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Il limite ignoto Il presidente Usa si rimangia le minacce - «sanzioni su larga scala» - di poche ore prima

Trump: «Putin ha tutte le carte in mano». Meglio trattare con lui Donald Trump nello Studio ovale – Ap

È durata poco l’illusione che Donald Trump potesse avere intenzioni anche solo remotamente minacciose nei confronti di Vladimir Putin. «Mi fido di lui», ha dichiarato durante la conferenza stampa indetta ieri a sorpresa nello Studio ovale, convocata principalmente per accreditarsi i nuovi 151.000 posti di lavoro annunciati nella mattinata americana dal Bureau of Labor Statistics.
È Putin, ha detto Trump, ad avere «tutte le carte in mano» nel contesto della guerra, quindi è naturalmente l’aggressore in una posizione di forza quello a cui guarda l’attuale presidente degli Stati uniti: «Per quanto riguarda il raggiungimento di un accordo finale, potrebbe essere molto più semplice trattare con la Russia, perché sono loro ad avere tutte le carte in mano».

POCHE ORE PRIMA Trump aveva destato qualche sorpresa con un post sulla sua piattaforma Truth Social, in cui affermava di stare pensando a sanzioni contro Mosca: «Sulla base del fatto che in questo momento la Russia sta assolutamente “martellando” l’Ucraina sul campo, sto fortemente considerando sanzioni bancarie, sanzioni e dazi su vasta scala contro la Russia finché un accordo finale sulla pace non verrà raggiunto. Alla Russia e all’Ucraina, mettetevi al tavolo in questo momento, prima che sia troppo tardi. Grazie!!».

Durante la conferenza allo Studio ovale, il «martellamento» dell’Ucraina si è tramutato precisamente nel motivo per cui è più ragionevole trattare con la Russia. Non solo: «Chiunque» nella posizione di Putin, considerate le dinamiche sul campo, bombarderebbe l’Ucraina. Ma solo perché «vuole che (la guerra, ndr) finisca». «Credo davvero che stia facendo quello che farebbe chiunque altro. Penso voglia che la situazione si fermi e venga risolta».

Oltretutto, ragiona il presidente degli Stati uniti, i rapporti attuali con Mosca sono ottimi: «Credo che stiamo andando molto bene con la Russia, ma al momento stanno bombardando a morte l’Ucraina». Kiev, dichiara il tycoon, gli dà molte meno soddisfazioni: «l’Ucraina… Lo sto trovando più difficile, francamente, trattare con l’Ucraina. E – ribadisce per l’ennesima volta il concetto – loro non hanno le carte». Pesa anche l’ostinato rifiuto a firmare l’accordo voluto dagli Stati uniti per depredare l’Ucraina delle sue terre rare e risorse naturali: «Dovrebbero entrare in azione e lavorare in direzione di un accordo di pace».

ALL’ESPLICITA domanda postagli da un giornalista, se cioè ritiene che la Russia si stia approfittando degli Stati uniti, il presidente ha risposto di no. Ed è anche intervenuto sulla decisione di congelare tutti gli aiuti economici e militari, e di sospendere la condivisione di intelligence statunitense con Kiev. Per ripristinare gli aiuti all’Ucraina «devo poter sapere che vogliono accordarsi». Se si rifiutano «ne usciremo» (leggasi, li abbandoneremo, ndr) – ma per un fine nobile: «Lo sto facendo per fermare la morte».
Non altrettanto, ritiene il presidente, l’Europa: «Nell’ultima settimana ho guardato ciò che l’Europa sta facendo. Questa cosa potrebbe finire nella terza guerra mondiale se non la risolviamo». Ma ha anche suggerito al Vecchio continente di aumentare i suoi aiuti all’Ucraina, dal momento in cui lui evidentemente non ha alcuna intenzione di farlo.

IL CONSIGLIERE per la sicurezza nazionale Mike Waltz è intervenuto per dire che lui e il segretario di Stato Marco Rubio vogliono «riprendere i negoziati» e per questo incontreranno, la prossima settimana, «una delegazione ucraina» in Arabia saudita. Sul summit si è espresso sul social network X anche il ministro degli Esteri ucraino Andrii Sybiha, raccontando la sua chiamata «costruttiva» con Rubio. «L’Ucraina – ha scritto – vuole che la guerra finisca, e la leadership statunitense è fondamentale per ottenere una pace duratura. Abbiamo anche discusso delle strade per promuovere la nostra cooperazione bilaterale».

