BANCHE IN CRISI. In questi giorni stiamo di nuovo assistendo al manifestarsi di un “effetto farfalla” nel mondo finanziario, quello per cui un battito d’ali di un gentile lepidottero può provocare un uragano […]
In questi giorni stiamo di nuovo assistendo al manifestarsi di un “effetto farfalla” nel mondo finanziario, quello per cui un battito d’ali di un gentile lepidottero può provocare un uragano dall’altra parte del mondo. Tale è il dilagare da un continente all’altro di una pericolosa tempesta innestata dal crollo della Silicon Valley Bank (Svb) e della Signature Bank, che non si limita ad affossare i listini azionari delle principali Borse, ma provoca il crollo di istituti finanziari.
Mercati ko, c’era una volta Credit Suisse
Un “domino” bancario che supera in un attimo i confini degli Usa per portarsi in primo luogo in Europa, ove ne fa le spese la filiale inglese della Svb americana, nel frattempo divenuta autonoma, comprata, per evitare guai maggiori da Hsbc alla cifra simbolica di una sterlina; segue il tonfo di Credit Suisse, il secondo istituto elvetico, che ha visto le sue azioni scendere sotto i 2 franchi, il 70% in meno rispetto all’anno scorso; mentre si considerano inevitabili, seppure non ancora quantificabili, gli effetti che il crack della Svb avrà in Cina, visto che Svb aveva siglato qualche anno fa una joint venture con la Shanghai Pudong Development Bank, tra le prime dieci banche statali commerciali del paese, e che molte start up cinesi operavano con conti Svb.
Eppure la maggior parte dei commentatori in queste ore insistono sulle peculiarità della Svb che ne farebbero un caso speciale. Intendiamoci, l’analisi concreta della situazione concreta è un principio cui dovremmo sempre attenerci. Per cui le diversità tra un caso e l’altro vanno sempre tenute ben presenti. Il fatto che la Svb operasse soprattutto nei confronti di settori “volatili” come quello tecnologico e delle start up, con tutto ciò che ne consegue per quanto riguarda la gestione del rischio, o che la Signature Bank fosse legata all’oscuro mondo delle infide criptovalute – anche se dovrebbe inquietare di più la crescente area dello shadow banking, quel mondo popolato da fondi e società che svolgono attività bancarie senza rispondere a specifiche normative – sono elementi da indagare per capire le cause del crack. Ma queste non sono bastate a porre recinti invalicabili. Anzi.
Le interconnessioni del sistema bancario mondiale, per quanto e proprio perché non regolate, hanno avuto il sopravvento. Le ragioni di fondo, oltre che nella precipua instabilità del finanzcapitalismo, risiedono nella sconsiderata politica del rialzo dei tassi nel tentativo di combattere l’inflazione. Il che dimostra come non si possa passare col semplice volontarismo decisionista da un sistema a tassi zero o negativi, che ha retto le sorti del capitalismo mondiale per diversi anni, ad uno in cui si procede, annuncio per annuncio, a un incremento degli stessi da parte delle banche centrali a colpi di mezzo punto per volta. Tanto è vero che l’annunciato incremento dello 0,50 sia della Fed che della Bce pare venire messo in dubbio in queste ore. Certamente le autorità americane hanno agito con maggiore tempestività di fronte al crollo della Svb, di quanto non fecero ai tempi della Lehman Brothers. Ma pur sempre a falla aperta. Solo il 7 marzo scorso Jay Powell, presidente della Fed, di fronte al Senato puntava l’indice solo contro l’inflazione, come se il riempirsi di titoli di Stato da parte delle banche non costituisse allarme a fronte di un innalzamento dei tassi, come se l’allentamento delle regole sulle piccole banche, voluto da Trump, e non solo, nel 2018 non fosse di per sé una mina vagante pronta a scoppiare alla prima occasione. Ovvero la storia è un’ottima maestra ma non ha scolari.
