzionario di Parigi, un’ulteriore opzione, più conservativa, potrebbe essere lo schieramento del contingente occidentale nell’estremo ovest del Paese, magari a Leopoli, a ridosso della Polonia, o addirittura oltre il confine ma con la consegna di tenersi «pronto a intervenire». «Oggi la proposta viene da Francia e Regno Unito ed è accettata da Ucraina e altri stati membri, non c’è bisogno dell’unanimità per questa missione a guida francese e britannica.
Abbiamo lavorato in team anche con i rappresentanti delle Forze armate ucraine, per definire luogo, numero di forze e capacità. Niente è escluso, dalle forze di terra a quelle marittime a quelle aeree, ma queste non si sostituiscono né ad eventuali forze di pace né alle forze ucraine» ha dichiarato Macron a conclusione del vertice di ieri. La questione dell’unanimità è stata molto dibattuta e alla fine si è deciso di procedere ugualmente. I militari occidentali avranno due compiti fondamentali: addestrare l’esercito di Kiev ed evitare che l’Ucraina non sia attaccata di nuovo. Ma non si sostituiranno alle forze armate ucraine, non saranno forze di «mantenimento della pace» e non «combatteranno al fronte». Ma, proprio perché non c’è unanimità e Londra e Parigi hanno deciso in autonomia, le regole d’ingaggio sono tutt’altro che chiare e i rischi all’orizzonte sono molti.
AD ESEMPIO, è evidente che Macron e Starmer non hanno intenzione di acconsentire alle richieste di Mosca di una smilitarizzazione dell’Ucraina e del suo status di neutralità. Al momento Donald Trump non ha reagito ai proclami europei ma è chiaro che a lungo andare la voglia di protagonismo militare dell’Ue rappresenterà un problema per le trattative.
Per la portavoce del ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova, «Londra e Parigi continuano a escogitare piani per l’intervento militare in Ucraina mascherati da una sorta di missione di mantenimento della pace». Simili le dichiarazioni dei fedelissimi di Putin che accusano i «volenterosi» di voler costruire un «nemico comune» per giustificare il riarmo e la militarizzazione del Vecchio continente. Tra l’altro, evitando di intervenire direttamente sulle dichiarazioni uscite ieri da Parigi, il capo del Cremlino si è concentrato sui possibili sviluppi della politica trumpiana.
«Tutti sono ben consapevoli dei piani degli Stati uniti per annettere la Groenlandia, sono piani seri», ha dichiarato Putin citato da Interfax, «è profondamente sbagliato credere che si tratti di una sorta di discorso stravagante della nuova amministrazione americana». Non può passare inosservata la strana coincidenza dei discorsi sull’Ucraina, dunque delle mire russe, e dell’isola artica che Washington continua a reclamare. Un eventuale accordo del Cremlino e della Casa bianca sull’artico (anche senza la Groenlandia) potrebbe essere uno degli argomenti sul tavolo tra Trump e Putin per la spartizione delle rispettive aree di influenza.
SULLE DECISIONI di Trump si è espresso anche Macron che ha definito «paradossale» l’aumento dei dazi, «proprio nel momento in cui l’America chiede all’Europa più sforzi nella difesa». Il capo dell’Eliseo ritiene che le recenti decisioni di Washington creino «inquietudine» e ha auspicato che il tycoon ritorni sui suoi passi. In ogni caso, e questo è il punto focale del nuovo asse Francia-Regno unito: «Non possiamo dipendere dagli americani e non possiamo accettare che la pace dipenda solo dagli americani».
Commenta (0 Commenti)
Vertice di Parigi La premier: coinvolgere gli Usa. Ok della Lega. Il Capo dello Stato: «Le forze armate devono avere un approccio di deterrenza e prevenzione per difendere il diritto internazionale». Crosetto in Parlamento: «Servono più investimenti militari»
«Appare essenziale una riflessione sul nuovo contesto strategico internazionale che naturalmente richiederà conseguenti processi decisionali. Vale per le decisioni nel contesto dell’Alleanza atlantica e vale per le decisioni nell’Unione europea che non sono più rinviabili». Sergio Mattarella parla dopo l’incontro con i vertici dell’Aeronautica militare per il 102esimo anniversario dalla fondazione, al Quirinale.