 

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15 marzo La proposta di Repubblica, nella sua vaghezza, ha generato discussioni laceranti in diversi territori e praticamente in ogni ambito politico-culturale

Manifestazione per la pace

Uno dice: cosa vuoi che ci sia di più unitario, ecumenico, di largo respiro di un bell’invito a ritrovarsi in piazza genericamente in nome della difesa della nostra bella Europa. E invece l’appello di Michele Serra, formulato in via preliminare sul Post e poi rilanciato, definito e sposato dal giornale-partito Repubblica proprio nei giorni in cui si preparava a uscire la riforma grafica del quotidiano, per la sinistra si è rivelato particolarmente divisivo. Quasi devastante.

Da quel che abbiamo raccolto in questi pochi giorni, la proposta ha spaccato organizzazioni, fatto litigare costituende coalizioni, rianimato scontri nel principale partito dell’opposizione, scatenato discussioni laceranti nel sindacato e tra i movimenti cattolici, aperto fratture nei territori. Una potenza distruttiva impressionante anche per chi, come accade da queste parti, non fa dell’unità a tutti i costi un valore assoluto.

Quell’evento minaccia di scavare un solco tra chi si oppone a Trump e Meloni. Da una parte si dirà che a piazza del Popolo ci stavano i guerrafondai che hanno sostenuto l’Ue armata. Dall’altra quelli che hanno scelto di non esserci, o peggio ancora di manifestare altrove e con altri slogan, verranno definiti disertori o magari putinisti. Sappiamo che solo in pochi casi è vero che tra chi sventolerà la bandiera blu con le stelle gialle ci sarà anche chi si è fatto prendere dal clima bellico. E che raramente tra chi guarda con sospetto alla piazza di Serra ci sono quelli che si sono fatti abbindolare dalla propaganda campista e rossobruna (in base alla quale chiunque avversi «l’Occidente collettivo», persino Putin e Trump, è da considerare un alleato).

Si dirà: questo è lo spirito del tempo, siamo tutti arruolati alla guerra culturale, la polarizzazione è la cifra del nostro tempo. Anche questa è una verità parziale: chi chiamato in piazza la gente doveva porsi anche il problema di fornire basi razionali e solide alla manifestazione invece di lasciarla per settimane in pasto al dibattito pubblico impazzito e ai posizionamenti politicisti in tempi di confusione, crisi dei corpi intermedi ed eventi che si succedono a una velocità feroce.

Lo ha detto una donna, insegnante, che si è rivolta a questo giornale per avere lumi su ciò succede il 15 marzo: «Gli uomini e le donne che credono ancora che stare insieme in piazza serva a cambiare qualcosa non sono carne da cannone mediatica». Meritano cura e rispetto.

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L’Europa si ritrova compatta nella corsa al riarmo e al vertice straordinario di Bruxelles i 27 danno l’ok, con qualche distinguo, al piano von der Leyen. Italia contraria all’uso dei fondi di coesione e all’invio di truppe in Ucraina. Sul sostegno a Kiev lo strappo di Orbán

Riarmo Via libera dal Consiglio straordinario al piano di Ursula tutto incentrato su difesa e Ucraina. Ma sugli aiuti a Zelensky Orbán si sfila

I due cancellieri tedeschi, l'uscente e l'entrante, Olaf Scholz, e Friedrich Merz, Fabrizio Bensch/Pool Photo via AP) Il cancelliere uscente Scholz con l’entrante Merz – Ap/Fabrizio Bensch

Una bandierina russa, di quelle tipo festoni che si appendono ai compleanni o ai ricevimenti, spunta dall’alto del reparto verdure della mensa del Consiglio.

CHI SE NE ACCORGE sgrana gli occhi o sorride. Chiunque l’abbia esposta, non potrebbe aver fatto un gesto più beffardo, nel giorno in cui l’Ue si stringe in modo solenne intorno all’Ucraina e promette di continuare a sostenerla a ogni costo «nella sua lotta esistenziale per la sovranità l’integrità territoriale», come dice Ursula von der Leyen.

È anche un piccolo incidente in un summit che si svolge per colmare il vuoto europeo tra la minaccia russa e la rottura transatlantica di Trump. Arrivato a Bruxelles, il presidente ucraino Zelensky ringrazia tutti i leader europei «per il forte sostegno dall’inizio della guerra», come dice all’entrata di un Consiglio straordinario tutto dedicato alla difesa europea e all’Ucraina.