Tanto più che l’inflazione non segnala apprezzabili diminuzioni. Pur con differenze, né negli Usa né nella Ue. Infatti la sua persistenza, definita “appiccicosa”, viene utilizzata come una clava contro l’eventuale incremento dei salari, di cui naturalmente nel nostro paese non vi è traccia. Lo spettro della stagflazione torna a materializzarsi: crescita stagnante, se non recessione, con inflazione sostenuta. Secondo Nouriel Roubini – chiamato Mr Doom (profeta di sventure) semplicemente perché, a differenza della maggioranza degli economisti che le previsioni le fanno sul passato, aveva previsto la Grande recessione del 2008-2009 – siamo di nuovo in uno scenario catastrofico, ce lo spiega nel suo ultimo libro, in cui la recessione, lo dimostrerebbero le curve invertite dei rendimenti dei titoli di stato, potrebbe giungere ben prima della discesa dell’inflazione al 2%.
Intanto la Ue non riesce a trovare la quadra sulla riforma del patto di stabilità. La Germania non è convinta della gradualità della riduzione del debito, come si apprende dalla riunione dell’Ecofin e nega che vi sia stata già una intesa. Le proposte di riforma finora conosciute si basavano sulla possibilità di contrattare percorsi diversi da parte dei singoli paesi, se tale flessibilità viene negata si torna al punto di partenza. Come ha dichiarato il ministro delle Finanze tedesco Christian Lindner «non c’è alcuna carta bianca, bensì la necessità di ulteriori profonde discussioni tecniche». Solo che la crisi, per non parlare della guerra, non aspettano
Commenta (0 Commenti)ASSOCIAZIONISMO E SINDACATO. Ripensare oggi le città in termini di maggiore sostenibilità ambientale, nuovo policentrismo, rigenerazione fisica e sociale dei suoi spazi è tutt’uno con la creazione di buon lavoro, di qualificazione delle […]
Ripensare oggi le città in termini di maggiore sostenibilità ambientale, nuovo policentrismo, rigenerazione fisica e sociale dei suoi spazi è tutt’uno con la creazione di buon lavoro, di qualificazione delle imprese, di inclusione. Vale per le forze politiche, vale per un grande sindacato come la Cgil in questi giorni a congresso.
La rigenerazione è qualcosa in più infatti di una “sistemazione urbana”, è la riconquista di un’idea di programmazione del territorio, è un obiettivo economico ed occupazionale, assumendo i bisogni collettivi come motori di sviluppo.
Con una battuta: gli obiettivi dell’Agenda Onu sulla sostenibilità (a partire dal Goal 11 sulle città) e della strategia europea “Next Generation” sono già dei programmi politici ed economici su cui concentrare forza sindacale ed esperienze di democrazia partecipata, a partire dalle stesse Camere del Lavoro.
Su questo Fillea e l’Associazione Nuove Ri-Generazioni sono impegnate da tempo, anche insieme allo Spi, provando ad offrire un contributo alla stessa elaborazione della Cgil e di tutto il movimento sindacale. Su questo la stessa iniziativa contrattuale della Federazione da un lato e politica e culturale dell’Associazione dall’altro si è caratterizzata, con le imprese, con i passati governi (Conte 2 e Draghi) e con le tante esperienze locali.
E continua ancora oggi, in un contesto più difficile e con un governo che ha scelto una narrazione tutta dentro l’attuale modello di crescita, con scarsa attenzione al lavoro e con una “negazione” della stessa questione ambientale.
Eppure l’unica strada possibile è tenere insieme lavoro stabile e di qualità, nuove professioni, qualificazione di impresa e lotta all’illegalità, con una visione industriale del settore (non solo edilizia, ma anche tutta la filiera della produzione e del riuso dei materiali) che si intrecci con i bisogni delle aree urbane in permanente trasformazione. E su questa visione, nuove e vecchie alleanze possono essere praticate.