E nel suo ragionamento, giocoforza, entra il caos geopolitico. «Le tensioni globali, la competizione – piuttosto caotica, per la verità – tra potenze per il dominio del mondo, l’inatteso ritorno del conflitto convenzionale in Europa, le nuove minacce ibride stanno alterando il contesto di regole faticosamente costruito, dalla comunità internazionale, dopo la Seconda guerra mondiale».
Ed è per questo, dice il Capo dello Stato, che le decisioni in sede Ue non sono più rinviabili. Senza per questo cedere ad una logica puramente bellicista. «La missione affidata alle Forze armate è quella di difendere gli ordinamenti democratici del Paese e il rispetto del diritto internazionale, operando sempre con un approccio di deterrenza, di prevenzione, di difesa collettiva», spiega Mattarella.
Nel suo discorso non ci sono riferimenti diretti al vertice di Parigi convocato da Macron sull’Ucraina, né sul piano di riarmo di von der Leyen. Meno che mai alle divisioni in politica estera tra le forze di maggioranza. Meloni a Parigi ha ribadito due concetti: il no dell’Italia alla partecipazione ad una forza militare in Ucraina e la richiesta di coinvolgere anche una delegazione Usa al prossimo summit dei «volenterosi».
Una «pace giusta e duratura» necessita del continuo sostegno all’Ucraina e di garanzie di sicurezza solide e credibili», si legge in una nota di palazzo Chigi, che per Meloni devono «trovare fondamento nel contesto euroatlantico, anche sulla base di un modello che in parte possa ricalcare quanto previsto dall’articolo 5 del Trattato di Washington».
Su questa ipotesi su cui la premier insite da tempo, garantire a Kiev il soccorso Nato in caso di nuova aggressione russa (pur senza una adesione dell’Ucraina alla Nato) , Macron « ha sollevato l’opportunità di un approfondimento tecnico», che Meloni «ha accolto con favore».
Una posizione molto prudente, rispetto agli slanci di Francia e Gran Bretagna, che la Lega ha salutato con soddisfazione: «Bene la linea del governo italiano, saggia e prudente, con la richiesta di coinvolgere gli Stati Uniti», dicono fonti leghiste. «Mai come in questo momento è doveroso abbassare i toni e soffocare le pulsioni belliciste».
In mattinata i ministro di Esteri e Difesa Tajani e Crosetto, sono stati ascoltati in Parlamento. « Per quanto riguarda l’attuazione e il monitoraggio del cessate il fuoco, sosteniamo da tempo un ruolo profilato delle Nazioni Unite, nella cornice autorizzativa del Consiglio di Sicurezza, di cui fanno parte anche Russia e Cina», ha detto Tajani.
Crosetto è uscito dallo schema della prudenza: «Nei prossimi mesi o anni le Camere dovranno decidere su un nuovo modello di difesa che preveda un aumento di organico, così la formazione, gli investimenti in difesa. Noi continuiamo a sostenere che l’interesse dell’Italia non è perseguire il riarmo ma costruire la difesa. Oggi la mancanza di investimenti, che dopo la caduta del Muro sono scesi drasticamente». E ancora: «Il ministro della Difesa deve chiedersi: “Se l’Italia domattina subisse un attacco di tre ore come quello ricevuto da Israele sarebbe in grado di difendersi?”. Se la risposta è no, deve agire. Il suo compito è impedire che quelle bombe cadano sulle città, sugli ospedali, sull’Italia».
