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Cecilia Sala è sana e salva e tutto è finito bene. Ma molte notizie emerse dopo il suo rilascio contraddicono le versioni del governo Meloni

Meloni e i suoi ministri hanno mentito prima, durante e dopo l’operazione su che cosa stessero facendo, sui soggetti coinvolti, sugli obiettivi. Visto che Cecilia Sala è tornata sana e salva, nessuno ne chiederà conto al governo. Ma muoversi così è pericoloso

 

Tutto è bene quel che finisce bene, la giornalista Cecilia Sala è tornata a casa l’8 gennaio e domenica sera ha raccontato nel dettaglio la sua disavventura iraniana da Fabio Fazio a Che tempo che fa. Quella storia si è evoluta nel migliore dei modi, Cecilia Sala riesce a parlarne con grande equilibrio e pacatezza, senza retorica ma anche senza minimizzare la serietà di quello che le è capitato.

Eppure. Eppure le cose sono andate diversamente da come ce le ha raccontate la premier Giorgia Meloni nell’immediato. La sua versione sembra sempre meno plausibile.

Alcuni sviluppi nei giorni successivi sono stati sorprendenti e alcune persone della comunità di Appunti mi hanno chiesto di mettere ordine.

 

Le accuse di Prodi

 

Ero un po’ restio a tornare sull’argomento, perché il rischio è passare per uno di quelli che non sono mai contenti, che cercano la polemica anche quando non ce n’è ragione. Però poi è arrivato Romano Prodi, l’ex premier che a 85 anni è tornato la voce dell’opposizione culturale e politica alla destra vista l’impalpabilità di Elly Schlein e Giuseppe Conte.

Prodi era già intervenuto sul tema con qualche accento critico, poi a Omnibus su La7, intervistato da Alessandra Sardoni, ha detto:

“Quando io ho liberato Mastrogiacomo mica ho avuto il soccorso degli Stati Uniti. Tutto il Paese ha agito. Meloni si è fatta un obiettivo personale. Il ministro degli Esteri allora è stato molto attivo, adesso non lo so. E' stata una gran bella cosa, ma per favore mettiamola in un contesto”.

Nel 2007 Daniele Mastrogiacomo, allora inviato di Repubblica in Afghanistan, viene rapito dai Talebani. Nel 2017, dieci anni dopo il sequestro, ricordava così la sua vicenda sul suo giornale:

“La storia del nostro sequestro fa parte della cronaca. È stata vissuta con angoscia da milioni di persone. Ed è stato grazie a questa campagna collettiva, portata avanti dal governo Prodi, dal mio giornale, da mia moglie Luisella, da 100mila firme raccolte in tutto il mondo, dalla decisiva mediazione di Emergency, se sono potuto tornare a casa e oggi posso scrivere queste righe.

Sayed e Ajmal non ce l'hanno fatta. Il primo, come sapete, è stato sgozzato davanti a noi in una landa deserta che costeggia il fiume Helmand. Il secondo è stato rilasciato assieme a me, in cambio di cinque prigionieri Talebani, ricatturato, tenuto in ostaggio per altre due settimane e poi decapitato”.

Vedremo come, tra dieci anni, libera dai comprensibili vincoli di riservatezza attuali, Cecilia Sala racconterà la sua storia. Per ora tocca a noi cercare di incastrare i vari tasselli.

Vediamo che cosa si sta rivelando diverso da quanto raccontato nella prima fase. I punti da chiarire sono: il ruolo di Elon Musk, lo scambio con l’ingegnere iraniano arrestato in Italia, i rapporti tra governo, ministero degli Esteri, servizi segreti.

Il ruolo di Elon Musk

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Centrosinistra L’ex direttore delle Entrate in campo con Prodi e Delrio: «Serve un progetto credibile, no a nuovi partiti». Doppia manovra per spostare il Pd al centro. Gentiloni: «La sicurezza sia un nostro tema, dovremmo fare il poliziotto di quartiere come Berlusconi»

Ernesto Maria Ruffini con Graziano Delrio al convegno dei cattolici a Milano Erne sto Maria Ruffini con Graziano Delrio al convegno dei cattolici a Milano – Ansa

Una manovra di accerchiamento nei confronti di Elly Schlein con un obiettivo in chiaro e uno un poco più nascosto: il primo è iniettare nel sangue del Pd svariate iniezioni di proposte sui temi dell’economia, della produzione industriale, della riforma del welfare, del fisco e anche della sicurezza che, avverte Paolo Gentiloni, «deve diventare una nostra bandiera». Il secondo è immaginare una squadra di personalità in grado, al momento giusto, di contendere la leadership del centrosinistra alla stessa Schlein.