Possiamo leggere così anche la giornata di mobilitazione indetta dagli edili di Cgil e Uil per il prossimo primo aprile che, non a caso, vedrà i lavoratori mobilitarsi in cinque piazze di periferia. Per tenere insieme rivendicazioni immediate (la modifica del decreto 11/2023 che esclude i redditi più bassi da ogni incentivo per l’efficienza energetica; la modifica al nuovo Codice appalti che prevede la liberalizzazione del sub appalto) e una visione più di medio termine. La difesa dell’occupazione e dei diritti di chi è in cantiere con l’unico futuro possibile per un paese che non vuole più consumare suolo, avere case degradate e poco sicure, sprecare energia ed inquinare il pianeta.
Saremo in piazza per rivendicare politiche industriali, stabili e durature per il settore delle costruzioni, per difendere l’occupazione esistente e per crearne di nuova, accompagnando milioni di lavoratori dai settori “dark” a quelli “green”. Per raggiungere gli obiettivi di efficienza energetica, sicurezza antisismica e sostenibilità ambientale decisi dall’Onu e dall’Europa. Servono risorse e strumenti per realizzare la città dei 15 minuti, per garantire case di qualità, aree verdi, servizi di prossimità a partire dalle nostre periferie. Servono infrastrutture e opere pubbliche di qualità che dagli interventi più grandi alla riqualificazione diffusa di scuole, ospedali, case popolari garantiscano a tutti di vivere meglio.
Per questo chiederemo la modifica del decreto 11/2023 sui bonus edili, che rischia di distruggere 100 mila posti di lavoro e soprattutto di escludere milioni di cittadini a basso reddito dalla possibilità di avere una casa più efficiente in termini energetici, più salubre e con bollette meno care. Dobbiamo garantire la cessione del credito e lo sconto in fattura per gli incapienti (con il 100% dei costi anche tramite recuperi sulla bolletta) e per i redditi medio-bassi (Isee inferiore ai 30 mila euro), per i condomini e per chi vive nelle periferie, con l’obiettivo di aggredire tutte le classi energetiche più basse e abbattere ogni barriera architettonica.
Serve una legge quadro per la rigenerazione urbana, con una nuova pianificazione urbanistica basata su maggiori risorse e strumenti partecipativi. E serve qualità nel lavoro di chi è chiamato a fare tutto questo. Per questo servono vincoli stringenti sull’obbligo di applicare e rispettare i Ccnl Edili in tutti gli appalti di lavori, a partire dagli appalti di lavori pubblici, migliorando le previsioni del nuovo Codice degli Appalti contro ogni forma di dumping contrattuale, lavoro irregolare, infiltrazioni criminali. Per questo chiediamo il ripristino del divieto dei sub appalti a cascata e la valorizzazione delle imprese più strutturate, la loro qualificazione.
Vogliamo diventare un paese migliore, più efficiente, sicuro e ambientalmente sostenibile. Per questo lanciamo un appello a tutte le forze dell’ambientalismo, dell’impegno civico, alle forze politiche e ai rappresentanti delle istituzioni, ai comitati di quartiere e agli studenti, ai tecnici e agli inquilini per essere con noi in piazza il prossimo primo aprile. Per “fare la cosa buona”, come recita lo slogan dei sindacati edili.
***Alessandro Genovesi (Segretario Generale FILLEA CGIL) e Rossella Muroni (Presidente Nuove Ri-Generazioni)
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LAVORO. Il XIX Congresso nazionale della Cgil, “Il lavoro crea il futuro”, che prende il via oggi a Rimini, conclude un lungo percorso che ha avuto inizio lo scorso 30 settembre. […]
Il segretario generale della Cgil Maurizio Landini - foto Ansa
Il XIX Congresso nazionale della Cgil, “Il lavoro crea il futuro”, che prende il via oggi a Rimini, conclude un lungo percorso che ha avuto inizio lo scorso 30 settembre.