Commenta (0 Commenti)
Isolata in Europa sulla guerra in Ucraina, silenziosa sui dazi americani che sono un guaio per l’Unione e un guaio doppio per l’Italia. Panico tra i produttori nazionali, ma Meloni scommette ancora su un rapporto speciale con Trump. Che però è smentito dai fatti
Il nemico americano L’attacco a Cina ed Europa colpisce anche i produttori locali attraverso la componentistica e le delocalizzazioni in Messico. La Casa bianca minaccia di tassare su «grande scala» l’Ue se farà asse con il Canada «contro la nostra economia»
Stoccarda, container nel porto – Ap
La sola certezza è che cresce l’incertezza economica in tutto il mondo, con il rischio di conseguenze gravi per l’occupazione e il benessere delle società. L’ultimo attacco al multilateralismo da parte di Donald Trump è l’annuncio di una sovrattassa alle frontiere del 25% per “tutte” le importazioni di auto, veicoli, camion non fabbricati negli Usa «in vigore dal 2 aprile, cominciamo a incassare il 3» poi, nel giro al massimo di un mese, i dazi verranno imposti anche a tutta la componentistica auto. Un 25% che si aggiunge ai dazi già esistenti, per l’export Ue si va al 27,5%, mentre «se costruite la vostra auto negli Usa, non ci sono dazi». E il 2 aprile è anche «il giorno della liberazione» per Trump, con la messa in atto dei «dazi reciproci» per tutti, l’occhio per occhio del commercio internazionale, tariffe doganali eguali a quelle imposte dagli altri, per tassare «i paesi che ci rubano posti di lavoro, le nostre ricchezze», che «ci hanno rubato molto, amici come nemici, e francamente sovente gli amici sono peggio dei nemici» (la Ue nata «per fregare» gli Usa).
I TITOLI delle case automobilistiche – straniere ma anche statunitensi – hanno sofferto ieri in borsa. Queste minacce di dazi «fanno pesare un’incertezza importante sulle previsioni di crescita», afferma il ministro francese dell’Economia, Eric Lombard. Persino il presidente della Fed, Jerome Powell, ha sottolineato un clima di incertezza «estremamente alto». Il colpo è pesante: gli Usa importano la metà delle auto vendute, per un valore nel 2024 di 214 miliardi. La mossa rischia un effetto inflazionistico, gravando sui prezzi, gli Usa aspettano 100 miliardi di entrate per i dazi. L’attacco, che mira alla Cina (125% di dazi), torna a colpire il Messico, da cui proviene il 16,2% delle auto vendute negli Usa, perché molti costruttori hanno delocalizzato per approfittare del costo del lavoro più basso.
I COSTRUTTORI USA, che hanno espresso subito preoccupazione, hanno ottenuto che i dazi vengano imposti solo sul prodotto finito e limitatamente alla parte non made in Usa, evitando una tassazione a ogni movimento delle componenti. Persino Elon Musk giudica un effetto «non trascurabile» sui costi per
Leggi tutto: I dazi Usa affossano l’auto su entrambi i lati dell’Atlantico - di Anna Maria Merlo
Commenta (0 Commenti)L'amica immaginaria Oggi sciopero della Fiom, Fim e Uilm
Atessa, fabbrica Stellantis – Luca Prosperi / Ansa
Il settore dell’automotive nazionale arriverà al 2 aprile già in crisi nera. I dazi dell’amministrazione Trump si innestano nel peggior momento del mercato delle auto. E il governo sovranista di Meloni balbetta davanti al precipizio in cui cadranno i lavoratori.
A dirlo non sono solo i sindacati dei metalmeccanici, che oggi scioperano in tutta Italia per il rinnovo del contratto e la salvaguardia dei posti di lavoro, ma anche gli studi di enti del settore. Il legame a doppio filo che ha l’industria dell’auto e quella delle componentistica (compresi quindi pezzi di ricambio, airbag, cinture di sicurezza, pneumatici, freni e componenti elettrici) con le esportazioni negli Stati Uniti rende il comparto altamente vulnerabile ai dazi Usa, in particolare in Italia e Germania. Secondo le stime di Oxford Economics le esportazioni automobilistiche tedesche e italiane potrebbero diminuire rispettivamente del 7,1 e del 6,6 per cento. E i dati forniti da Confindustria, che oggi parla di «dazi che si verificano in un momento infelice», non sono dissimili.
Federcarrozzieri nelle scorse settimane aveva evidenziato l’impatto negativo sia per i consumatori italiani, che potrebbero avere un rincaro dai 1.500 ai 3mila euro in più a modello nei prossimi mesi, che per alcune case automobilistiche: le conseguenze peggiori sarebbero per Stellantis e Volkswagen con miliardi di ricavi a rischio (16 per la prima e 8 per la seconda) con l’introduzione delle tariffe doganali. Va inoltre considerato anche il calo di produzione del resto della filiera. «Gli effetti, certamente negativi, ad ora non sono neanche prevedibili – dice Michele De Palma, segretario nazionale della Fiom Cgil – tutti si stanno concentrando sui dazi al 25% per quanto riguarda Stati Uniti e Unione Europea ma i rischi arrivano anche dai dazi dal Messico, dove passano le nostre esportazioni».