IL MESSAGGIO CHE ARRIVA dai due convegni di ieri dei cattolici del Pd (a Milano) e dei «riformisti» di Libertà Eguale (a Orvieto) è tutto sulla costruzione dell’alternativa che sfiderà Meloni nel 2027. Romano Prodi, padre nobile del convegno di Milano insieme a Pierluigi Castagnetti, riconosce a Schlein il merito di aver ridato ai dem «l’indiscussa leadership» nel campo delle opposizioni, Ma non basta, così come «non è sufficiente dire che ci vogliono più soldi per sanità e scuola pubbliche». «Serve un riformismo radicale per curare la pianta del welfare». E cioè idee, proposte, sulle quali il Pd «deve mobilitare tutte le sue forze, con apertura e condivisione».

Prodi cita il calo della produzione industriale «su cui il governo non sta facendo nulla», ma anche i salari «che non possono essere sostituiti dai bonus», l’immigrazione, il fisco l’ambiente, la casa. E dice a Schlein che ora bisogna fare un salto di qualità: «Solo il Pd è in grado di indicare le ricette per un governo di cambiamento». Esclude la nascita di un nuovo partito cattolico, e così fa anche Castagnetti: «Non si rifà il partito popolare, le cose del passato sono passate, ma nella nostra parte del capo manca una sede in cui discutere».

ANCHE ERNESTO MARIA RUFFINI, l’«uomo nuovo» del campo progressista (copyright Castagnetti) si tiene alla larga dall’idea di nuovi partiti. Ma anche lui affonda sul tema dei programmi: «Qual è lo stato di avanzamento delle proposte alternative in campo? Qual è la proposta politica della sinistra, la sua offerta realmente competitiva? Dove è stata discussa? Con chi? Non parlo di singole questioni, non di emendamenti a proposte di altri ma di una visione sul futuro del Paese».

L’ex direttore delle Entrate si richiama all’eredità dei grandi democristiani, ma sta bene attento a non confinare il suo messaggio «nelle geometrie del centro». Anche lui, come Prodi e gli altri, insiste sul ruolo dei cattolici come «sale e lievito», «non dobbiamo coprire gli altri sapori ma esaltarli». E via con l’elenco di cosa non intende fare: e cioè una leadership «calata dall’alto in un gioco di potere per pochi che sembra un talent show».

È questo il rischio più grande della sua discesa in campo, lui ne è consapevole e per questo si propone di «riportare al voto chi si astiene, ascoltando la società dal basso». Cita la maggioranza Ursula, quella del 2019, il contributo che allora diede David Sassoli, per dire che «quella potrebbe essere una prospettiva solida per essere alternativi alla destra». In platea c’è anche il sindaco di Milano Beppe Sala, che scade nel 2026 e vorrebbe giocare una sua partita nazionale.

SUL PALCO, SUBITO DOPO Ruffini parla del «tormento di vincere, dobbiamo rimuovere questo senso di sconfitta ineluttabili, dobbiamo metterci tutti al tavolo e fare la nostra parte, parlare a chi non ci vota, soprattutto al nord, non importa chi comanda». «Ruffini? Può essere utile, è bravo, ha ragione a dire che non basta un uomo solo al comando».

In tanti, da Milano a Orivieto, sulla scia di un recente intervento di Veltroni sul Corriere invitano il centrosinistra ad appropriarsi del tema della sicurezza. «Deve essere un tema su cui giochiamo in casa», avverte Gentiloni da Orvieto, «se non l’avesse già fatto Berlusconi dovremmo riproporre il poliziotto di quartiere, noi siamo amici delle forze dell’ordine». Non una parola, da lui e dagli altri, sul ddl delle destre e sulle proposte che che mirano a scudare le violenze degli agenti e reprimere il dissenso.

L’IDEA CHE DOMINA, tra i due consessi centristi, è quella di un Pd in decifit di riformismo e poco credibile rispetto ai ceti medi, al centro inteso come spazio sociale. Dice Gentiloni: «Bene se nascono forze centriste, ma la credibilità non lo possiamo affidare in outsourcing ad altre forze: dipende dal profilo della forza che guida, dal suo tasso di riformismo».