Dall’altra parte della piazza in cui i leader dei Ventisette insieme ai vertici europei decidono come mettere a terra il piano di riarmo targato Ursula, la facciata del palazzo che ospita il servizio diplomatico è tappezzato dall’opera di un artista ucraino, con la scritta «How many times?» (quante volte?). Declinata come: quante volte ho dovuto contare sulle mie forze? «È importante che gli ucraini non siano lasciati soli», dichiara poi il presidente Zelensky, uscendo da un’ora e mezzo di colloquio con i leader, soddisfatto per lo sforzo bellico di Bruxelles.

PROPRIO SUGLI AIUTI all’Ucraina rimane il veto dell’Ungheria, e l’Europa si ritrova ad approvare quella parte del documento senza Budapest. Tutti d’accordo, invece, Orbán compreso, nella parte riguardante la difesa, che recepisce le proposte del piano di riarmo lanciata da von der Leyen alla vigilia del summit.

«Il Consiglio – si legge nelle conclusioni – sottolinea la necessità di continuare ad aumentare in modo sostanziale la spesa per la sicurezza e la difesa dell’Europa» e accoglie con favore le proposte della Commissione «per agevolare una spesa significativa per la difesa a livello nazionale in tutti gli Stati membri».

Si tratta di

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Stati Uniti Il primo discorso sullo stato dell'Unione. Prima il comizio al Congresso, poi Gm, Ford e Stellantis fanno spostare di un mese i loro dazi

Washington, Donald Trump ieri nella seduta congiunta di Camera e Senato foto Ap/Win McNamee Washington, Donald Trump ieri nella seduta congiunta di Camera e Senato – foto Ap/Win McNamee

Il discorso fiume al Congresso ha misurato la distanza fra l’America della narrazione trumpiana e il mondo reale. Il day after ha visto la realtà ameno in parte riaffermarsi sull’allucinazione Maga delineata da Trump.

Il panegirico del presidentissimo ha delineato un mondo di antagonismi interni e globali improntati alla conflittualità, in cui l’America, imperitura nazione eletta, è destinata ad essere vincitrice, ora che ha infine trovato un condottiero capace di impugnare senza falsi timori la forza dei giusti. Da quella visione consegue anche quella di un ordine mondiale ugualmente suddiviso in deboli e potenti, con gli Stati uniti che quel potere intendono monetizzarlo.

NEL DISCORSO le tariffs («parola più bella delle lingua inglese!») sono nuovamente state esaltate come panacea per il risanamento del bilancio e risarcimento morale per i torti subiti dagli Stati uniti («fottuti» per decenni dagli altri paesi). Le gabelle sull’export sono state imposte lo stesso giorno ai due paesi partner legati a doppio filo agli Stati uniti, Messico e Canada lasciando sbigottiti economisti oltreché i diretti interessati. Il premier canadese uscente Justin Trudeau ha citato il Wall Street Journal nel definire «molto stupida» la decisione di dichiarare senza motivo una guerra commerciale al paese più amico. Quella decisione sembra esser riuscita nell’arduo compito di fare infuriare un popolo notoriamente mite. In Canada molti negozi hanno rimosso dagli scaffali prodotti statunitensi, come whiskey e vini californiani, senza aspettare l’esaurimento delle scorte.

Visti da nord i dazi hanno infatti il sapore di arbitrarie sanzioni economiche, soprattutto perché arrivano dopo settimane di insinuazione da parte di Trump di una annessione del paese come «51mo stato» da parte degli Stati uniti. Trudeau (che Trump si ostina a chiamare «governatore») ha detto che questo non avverrà mai e che le minacce assicureranno al massimo che l’inno americano continui ad essere fischiato in stadi e palasport. Alle leghe sportive (basket Nba, calcio Mls, baseball Mlb e Hockey Nhl) partecipano infatti squadre di entrambi i paesi e le partite importanti prevedono il doppio inno in apertura. Nel recente torneo Four Nations di hockey, l’inno americano è stato ripetutamente subissato dai fischi dei canadesi.

L’ANNUNCIO di dazi reciproci da parte anche degli altri paesi (Cina, Messico) colpiti, è stata la doccia fredda che nel day after del discorso ha riportato alla realtà l’immaginaria «vittoria totale» dipinta da Trump. In particolare, non ha tardato ad emergere una notevole preoccupazione, soprattutto per il potenziale sconvolgimento di settori come quello automobilistico che dipendono da una complessa filiera produttiva e quella che è a tutti gli effetti una unica ed integrata economia nordamericana. Dopo un incontro con i dirigenti di Ford, General Motors e Stellantis, Trump ha annunciato una moratoria di un mese sui dazi contro l’industria metalmeccanica. La notizia ha fatto immediatamente risalire i titoli delle aziende, ma l’altalena in borsa (martedì Wall Street aveva ufficialmente cancellato tutti i guadagni registrati dall’insediamento) è un ulteriore sintomo della fatale incertezza proiettata dalle imperscrutabili politiche di Trump.