Nella prima fase congressuale, che si è svolta fino al 10 dicembre, si sono tenuti ben 43.211 congressi di base, di cui 37.220 sul posto di lavoro e 6.011 territoriali. Poi è stata avviata la seconda fase, conclusasi il 24 febbraio scorso, durante la quale si sono svolti 1.939 congressi: 1.540 nelle categorie provinciali; 240 nelle categorie regionali; 12 nelle categorie nazionali; 126 congressi nelle Camere del lavoro e Camere del lavoro metropolitane; 20 congressi delle Cgil regionali.
Un percorso di partecipazione e democrazia che ha eletto 986 delegati e delegate (Il 50% sono donne), che da oggi siederanno al Palacongressi di Rimini per il congresso nazionale.
Ogni quattro anni le iscritte e gli iscritti, le delegate e i delegati, il gruppo dirigente diffuso sono coinvolti in un confronto democratico in tutto il Paese, costitutivo per la nostra organizzazione e vitale per l’insieme del mondo del lavoro.
Da molti anni, oramai, i nostri congressi pongono al centro della riflessione la necessità di fare i conti con la frantumazione del lavoro e la perdita di diritti.
Una situazione figlia di leggi che hanno accompagnato la precarizzazione del lavoro e favorita dalle scelte delle imprese e dai servizi, dal pubblico e dal privato. Una frantumazione
Commenta (0 Commenti)Il ritorno di Lula alla guida del Brasile ha dato una scossa a tutto il continente americano e l’onda è arrivata anche oltre oceano, in Europa. Sin dalle prime uscite Lula ha indicato due priorità internazionali per il suo nuovo mandato: posizionare il sub-continente latinoamericano come un soggetto politico unito, e la costruzione della pace a livello globale. Ovviamente, le due cose sono strettamente collegate.
Un’America Latina divisa non aiuterebbe a spostare l’asse della politica internazionale verso un nuovo paradigma e un diverso equilibrio geo-politico. Mentre la ripresa del processo di integrazione, dal Messico all’Argentina, darebbe maggiore forza contrattuale alle richieste e alle proposte che l’America Latina, ma in particolare la leadership brasiliana, collocherebbe sui tavoli internazionali e nelle relazioni bilaterali con le grandi potenze.
Il primo alleato di Lula è il grande vecchio uruguayano, Pepe Mujica, che con i suoi 87 anni ha ripreso il suo impegno politico a sostegno dell’amico e hermano Lula, per unire popoli e stati latinoamericani, ripartendo dall’Unasur, dal progetto di libertà di circolazione delle persone in tutto il sub-continente, di moneta comune, di cooperazione industriale e commerciale. I due hanno lanciato la sfida e gli alleati in questa fase non mancano: Messico, Colombia, Argentina, Cile, Bolivia, Venezuela hanno leader e governi che condividono l’ideale della “Patria Grande” di Simon Bolivar, e non hanno tardato a mandare segnali di esser pronti a riprendere questo percorso di cooperazione e integrazione regionale.
L’agenda di Lula prevede un viaggio al mese per riprendere i contatti con i leader di Europa, Asia e Africa, oltre alle visite che riceverà in Brasile, come quella recente del cancelliere tedesco Scholz. Biden ha già avuto modo di capire come sia cambiata la musica in America Latina: il suo appello a fornire armi all’Ucraina ha visto il no di Brasile, Colombia e Messico, a cui ha fatto la proposta di Lula di promuovere una Coalizione di Stati per la Pace.
Questa netta presa di posizione non è frutto di improvvisazione, ma è un lucido disegno politico di rompere lo schema di contrapposizione militare tra Usa e Russia e di scontro economico tra Usa e Cina, schema che sta bloccando ogni ipotesi di soluzione politica al conflitto in Ucraina.
Se Lula e gli Stati latinoamericani, per le loro relazioni storiche e per il loro essere neutrali - che non significa affatto appoggiare Putin e non condannare l’invasione e la violazione della carta delle Nazioni Unite - riescono ad aprire uno spazio negoziale coinvolgendo la Cina e paesi come l’India, il Sud Africa, l’Indonesia, senza rompere con il blocco occidentale, si può veramente aprire il negoziato e sperare nel cessate il fuoco.