Tranne Prodi, nessuno cita la caterva di errori che ha portato al governo la destra estrema. L’idea è sempre quella di poter vincere «al centro», mostrandosi «più affidabili». Prodi ricorda invece l’errore di «adattarsi al pensiero unico accettando le troppe ingiustizie sociali». E ribadisce che davanti a cambiamenti epocali «serve una proposta più radicale» rispetto a quelle offerte nel passato da Pd e alleati.

Graziano Delrio, principale organizzatore della giornata milanese, chiude soddisfatto: «Spero che da qui nasca uno slancio collettivo, oggi abbiamo respirato, continuiamo a farlo senza vergogna». «É l’inizio di un cammino», dice Sergio Lepri,«non c’è una meta predestinata». Dipenderà molto da quanto le ricette catto-riformiste saranno accolte da Schlein nella sua piattaforma. Solo a quel punto la variegata truppa valuterà se sarà più utile dar vita a un partito centrista satellite del Pd. Gentiloni non ci sarà: «Extra ecclesiam nulla salus».

 

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Omaggio di Stato Quando sei un capo di stato o di governo, andare al giuramento del presidente degli Stati uniti è tutto tranne che normale. È un affare interno americano, costruito per essere […]

Giorgia Meloni in conferenza stampa Giorgia Meloni in conferenza stampa – Alessandra Tarantino /Ap

Quando sei un capo di stato o di governo, andare al giuramento del presidente degli Stati uniti è tutto tranne che normale. È un affare interno americano, costruito per essere un affare interno americano.

Viene messo in scena più o meno in questo modo dai tempi di Andrew Jackson (1829), è legalmente codificato dai tempi di McKinkey (1901), si svolge sulla scalinata ovest dei Campidoglio dai tempi di Reagan (1981).

E in questo non irrilevante periodo di tempo, negli archivi del Congresso Usa non c’è traccia di leader istituzionali nazionale andati a rendere omaggio al nuovo titolare dello Studio Ovale, chiunque fosse. Non si deve, non si fa, ci si mandano ambasciatori o figure cerimoniali.

Siccome a Washington farà molto freddo, il prossimo conquistatore della Groenlandia giurerà dentro Capitol Hill invece che sui suoi ventosi scalini, come già fece il secondo Reagan, ma questa avrebbe dovuto essere la sola differenza.

Invece no.

Da oltre 120 anni, il giuramento viene organizzato da due comitati, uno del Congresso e uno del presidente eletto: questo secondo è privato, raccoglie fondi esentasse ed è responsabile degli irrituali inviti a premier, ultradestre e tecno-miliardari vari (vende anche cappellini, tazze e magliette griffate Trump47, e ingaggia i Village People per cantare “Ymca” alla parata – sarà memorabile).

Donald Trump balla con Melania dopo il primo giuramento nel 2017,
Donald Trump balla con Melania dopo il primo giuramento nel 2017, foto Evan Vucci /Ap

Stavolta Trump avrà qualche governo amico in presenza. E Giorgia Meloni è di gran lunga il nome più pesante di quanti saranno presenti quando giurerà di difendere il suo paese “da ogni nemico interno ed esterno” .

Il suo secondo improvviso viaggio americano non è nemmeno lontanamente ordinaria cortesia istituzionale, né ritrovata centralità nazionale. È anzi una rottura di quella formula, e uno schieramento potente sulla linea atlantica destinato a confliggere con quella europea.

L’ esplicito e noto desiderio della premier è di diventare l’interfaccia europea con gli Stati uniti. L’Italia rischia di trasformarsi invece nel trojan horse statunitense dentro l’Europa.

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Frammenti A proposito del volume a cura di Giulio Marcon, «L’aiuola che ci fa tanto feroci» edito da Altreconomia

Intorno al pacifismo, tra obiezione e disobbedienza

 

E la guerra continua… C’è mai stato un periodo in cui, nel nostro pianeta, non ci fosse una guerra in atto? La Storia, scrisse la Morante, è «uno scandalo che dura da diecimila anni» e forse più, e non c’è stato un solo momento in cui Marte non dominasse tra gli umani – per non parlare degli animali, ma questi ben divisi tra aggressivi e pacifici, tra violenti e pacifici – nonostante tanti profeti, nonostante Gesù e Gandhi, nonostante e i boy-scout di Baden Powell e gli obiettori di coscienza, nonostante i movimenti pacifisti e nonviolenti. Si accetta e si pratica ancora l’atroce detto «se vuoi la pace prepara la guerra», a cui si è cercando di rispondere con «se vuoi pace lavora per la pace».