La sensazione diffusa, nella formulazione dell’economista premio Nobel Paul Krugman, è quella di «essere intrappolati in una Tesla incendiata». Una sindrome che fa riferimento al “presidente ombra” Elon Musk, e che vale anche per molti americani, che assistono impotenti mentre Musk e i suoi giovani pasdaran di Silicon Valley mettono a ferro e fuoco ciò che rimane dello stato sociale.

A QUESTO RIGUARDO, e alla modalità palesemente anticostituzionale dell’operazione, è giunta ieri una prima sentenza della Corte suprema che ha ordinato alla Casa bianca di riattivare i pagamenti di 2 miliardi di dollari precedentemente stanziati per aiuti internazionali dell’agenzia UsAid che erano stati congelati da Musk. Una prima avvisaglia di indipendenza da parte di una Corte che, pur a maggioranza reazionaria, ha sostenuto l’idea di separazione dei poteri allegramente calpestata da Trump.

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Il nemico americano Le informazioni intorno al conflitto subiscono smentite clamorose nel giro di poche ore. Al centro resta l’Accordo sulle terre rare

Volodymyr Zelensky - Ap Volodymyr Zelensky – Ap

Dall’Ucraina emana un fumo denso che oscura il terreno e tutto ciò che entra in contatto con la guerra. È la confusione che attanaglia i soldati al fronte, che si chiedono quanto potranno resistere senza le armi Usa; il governo di Kiev, che non sa più come accettare le condizioni di Donald Trump senza passare dalla pubblica abiura e tutti i protagonisti internazionali. Le notizie, le dichiarazioni, persino le decisioni che riguardano il conflitto subiscono nel giro di poche ore smentite clamorose.

È IL CASO dell’interruzione del coordinamento tra la Cia e i servizi segreti ucraini. Ieri mattina il Financial Times aveva dato in anteprima la notizia che, oltre ad aver interrotto le forniture di armi, l’amministrazione di Washington aveva anche smesso di condividere informazioni di intelligence con i funzionari di Volodymyr Zelensky. Non solo i 3,85 miliardi di forniture belliche lasciate in eredità da Joe Biden, dunque. Ma anche le fondamentali coordinate satellitari usate per identificare e colpire gli obiettivi militari russi, gli allarmi sugli spostamenti delle truppe nemiche lungo la linea del fronte o i bombardamenti più pericolosi.

PERDERE TUTTO CIÒ per l’Ucraina significherebbe un danno enorme, forse non comparabile all’incapacità di rispondere al fuoco a causa della mancanza di proiettili, ma di sicuro invalidante per le sue capacità offensive. Non solo, gli Usa avrebbero anche imposto alla Gran Bretagna di adeguarsi alla decisione di Trump e di smettere a sua volta di fornire informazioni riservate alle forze armate di Zelensky. Anche se non è mai stato confermato ufficialmente, molti analisti ritengono che i successi della Marina ucraina nel Mar Nero, dall’affondamento del Moskva in poi, siano in parte frutto dell’assistenza costante dell’MI-6 di sua maestà.

A metà giornata i media ucraini hanno smentito: secondo il media Suspilne, le informazioni di intelligence continuano ad arrivare da oltreoceano, nonostante l’ultimo decreto di Trump. Ma i diretti interessati, stando al giornalista della Fox Edward Lawrence che ha citato direttamente il nuovo capo della Cia, John Ratcliffe, hanno confermato che per ordine del presidente il servizio esterno degli Usa ha chiuso la linea diretta con Kiev.

UNA NOSTRA FONTE ucraina, raggiunta nel mezzo di questo rimpallo di smentite e riaffermazioni, ci ha assicurato che alla giornata di ieri le informazioni continuavano ad arrivare, ma che sul futuro immediato c’è grande incertezza. Altre indiscrezioni si attestano nel mezzo: gli Usa avrebbero smesso di passare dati utili per gli attacchi, ma starebbero continuando a supportare il Paese est-europeo per la difesa. Tra l’altro, il consigliere per la sicurezza nazionale Usa, Mike Waltz, ha dichiarato che «se riusciamo a definire questi negoziati e ad avanzare verso questi negoziati, allora il presidente esaminerà attentamente la revoca» allo stop delle forniture militari e alla cooperazione dell’intelligence.