Tutti sono consapevoli che la strada è difficile e piena di ostacoli. Molti sono i soggetti in campo che non vogliono che la guerra finisca. Come anche non possono essere disponibile ad accettare un protagonismo internazionale da Lula e dal blocco latinoamericano, che ha come obiettivo il cambio del paradigma finanziario-economico che fa capo a Washington. Ma, forse, il solo fatto di intravedere una via di uscita ad una guerra che può scoppiare in mano ai tatticismi e agli interessi di parte, e trasformarsi in un’apocalisse nucleare, potrebbe far comodo a tutti quanti.
Commenta (0 Commenti)CUTRO E NON SOLO. Protezione dei confini esterni e lotta ai trafficanti di migranti. Ecco la risposta del presidente del Consiglio Giorgia Meloni alla strage di Cutro. È con la lotta ai responsabili che […]
Protezione dei confini esterni e lotta ai trafficanti di migranti. Ecco la risposta del presidente del Consiglio Giorgia Meloni alla strage di Cutro. È con la lotta ai responsabili che andrà risolto il pesante fardello dell’immigrazione clandestina. A Cutro si identificano ancora i cadaveri. Alcuni corpi sono ormai difficilmente riconoscibili. Nel mentre, chi ha scampato la morte resta segregato, in detezione. La fortuna di essersi salvati non vale il pass per la legalità. Per i vivi ci sarà tempo. Bisogna pensare a chi è morto. Ci si inchina di fronte alla tragedia. Palloncini colorati, lettere d’ affetto, dolci croci improvvisate. Si piange, ci si dispera, si chiede giustizia. I resti del naufragio abitano le coste di Cutro. Scarpe, pantaloni, giacche, salvagenti, giocattoli. Le telecamere si soffermano sui resti dei bambini. C’erano erano bambini tra i morti, si dice a voce bassa. Bisogna essere bambino per suscitare un po’ più di compassione.
L’empatia, scrive la filosofa Nussbaum, è la capacità di sapersi mettere nei panni altrui, di sentire ciò che si potrebbe provare al loro posto. Tale viaggio verso l’altro è solo immaginario. Ma immaginare non è tempo perso. Immaginare è atto creativo che apre le porte verso la possibilità di qualcosa di nuovo, di diverso. È la condizione del cambiamento. Per cambiare ciò che sarà, occorre però ricordare quel che è stato. La strage di Cutro è strage annunciata. Il suo esserci è il risultato di un modus operandi e di un atteggiamento verso le politiche di frontiera che è ormai in atto da decenni. Risale a dieci anni prima, il 3 ottobre del 2013, la più famosa strage nel Mediterraneo, quella che ha dato ulteriore risonanza mediatica a Lampedusa, facendola diventare il più grande palcoscenico dello spettacolo del confine. Il confine è diventato ormai da tanti anni luogo privilegiato dello spettacolo che le politiche internazionali hanno messo in atto.
È un teatro, un grande teatro nel quale però, a differenza di quel che il termine vorrebbe suggerire, ogni scena viene vissuta sulla pelle di chi lo abita. Un Truman Show che vale solo dalla prospettiva di chi ha la fortuna di poterne stare fuori, ed è il caso storico e contingenziale, non il merito individuale, a determinare spettatori e attori.
Per chi ci sta dentro, tutto appare molto vivido, forte e chiaro. Per chi opera come medico ed è stato esposto alle ferite da torture di un giovane che è arrivato dalla Libia e ha visto una sorella massacrata di botte, è evidente che tutto ciò che sta accadendo ai confini d’Europa è solo una grande assurdità. Per chi è stato migrante e dopo anni di attesa ha avuto la fortuna di poter lavorare come mediatore culturale, la vista quotidiana di compagni che soffrono ciò che si è vissuto sulla propria pelle, non fa dormire la notte.