Eppure… eppure, ci dice la bellissima antologia su pacifismo, obiezione di coscienza e disobbedienza civile curata da Giulio Marcon per Altreconomia (L’aiuola che ci fa tanto feroci, pp. 122, euro 16), continuamente e da secoli i pacifisti, gli obiettori e i disobbedienti hanno cercato di intralciare questa purtroppo umanissima tendenza del genere umano a battersi gli uni contro gli altri, e i Caino ad ammazzare gli Abele. E gli Abele sopravvissuti a imitare a loro volta i Caino.
La Bibbia, hanno scritto in molti, che si conclude bensì con il messaggio cristiano, è uno dei libri più violenti che ci siano, e ancora oggi c’è chi, come Netanyahu, cerca ancora di eguagliare certi suoi crudelissimi eroi…
Ma la Bibbia non è da sola in questa impresa, e peraltro tanti di quella e altra religione se ne sono ispirati. In un racconto di fantascienza degli anni sessanta dello scorso secolo si narrava che Hitler non fosse morto ma fatto fuggire da suoi fedeli fosse finito in un villaggio sperduto dell’Amazzonia dove i suoi fedeli americani l’avevano aiutato a nascondersi.
Vecchissimo, raggiunto da un’accurata spedizione israeliana – dopo il processo a Eichmann – nel viaggio attraverso la giungla dei giovani soldati gli rimproveravano le sue tremende colpi ed egli rispondeva di aver preso ispirazione dalla lettura della Bibbia. È un paradosso, certo, un paradosso agghiacciante…

Il volume a cura di Marcon è la più ampia raccolta edita di testi «contro la guerra», e sorprende la varietà dei suoi autori – religiosi e atei, letterati e profeti, filosofi e militanti di più rivoluzioni e semplici obiettori, e viene ancora da dire «militanti» non fosse che Capitini non amava questa parola, derivazione di «militare». Probabilmente, soltanto Capitini ne aveva forse studiati e raccolti altrettanti. C’è anche Gandhi, ovviamente, ma è duro constatare che anche in India si continui a discriminare e a uccidere dopo la rara o unica rivoluzione che abbia vinto grazie a grandi e piccole azioni nonviolente – e, chissà, forse c’è più violenza in India che nella Cina di Mao, dopo una rivoluzione degli stessi anni di quella indiana che fu però dichiaratamente violenta.
Nel volume di Marcon si comincia con Sofocle e si finisce con gli attuali obiettori di coscienza nella Russia di Putin. Tanti sono gli autori antologizzati, e vanno oltre quelli dei consueti elenchi dei nonviolenti, e sono nomi di scrittori e di poeti, di filosofi e di militanti, di uomini e di donne, di giovani e di vecchi, e anche, credo, di ricchi e di poveri. Ed è sorprendente e rallegrante scoprirne tra loro di non attesi, di non abituali.
Si spera che la lettura di questi testi suggerisca a molti giovani di farsi obiettori e disobbedienti, militanti di ideali pacifisti e fraterni nonostante la durezza dei tempi e i trionfi del dio Marte, instancabile nella sua azione nefasta.

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Palestina Intervista all'artista Yasmine Aljarb: «Vedi questo quadro? È un cielo di girandole rosse. Le persone mi dicevano: che bei fiori. Non sono fiori, sono bombe. Io dipingo la mia esperienza»

L'artista palestinese Yasmine Al-Jarb foto Alessandro Levati L'artista palestinese Yasmine Al-Jarb – Alessandro Levati

Giovedì pomeriggio nella sede di Micro, associazione di più gallerie indipendenti, nel quartiere Prati di Roma abbiamo incontrato l’artista palestinese di Gaza Yasmine Aljarb, durante la sua esibizione con dipinti e video dalla Striscia, iniziativa voluta dalla fondatrice di Micro, Paola Valori, come «racconto visivo di quello che è la situazione del suo paese».

La sua famiglia è a Gaza? Sta bene?

La mia famiglia sta bene. Nei primi mesi di guerra, quando hanno attaccato il mio campo profughi, hanno chiesto a tutti di abbandonarlo e di andare verso Rafah. La nostra casa è stata in parte distrutta. La mia famiglia ha iniziato a spostarsi lungo la Striscia per scappare ai bombardamenti. Poi sono tornati nella nostra casa danneggiata, molte famiglie si sono appoggiate a noi per cercare rifugio. Mio fratello ha mancato un bombardamento di qualche minuto ma una scheggia di metallo gli è entrata nella spalla. Non ci sono ospedali e non ha potuto toglierla.