Fiom, Fim e Uilm, dopo le 16 ore di astensione del lavoro già effettuate tra dicembre e febbraio, oggi manifestano in tutte le regioni per riaprire la trattativa interrotta con Federmeccanica e Assistal e per chiedere tutele. «I dazi sono una guerra di carattere economico alla struttura industriale europea e a pagare il prezzo saranno i lavoratori – spiega De Palma -. Non abbiamo bisogno che si facciano la guerra i singoli paesi europei ma di una politica industriale europea che faccia investimenti sull’industria dell’auto per colmare il gap tecnologico con la Cina, che in questo momento è oggettivo, e riaprire la domanda interna, ridando potere d’acquisto perché un’industria basata sull’export oggi non regge allo scontro che c’è in corso». E per rilanciare il potere d’acquisto, dicono i sindacati, «è necessario rinnovare il contratto nazionale: lo sciopero di oggi non è una battaglia solo per difendere i nostri salari ma per far ripartire il paese».
La convinzione di Meloni di poter trovare una via di fuga in solitaria per il suo rapporto con il presidente Usa lascia scettici tutti gli attori del settore. Anche perché sul tavolo del ministro delle Imprese, Adolfo Urso, i dossier sono fermi e nell’impasse il Mimit ha consigliato alle industrie automobilistiche di riconvertire la produzione al settore bellico. Strategia bocciata anche dal presidente di Stellantis, John Elkann, che anche ieri ha ribadito: «Exor non ha alcuna intenzione di investire nel settore della difesa» aggiungendo di non credere «che ci siano affinità tra l’industria automobilistica e quella della difesa». Per quanto riguarda i dazi, Elkann ha rilanciato la dichiarazione dell’Aapc (l’American Automotive Policy Council), di cui fanno parte Stellantis, Gm e Ford, «sul dialogo in corso con l’amministrazione Trump e sull’importanza della competitività del settore automobilistico» che esprime «preoccupazione per l’accessibilità dei nostri prodotti made in America e sulle ripercussioni che questa incertezza avrà sulla domanda negli Stati Uniti».
Le Borse europee intanto proseguono in calo, dopo l’annuncio di Trump: i principali listini sono appesantiti dal comparto dell’automotive (meno 1,9%), dove Stellantis e Mercedes cedono oltre il 3%.
Commenta (0 Commenti)Fossa comune Migliaia di palestinesi affamati e stanchi manifestano contro la guerra puntando l’indice non solo contro Tel Aviv. Ieri 38 uccisi
Gaza. Palestinesi protestano a Beit Lahiya contro la guerra e Hamas – AP/Jehad Alshraf
I media palestinesi online spesso pubblicano foto dei centri abitati di Gaza per mostrare il contrasto tra il passato, prima del 7 ottobre 2023, e il presente, dopo i bombardamenti a tappeto israeliani. Cumuli di macerie e detriti si estendono là dove un tempo sorgevano case, strade, quartieri interi, e gli abitanti faticano a riconoscere i luoghi in cui hanno vissuto. Le immagini più recenti riguardano Al-Zahraa, una cittadina di recente costruzione, situata non lontano dal confine con Israele. Si distingueva per modernità e vivibilità, offrendo ai residenti una qualità della vita superiore alla media della Striscia di Gaza. Con l’inizio dell’offensiva israeliana, Al-Zahraa è stata subito spazzata via, ridotta a un deserto, come gran parte del territorio circostante. Il cosiddetto Corridoio Netzarim è stato in parte costruito dall’esercito israeliano sulle sue rovine, mentre gli abitanti, costretti alla fuga il 23 ottobre 2023, condividono il destino di centinaia di migliaia di palestinesi che ogni giorno lottano per la sopravvivenza tra carenza di cibo, acqua e rifugi di fortuna.