Gli incubi dei soprusi e delle percosse tornano alla mente ogni volta. Incubi che visitano anche la gente che questi li ha incontrati, che ha sentito gli odori del gasolio sui corpi nudi, a volte dovendone recuperare i resti dopo giorni in mare, putrefatti, irriconoscibili, sbiancati. Il puzzo di quegli incontri è rimasto dentro e non va più via. Così lo descrive l’ex custode del cimitero di Lampedusa Vincenzo Lombardo, uno dei primi testimoni di migranti morti in mare e recuperati sulle coste di Lampedusa. Il presente di Cutro affonda le sue radici in un passato lontano. Vincenzo parla del 1996 e dei primi morti che Lampedusa si ritrovò ad ospitare prima ancora che l’isola – che fino a pochi decenni prima non compariva su molte cartine geografiche italiane – divenisse fulcro del discorso migratorio internazionale.
Oggi Cutro piange i morti e chiede che ciò che si è verificato non accada più. Richieste antiche di chi abita ai margini d’Europa e vede quel che resta dell’umanità scomparirgli d’innanzi. Le risposte che arrivano dalle istituzioni danno una colpa a chi è partito, insultando la memoria storica di paesi dell’Africa e del Medio Oriente che vertono a fasi alterne in uno stato di privazione della libertà di espressione di parola, di pensiero, di orientamento sessuale, e forse più banalmente – ma questo è il punto cruciale – di movimento libero.
I migranti irregolari hanno avuto negata tale libertà. Mentre lo Stato italiano insieme all’Europa si accinge a dichiarare la sua ennesima battaglia contro gli illegali per proteggere i propri confini, la tela incolore del nostro futuro si è già macchiata di rosso. Il sangue di chi verrà sulle nostre rive a chiedere giustizia è già stato versato prima ancora che una strage si consumi. La storia dell’immigrazione ai confini d’Europa ci avverte che altra morte verrà a farci visita, se non tra le nostre coste, certamente tra le trame della nostra coscienza.
*Docente e ricercatore associato presso l’Università di Oxford
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IRAN-ARABIA SAUDITA. La ripresa imminente delle relazioni diplomatiche tra due antichi rivali ottenuta da Pechino è la dimostrazione che il mondo cambia più velocemente di quanto si possa immaginare qui in Occidente
Il triangolo no, non l’avevo considerato: la strofa della canzone potrebbe essere dedicata a Biden, costretto a far buon viso a cattivo gioco. Anche i suoi alleati storici come i sauditi sono amici dei cinesi e grazie a loro fanno pace con i rivali di sempre. Persino quel Patto d’Abramo tra Israele e gli stati arabi del Golfo, un sorta di Nato mediorientale, adesso appare forse un traguardo meno vicino per i sauditi e per i piani di un Netanyahu sempre più in crisi a casa sua.
La ripresa imminente delle relazioni diplomatiche tra due antichi rivali, l’Iran sciita e l’Arabia saudita cuore del mondo sunnita, ottenuta da Pechino è la dimostrazione che il mondo cambia più velocemente di quanto si possa immaginare qui in Occidente. È un mondo che può non piacere, dove ci sono più autocrati che democrazie, ma voltare la testa dall’altra parte non aiuta a sciogliere i nodi. Anzi.
Come sottolineava il ministro degli esteri indiano Jaishankar al New York Times a proposito del conflitto ucraino, «voi occidentali ed europei siete bravi a far diventare i vostri problemi i problemi di tutti, ma quando noi abbiamo un problema nemmeno ci ascoltate». L’India alla fine di questo decennio sarà il Paese più popoloso del mondo e la terza economia dietro Usa e Cina. Né indiani né cinesi hanno condannato la Russia per la brutale aggressione all’Ucraina, né hanno messo sanzioni, approfittando di quelle occidentali per intensificare le forniture energetiche (con lo sconto) da Mosca.