Uno sviluppo simile ma con un finale diverso si è avuto per il presunto viaggio di Macron e Starmer a Washington per portare Zelensky a fare la pace con Trump. L’indiscrezione era stata inizialmente diffusa dal Daily mail e poi confermata da Sophie Primas, portavoce del governo francese, la quale aveva dato come “previsto” il viaggio al termine del Consiglio dei ministri di ieri. Poco dopo l’Eliseo ha smentito energicamente.

SORTE SIMILE, ma con risvolti molto diversi è toccata alla presunta lettera inviata da Zelensky a Trump. Durante il discorso sullo stato dell’Unione 2025 il tycoon ha dichiarato che il presidente ucraino avrebbe riconosciuto «gli sforzi degli Stati uniti e si sarebbe detto pronto a trattare la pace e a chiudere l’accordo sulle terre rare». Trump ha ringraziato Zelensky e ha dichiarato di aver “apprezzato il gesto”. Peccato che, secondo Kiev, questa lettera non esiste. Gli stessi concetti sono stati espressi dal presidente con l’uniforme in un post su X, ma non è stato inviato alcun documento ufficiale a Washington. Tuttavia, la disponibilità ucraina a concludere l’Accordo sulle terre rare è stata effettivamente rinnovata e, anche se l’indiscrezione di Reuters secondo la quale l’intesa era già stata firmata e Trump l’avrebbe annunciata martedì era errata, al momento sarebbe solo questione di tempo.

IN OGNI CASO il capo di gabinetto, Andriy Yermak, ha riferito che Ucraina e Stati uniti hanno concordato di riprendere i colloqui bilaterali e nel suo consueto messaggio serale Zelensky ha anticipato che già all’inizio della prossima settimana «si potrebbero vedere i primi risultati» di questo riavvicinamento. Ma di questi tempi una settimana è lunga e può succedere, letteralmente, tutto e il contrario di tutto.

 

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Il presidente francese Macron chiama alle armi e offre alla Ue il suo ombrello nucleare. E oggi il Consiglio europeo straordinario darà il primo impulso al piano ReArm Europe, una rifondaziona bellica

Il tiratore franco Il discorso alla nazione. Il capo dell’Eliseo offre al Vecchio continente l’ombrello nucleare

Il presidente francese Macron all’Elysee foto Michel Euler/Ap Il presidente francese Macron all’Elysee – foto Michel Euler/Ap

«È la fine dell’innocenza» ha dichiarato ieri il presidente francese, Emmanuel Macron. In un discorso alla nazione trasmesso sulle televisioni e su internet, il capo dell’Eliseo ha utilizzato la guerra in Ucraina per giustificare uno dei proclami più duri della sua presidenza: bisogna riarmarsi e bisogna farlo in fretta. «L’aggressività russa testa i nostri limiti e non sembra conoscere frontiere» sottolinea il presidente, «la nostra prosperità e la nostra sicurezza sono diventate più incerte e, bisogna pur dirlo, siamo entrati in una nuova era». Per Macron è l’era del riarmo, nella quale la Francia «non è impreparata» perché negli ultimi «dieci anni abbiamo raddoppiato gli investimenti per la Difesa».

Ma ora Parigi alza il tiro: vuole che sia tutta l’Europa – unita, sottolinea Macron – a far fronte comune contro la minaccia russa che «riguarda i Paesi europei, che ci riguarda. La Russia ha già trasformato la guerra in Ucraina in un conflitto mondiale» attraverso i contingenti nord-coreani e le armi iraniane. Ma non solo: «La Russia di Putin viola le nostre frontiere per assassinare gli oppositori, manipola le elezioni in Moldavia e in Romania» porta avanti campagne di attacchi hacker… Insomma, non usa mezzi termini Macron: bisogna prepararsi alla minaccia che viene da Mosca.

Militarmente prima di tutto. Il presidente ha annunciato di aver notificato agli industriali che operano nel campo della Difesa che presto si terrà un incontro con il governo per incrementare gli sforzi per il riarmo. Mentre il leader francese parla, sullo schermo scorrono grafici e immagini che sintetizzano la sproporzione tra le forze russe e quelle francesi e che quindi, nelle parole di Macron, ora giustificano la necessità di avviare una nuova corsa agli armamenti. «Chi può dunque credere che la Russia di oggi si fermerà all’Ucraina?».

In quest’ottica il capo dell’Eliseo palesa ancora una volta il suo sogno di una Difesa comune europea, anche se

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