Come ha vissuto questa guerra dall’Italia?

Sono arrivata a Milano grazie a una borsa di studio alla Naba, la Nuova Accademia di Belle Arti. Quando c’è stato l’attacco palestinese in Israele i miei sentimenti erano contrastanti. Da una parte ero sbalordita, non capivo come avessero fatto. Dall’altra ero molto preoccupata: non sapevo cosa avrebbe comportato per Gaza, e lì c’è la mia famiglia. Mi chiedevo «cosa ci faccio qui? Devo tornare in Palestina». So cosa vuol dire la guerra, l’ho provata sulla mia pelle. In quel momento volevo stare nel mio paese anche con la guerra, non sentirmi una fuggitiva. Sono 15 mesi che penso costantemente alla mia famiglia, stare con loro mi renderebbe felice, riuscirei a ridere anche sotto le bombe. Mi dev concentrare sulla mia educazione, ma quello che Israele sta facendo è inaccettabile. Non è come le guerre precedenti, stanno distruggendo tutto, bombardano le case con le persone dentro, civili, donne, bambini: non è una guerra è una pulizia etnica, è un genocidio.

Qual è la sua sensazione sul modo in cui questo genocidio è visto fuori dalla Palestina?

All’inizio tutti mi chiedevano perché Hamas avesse compiuto l’attacco. Ma si è capito subito che gli obiettivi di Israele non erano i guerriglieri di Hamas ma tutti i palestinesi di Gaza. Le persone manifestano in sostegno della Palestina, sono iniziate raccolte fondi per aiutare ed è una cosa buona, ma soldi e solidarietà non fermeranno questo genocidio. Ci sono tanti che ci supportano, ma hanno le loro vite, non le vogliono fermare. Le nostre vite invece sono ferme, siamo soli.

Che potere ha l’arte?

Quando ho iniziato a dipingere, volevo rappresentare la Palestina che è nel mio cuore. Non ho avuto una vita normale abitando a Gaza, ho iniziato a dipingere quello che provavo. Quando sono venuta in Italia molti galleristi si sono rifiutati di farmi esporre, dicevano che la mia arte è troppo politica. Allora ho messo nei quadri quello che piace agli occidentali ma ho mantenuto il mio messaggio. Prendi questo quadro (ci mostra una tela con una tenda e il cielo pieno di girandole rosse e arancioni). Le persone dicevano: che bei fiori. Ma non sono fiori, sono bombe. Come artista non voglio imporre la mia visione, lo spettatore deve leggere l’opera secondo il suo personale background.

Pensa che la sua arte sia politica?

Sono nata in un paese che è sotto assedio, siamo cresciuti in un contesto dove la politica è la base. Non ci sono differenze tra la vita sociale e quella politica. Io dipingo la mia esperienza per quello che è: politica. Ho dipinto quello che vedete anche per non dimenticare quella violenza cieca.

Pensa che il cessate il fuoco funzionerà?

Non so esattamente quali sono i termini ma appena ho sentito di un possibile cessate il fuoco, ho pensato che stavolta avrebbe funzionato. So anche che fino a domenica, quando dovrebbe entrare in vigore, uccideranno più palestinesi possibile. È successo in tutte le guerre che ho vissuto: tra la firma e la messa in atto dell’accordo Israele fa tutto quello che può per uccidere più palestinesi possibile. Temo anche che ora la guerra verrà spostata in Cisgiordania, anche perché a Gaza non c’è più nulla. E in ogni caso non potremo riavere le persone scomparse.

Cosa pensa che succederà ora a Gaza?

Non lo so. Hanno detto che ci vorrà un mese per lo scambio degli ostaggi, non so se dopo questo tempo riprenderanno la guerra. Chi cresce oggi a Gaza non potrà diventare altro che un combattente dopo aver visto morire fratelli, padri e madri. Questa guerra ha creato un nuovo gruppo di giovani soli e che vogliono solo vendicarsi di Israele. Va capito che dobbiamo essere uniti come palestinesi se vogliamo la libertà. Abbiamo bisogno di un leader dietro cui unirci e Marwan Barghouti ha tutte le caratteristiche giuste.

Tornerà a Gaza?

Certo, se non ci saranno israeliani a Gaza ci tornerò.