La diplomazia di Pechino è rapida: è l’unica potenza ad aver presentato un piano di pace (sia pur vago) per la guerra in Ucraina e in poco meno di tre mesi ha messo al tavolo Teheran e Riad. È di dicembre il viaggio di Xi Jinping in Arabia saudita dove ospite del principe assassino Bin Salman (mandante dell’omicidio del giornalista Jamal Kashoggi) incontrò anche una trentina di capi di stato e di governo arabi (c’erano anche al-Sisi e Mahamoud Abbas).
È di febbraio la visita in Cina del presidente iraniano Ebrahim Raisi dove ha ricevuto un impulso decisivo l’integrazione di Teheran nella realtà geopolitica eurasiatica con l’ingresso a tutti gli effetti nell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (Sco) deciso lo scorso settembre a Samarcanda: ne fanno parte Russia, Cina, India, Pakistan e quattro repubbliche centro-asiatiche dell’ex Urss, e mette assieme il 40% della popolazione mondiale e circa il 30% del Pil del pianeta. Certo i cinesi sono arrivati a questo risultato con le leve potenti della loro diplomazia economica. La Cina è il maggiore cliente del petrolio iraniano sotto embargo occidentale e considera con estremo interesse che Teheran possiede le seconde riserve al mondo di gas: i giacimenti offshore di South Pars, condivisi in parte con il Qatar, potrebbero fornire l’intero consumo di un anno in Europa. Ma la via occidentale per la repubblica islamica, di fronte alla sollevazione anti-teocratica del movimento «Donna vita e libertà», appare sbarrata, e quindi si presenta la sponda cinese.
Ma é il rapporto tra Pechino e Riad, che vantano un interscambio di 330 miliardi di dollari, quello che brucia di più a Washington ora in apprensione: gli sforzi degli Stati uniti per indebolire e dividere i loro rivali risultano sempre meno efficaci. Nel contempo la politica delle sanzioni a oltranza, della promozione delle «rivoluzioni colorate» o dell’aggressione militare – diretta o per procura – sta sempre più alimentando un «movimento» che ha il suo baricentro in Asia. Cosa sta accadendo lo spiegava un articolo di Foreign Affairs: gli Stati uniti devono abbandonare il loro «narcisismo strategico» con cui chiedono ai loro alleati di schierarsi continuamente su ogni questione. Ce la fanno con gli europei ma già nella Nato c’è la Turchia che con Mosca e l’Iran agisce come le pare. Gli alleati americani del Medio Oriente e del Golfo vogliono partecipare agli accordi con gli Usa ma sentirsi anche liberi di muoversi verso Cina e Russia.
La svolta «cinese» dei sauditi appare quasi epocale. Era il 1945 – la seconda guerra mondiale doveva ancora finire – quando il presidente Usa Roosevelt e il sovrano wahabita Ibn Saud si incontrarono nel canale di Suez a bordo dell’incrociatore Quincy per forgiare il patto di ferro tra Stati uniti e Arabia Saudita da allora sempre rinnovato: sicurezza americana contro petrolio saudita. Quell’accordo è quasi del tutto ingiallito. Un evento negativo per Riad, è stata la mancata risposta Usa all’attacco di droni degli Houthi yemeniti alle raffinerie saudite nel settembre 2019. Adesso nel Golfo avanzano i nuovi equilibri (o squilibri) di un mondo multipolare. Come sottolineava ieri sul manifesto Michele Giorgio, l’Iran ha dimostrato di sapere aggirare l’isolamento regionale, incassando anche le lodi di una settimana fa del capo dell’Aiea Grossi per il ripristino delle ispezioni sul nucleare civile, mentre Riad si ripropone come mediatore nelle crisi mediorientali dove si sono affrontati sciiti e sunniti, dalla Siria al Libano, allo Yemen, in vista della prossima ripresa dei negoziati di pace. Allora vedremo se il «triangolo» cinese funziona
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