La situazione umanitaria nella Striscia è prossima al punto di non ritorno. «Niente cibo, niente acqua, niente medicine, nessuna fornitura dall’inizio di marzo», ha denunciato Juliette Touma, portavoce dell’Agenzia Onu per i rifugiati palestinesi (Unrwa). «La gente è esausta», ha sottolineato Touma, ricordando che prima della ripresa dei combattimenti, il 18 marzo, nella Striscia entravano centinaia di camion di aiuti ogni giorno. «Chiediamo il rinnovo del cessate il fuoco, il rilascio immediato di tutti gli ostaggi e un accesso senza ostacoli agli aiuti umanitari», ha aggiunto, denunciando la drammatica escalation delle vittime civili palestinesi: almeno 830 negli ultimi giorni, secondo il ministero della Sanità, per un totale che ha superato i 50mila morti dal 7 ottobre 2023. Ieri a Gaza si parlava ancora degli ultimi due giornalisti uccisi dai raid aerei israeliani: Mohammed Mansour, corrispondente del quotidiano giapponese Asahi Shimbun, e Hossam Shabat, dello staff locale di Al Jazeera. «Il mondo è distratto, segue altre crisi internazionali, ma qui a Gaza stiamo vivendo il momento più duro di questi 18 mesi di bombardamenti e stragi», dice al manifesto Amjad Shawwa, direttore di Pingo, il coordinamento delle Ong di Gaza. «Manca tutto», aggiunge. «Il blocco israeliano totale, iniziato il 2 marzo, sta portando alla disperazione un’intera popolazione».
Le manifestazioni in corso da inizio settimana a Gaza, con migliaia di civili in strada, secondo Shawwa «non sono solo contro Hamas, come riferiscono i giornali israeliani e stranieri. Si tratta di una protesta contro la guerra, contro Usa, Israele e Hamas, contro i governi occidentali e arabi e contro chiunque non muova un dito per fermare la distruzione di Gaza e del suo popolo». I palestinesi, prosegue, «chiedono la fine della guerra e dei massacri, e la chiedono a tutti. Perché vivere sotto le bombe di Israele, senza cibo, acqua, elettricità, né ospedali funzionanti, è impossibile».
Le proteste prendono di mira soprattutto Hamas, che controlla la Striscia. Iniziate all’inizio della settimana a Beit Lahiya, nel nord, dove Israele ha nuovamente intimato alla popolazione di evacuare e dirigersi a sud, si sono poi estese ad altre località, tra cui Shujayeh e Nuseirat. Per ora coinvolgono alcune migliaia di persone, ma potrebbero intensificarsi. Al movimento islamico viene rimproverata l’incapacità di garantire sicurezza e sostentamento. «Fuori, fuori, fuori! Hamas vattene!», hanno scandito i dimostranti a Beit Lahiya, in una delle proteste più significative. Un partecipante ha spiegato: «Sono manifestazioni spontanee contro la guerra, perché la gente è stanca e non ha un posto dove andare». Sui social media circolano video di cortei in varie località. L’analista Akram Attallah avverte che Hamas dovrebbe evitare di reprimere il dissenso, se non vuole che la protesta si allarghi. «La gente è esausta, ha perso tutto e ora chiede risposte», afferma.
Hamas sembra reagire con irritazione. Considera il dissenso un attacco alla legittimità delle sue scelte e delle sue azioni. Uno dei suoi dirigenti, Sami Abu Zuhri, ha accusato i manifestanti di essere «megafoni di Israele», insinuando che le proteste siano orchestrate dall’esterno. Un altro esponente di spicco, Osama Hamdan, ha attribuito direttamente a Israele l’origine delle manifestazioni, minimizzandole. Ma la sua posizione ha suscitato rabbia tra i manifestanti, poiché Hamdan non si trova a Gaza sotto le bombe, bensì in Libano. Dopo il cessate il fuoco entrato in vigore il 19 gennaio, Hamas aveva schierato migliaia di poliziotti e forze di sicurezza in tutta Gaza, ma la loro presenza armata si è notevolmente ridotta con la ripresa degli attacchi israeliani. Una scelta che, dopo oltre un anno e mezzo di massacri di civili, non trova più comprensione. «I nostri figli sono stati uccisi. Le nostre case distrutte», dice Abed Radwan all’agenzia Ap, precisando di essersi unito alla protesta a Beit Lahiya «contro Israele, la guerra, contro Hamas e le fazioni politiche palestinesi e contro il silenzio del mondo». Un altro manifestante, Ammar Hassan, chiarisce che gli slogan sono indirizzati contro Hamas perché «è l’unica parte che possiamo influenzare. Le proteste non fermeranno l’occupazione israeliana, ma possono influenzare Hamas».