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Sinistra Non sono venute meno le ragioni di un’alternativa al Pd. Ma si deve cambiare tattica: un accordo con il centrosinistra può servire a riequilibrare i pesi e spostare la linea

Congresso di Rifondazione, la posta in gioco

 

Sul manifesto Antonio Floridia ha richiamato l’attenzione sul congresso del partito della Rifondazione comunista in corso. Il dibattito congressuale per la prima volta da anni è fortemente polarizzato, tanto che sono due i documenti congressuali alternativi presentati. Il cuore del confronto è una questione che riguarda tutta la sinistra di classe, quella che pone al centro il conflitto sociale e non solo i diritti di cittadinanza, pure importanti. Dunque ritengo sia lecito anche a chi non sia iscritto portare un contributo al dibattito in corso.

L’alternativa di fronte cui si trova Rifondazione mi sembra oggi la seguente: bisogna continuare nel tentativo di costruzione di un terzo polo, alternativo al centrodestra e al centrosinistra, partendo dal rifiuto di qualsiasi alleanza elettorale-politica nazionale con il centrosinistra, come è stato fatto dal 2008 e come sostiene il secondo documento facente capo a Paolo Ferrero; oppure bisogna, dopo molti anni di sconfitte, ipotizzare un’altra strada, pur conservando lo stesso obiettivo, come sostiene il primo documento firmato da Maurizio Acerbo?

Dico subito che per più di tre lustri ho condiviso (da semplice simpatizzante) la prima ipotesi. Credo però che sia ora di cambiare strada, per i motivi che cercherò di spiegare. In primo luogo, come dice Rosa Luxemburg, bisogna evitare di sbattere la testa contro il muro, non solo perché fa male, ma anche perché comporta – scrive la rivoluzionaria – delusione, disperazione, quietismo. Se la strada intrapresa fin qui ha fallito, ciò è dovuto a un fattore decisivo: il sistema elettorale maggioritario, che non si è riusciti a cambiare e che è la causa prima della disaffezione al voto, tanto più in assenza di una elevata conflittualità sociale. Se il proporzionale consentiva nella «prima Repubblica» anche ai partiti minori di arrivare in parlamento, oggi il sistema non lo permette. E se l’elezione a due turni alla francese garantisce visibilità ed efficacia politica a un terzo o quarto polo, il nostro sistema elettorale uccide sul nascere tale possibilità.

Questa situazione determina un’altra conseguenza: una forza non presente in parlamento ha un accesso limitato ai media, in primo luogo alla tv, dove giorno dopo giorno ancora si crea quel senso comune di massa che al momento del voto ne determina in gran parte gli esisti. Per molti, anche politicizzati e persino elettori potenziali, Rifondazione per tale ragione semplicemente non esiste più. Oltre a questi due fattori – il reiterarsi della sconfitta elettorale e la cancellazione della visibilità mediatica – il terzo fattore che sconsiglia di perseverare nella tattica del passato è l’esistenza di un governo di estrema destra che ogni giorno dimostra di voler manomettere alcuni punti fermi della Costituzione e che sta già portando a una accelerazione autoritaria.

In questa situazione, che scenario ipotizziamo per le prossime elezioni? Si andrà probabilmente a un vero e proprio referendum sul governo di ultradestra. Ci sarà spazio per un terzo polo? È facile prevedere che il già forte e deleterio richiamo al voto utile morderà le caviglie di tutti gli antifascisti che vogliono difendere la democrazia rimasta. In una situazione in cui anche l’astensionismo, in totale assenza di forme diffuse di democrazia di base, sarebbe mera testimonianza priva di esplicito e chiaro significato politico.

La domanda dunque è: che fare? Non credo siano venute meno le ragioni per voler costruire un’alternativa al Pd. Bisogna però – oserei dire leninianamente («espellete Turati e poi alleatevi con lui», cioè rispetto delle diverse identità, ma inalterata capacità delle alleanze utili o necessarie) – cambiare tattica, per riconquistare visibilità e ruolo politico. Il che non vuol dire un accordo col Pd, ma può significare un contratto col centrosinistra, contribuendo anche a un riequilibrio del peso preponderante che vi ha il Pd, tale da costringerlo a cambiare linea, ad esempio, sulla pace e sul patto europeo di stabilità – invece di arrendersi al voto utile. Un accordo per sconfiggere il governo dell’ultradestra, per difendere e promuovere la pace, il lavoro, lo Stato sociale.

L’unica alternativa è oggi una sorta di ritorno al socialfascismo (tutti gli «altri» sono ugualmente nemici), al rifiuto di ogni analisi differenziata. Come la storia ci insegna, questo orientamento porta alla sconfitta e all’irrilevanza politica. Forse definitiva.

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