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Turchia Le contraddizioni dell’erdoganismo si sono spinte ormai troppo in profondità. Una vicenda politica inesorabilmente intrecciata alla nostra di cittadini europei

Al cuore del progetto autoritario Polizia in assetto anti sommossa durante una protesta in supporto al sindaco di Istanbul arrestato – Ap

L’immensa mobilitazione turca sembra dire che Erdogan ha fatto un passo di troppo, quando ha deciso la prigione per il suo principale rivale, dopo avergli fatto togliere il titolo di studio, così da dichiararne l’ineleggibilità. Si può pensare che abbia calcolato la reazione di massa che ne sarebbe seguita, scommettendo sul suo contenimento, per uscire dalla crisi con una decisa accelerata allo smantellamento dei residui ancoraggi democratici del Paese.

Con le pulsioni autoritarie che mietono consensi alla Casa bianca e la Nato tutt’altro che unita, ecco la tentazione dell’ulteriore giro di vite: convocare elezioni anticipate, ora che ha eliminato ogni possibilità che siano contendibili, e incardinarsi al potere per traghettare la Turchia verso un approdo compiutamente dispotico, accanto alla Bielorussia.

Come che sia, è un fatto che lo scontro in atto porta il Paese fuori dal solco dell’autoritarismo a fuoco lento in cui la Turchia di Erdogan è stata collocata fino a oggi dal mainstream occidentale, notoriamente poco sensibile all’incarcerazione di massa di giornalisti, minoranze e attivisti di sinistra.

Gli arrestati di questa settimana sono in effetti centinaia. Ma non siamo più alla repressione dei cosiddetti margini, i docenti che firmano petizioni per la pace, gli studenti di Gezi Park che si mobilitano contro la devastazione dei «palazzinari amici», oppure gli attivisti, gli amministratori e i parlamentari curdi, il cui peso elettorale impediva di riscrivere la costituzione. Non siamo nemmeno alle dure purghe contro gli ex consociati gulenisti, scatenate all’indomani del tentato colpo di stato. Per il blocco di potere islamo-nazionalista siamo arrivati al cuore del problema dello stato: lo scontro frontale con le forme odierne del kemalismo repubblicano.

Ovvero quel Chp che, ridisegnando le proprie alleanze, ha conquistato il governo delle grandi città, arrivando, due anni orsono, a contendere la presidenza, ed apprestandosi alle designazioni per la prossima battaglia elettorale. È significativo che, aprendo la prima grande protesta seguita all’arresto di Imamoglu, il leader Chp Ozgur Orel abbia voluto salutare il leader dell’Hdp filo-curdo Selahattin Demirtas, che sta scontando una pesante condanna, chiedendone l’immediata scarcerazione.

In questi giorni la piattaforma social del campione del free speech, Elon Musk, ha sospeso gli account di politici dell’opposizione. Gli attivisti curdi in queste ore denunciano restrizioni a migliaia di account di X su scala globale. Dalla piazza, i leader dell’opposizione hanno invitato al boicottaggio dei media nazionali, che, seguendo un copione noto, ignorano le immense manifestazioni di protesta, mandando in onda servizi sui dolcetti per la fine del Ramadan, o su «Israele che teme la Turchia».

Il paradosso è che l’apertura di questa profonda faglia interna, alla quale concorrono anche dinamiche economiche disastrose per la popolazione, avviene proprio nel momento in cui sembrava che all’erdoganismo le cose stessero andando piuttosto bene: la rimozione di Assad dalla Siria, con avanzata delle milizie foraggiate da Ankara, il disarmo del Pkk dopo l’appello di Ocalan dal carcere, l’alto profilo tenuto nella comunità musulmana grazie alle tirate, puramente retoriche, contro Israele, e infine il credito ottenuto per i buoni uffici nella mediazione fra

Ucraina e Russia. Evidentemente le contraddizioni si sono spinte ormai più in profondità, al cuore del progetto autoritario. Continuiamo a guardare alla Turchia attraverso una sguardo orientalista, interponendo una distanza che in realtà non esiste. Certo, Erdogan si muove lungo i binari di un sultanismo neo-ottomanista reinventato, ed è presumibile che si aggiri rabbioso per le 1.100 stanze del palazzo presidenziale che si è fatto costruire, perché non riesce a conquistare e controllare Istanbul. Ma la vicenda politica turca è inestricabilmente intrecciata con la nostra, dalle dinamiche dei gasdotti mediterranei e della Libia, a quelle del pluralismo e degli spazi democratici in Europa. Per non parlare delle molte lezioni che abbiamo appreso dalla mobilitazione del confederalismo democratico, aggredito da jihadisti, islamisti e nazionalisti.

Forse le mobilitazioni che vediamo allargarsi e persistere, da Belgrado a Tbilisi, da Budapest a Istanbul, meriterebbero da parte nostra una considerazione e un’analisi più profonda di quella offerta da strumentali tentativi di ignorarne le diversità, sommando le piazze fra loro, in una ipotetica «primavera delle libertà». Mentre nel mondo si assiste al ritorno della conquista militare e dei piani di riarmo, mentre si perseguono pacificazioni neo-imperiali in un teatro post-egemonico nel quale gli «egemoni» si mostrano incapaci di alcuna guida, esiste e persiste, attraverso i confini, il protagonismo di chi rivendica democrazia, diritti e giustizia sociale.