Le tensioni interne si intrecciano con le divisioni politiche più ampie tra Hamas e il movimento rivale Fatah, che controlla in Cisgiordania l’Autorità nazionale palestinese (Anp) del presidente Abu Mazen. Fatah cerca di sfruttare le proteste per rafforzare la sua posizione a Gaza. È opinione diffusa che, accanto alle manifestazioni spontanee, altre siano state pilotate da attivisti e simpatizzanti di Fatah. Ieri, mentre a Gaza continuavano le proteste, un portavoce di Fatah ha invitato Hamas a «rispondere alla chiamata del popolo palestinese» e a considerare una transizione politica. Ma tra i gazawi non vi è fiducia nemmeno in Fatah, nell’Anp e in Abu Mazen.
Commenta (0 Commenti)Centrosinistra Dopo la mozione annunciata dai 5 Stelle, arrivano quelle di Avs e Azione. Il Pd: «Valuteremo». Segnali d’intesa tra pentastellati e rossoverdi. In mezzo c’è anche il corteo del 5 aprile
Il riarmo potrebbe agitare le opposizioni. Dopo la scelta da parte del Movimento 5 Stelle di presentare una sua mozione sul tema, ieri sono state annunciate iniziative anche da Alleanza Verdi Sinistra e Azione. Non è difficile immaginare che il testo presentato da Carlo Calenda confligge con quelli pensati da pentastellati e rossoverdi, che hanno intenzione di ribadire le posizioni contro il piano von der Leyen.
La mozione presentata dal Movimento 5 Stelle chiede che il governo si impegni «a non proseguire nel sostegno del piano di riarmo europeo ‘ReArm Europe/Readiness 2030’». Piuttosto, si tratta di pensare piano di rilancio della spesa sanitaria, di sostegno alle filiere produttive e industriali, di incentivi all’occupazione, istruzione, investimenti green e beni pubblici europei, «per rendere l’economia dell’Unione più equa, competitiva, sicura e sostenibile». Avs manda segnali di approvazione: «Accogliamo positivamente la mozione del Movimento 5 Stelle sul piano di riarmo di Ursula von der Leyen. Anche noi come Avs depositeremo un nostro testo – dicono – Aumentare le spese nazionali in Europa di 800 miliardi per armamenti è una follia. Mentre l’Europa scivola nell’economia di guerra vogliamo che il Parlamento italiano, a partire dalle forze di maggioranza e dal governo Meloni, affronti in modo pubblico e trasparente questo passaggio».
In tutto ciò, si tratta di capire cosa farà il Partito democratico. «Abbiamo votato compatti la nostra risoluzione e quella è la posizione del Pd»spiega Peppe Provenzano, responsabile esteri dem. Ma, appunto, quella scelta venne dopo la rottura al parlamento europeo e fu frutto di una mediazione complessa nel partito. «Noi abbiamo la nostra posizione e voteremo quella» aggiunge Provenzano, anche per scacciare lo spettro della divisione sui documenti degli altri partiti. Che, assicura, verranno valutati caso per caso. Non è escluso pensare che qualcuno della minoranza voglia dare un segnale appoggiando la risoluzione dei calendiani. O che, dall’altra parte, i testi di Avs e M5S contengano elementi di attrazione per altri parlamentari. Saranno le conferenze dei capigruppo a decidere la tempistica, che rappresenta una variabile di cui tenere conto (di mezzo c’è la piazza chiamata da Conte per il 5 aprile, solo per dirne una).
Ieri, intanto, sono andati in scena a Montecitorio alcuni colloqui tra i leader da cui trapelano gli assetti tra le forze politiche. Nel cortile interno, durante la seduta sulla sfiducia a Carlo Nordio, si sono confrontati a lungo Elly Schlein, Angelo Bonelli, Nicola Fratoianni e Riccardo Magi. Avrebbero parlato anche della necessità di un salto di qualità, di fare apparire le forze di alternative alla destra più coese e portatrici di un disegno organico di governo. All’altro angolo del patio hanno discusso Paola Taverna, responsabile enti locali dei 5 Stelle e Igor Taruffi, che nella segreteria dem ha la delega all’organizzazione.
Commenta (0 Commenti)