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TRANSIZIONE ECOLOGICA. Il governo di coalizione e di sinistra spagnolo ha deciso qualche giorno fa di dedicare 5000 KM2 dei suoi mari per installarvi turbine eoliche galleggianti, aspirando così a diventare il […]

 Spagna e Italia, due scelte contrapposte Rigassificatore di Livorno - Ansa

Il governo di coalizione e di sinistra spagnolo ha deciso qualche giorno fa di dedicare 5000 KM2 dei suoi mari per installarvi turbine eoliche galleggianti, aspirando così a diventare il principale referente europeo di questa tecnologia e dell’energia elettrica che essa produce. Diversa è l’aspirazione del governo dichiaratamente di destra italiano che invece sogna trasformare il paese in un grande deposito di gas per poi distribuirlo in tutta l’Europa e per questo ha deciso che i mari che lo circondano saranno ulteriormente trivellati per estrarre i pochi metri cubi di gas che ancora contengono, attraversati dai tubi dei nuovi lunghi gasdotti che si intende costruire e per completare l’opera percorsi da navi cariche di gas congelato per rifornire quelle gigantesche, ormeggiate nei porti di Piombino e Ravenna che servono per rigassifigare.

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Due governi e due diversi immaginari decisamente contrapposti che sollecitano un interrogativo: quale dei due governi ha preso la decisione migliore? In altre parole quale dei due progetti garantisce meglio un futuro gradevole di lavoro, diritti e giustizia climatica ai propri popoli? Da questo punto di vista la risposta dovrebbe esse scontata e l’Europa dovrebbe considerare anticaglia pericolosa le decisioni Italiane premiando le scelte spagnole (e quelle portoghesi, perché Lisbona sta facendo le stesse cose) e penalizzando quelle italiane per la loro estraneità alla transizione ecologica. Soprattutto sarebbe utile mettere a confronto le due diverse prospettive delineate coinvolgendo la popolazione europea che di transizione ecologica ed energetica sa poco, bombardata com’è dai tanti messaggi eco furbi delle imprese energetiche impegnate a dare continuità alle fonti fossili, come ad esempio fa “Plenitude” dell’Eni.

Ma a guardare bene la scommessa spagnola e quella portoghese sembrano predicare nel deserto, quello in cui si è arenato il progetto europeo della transizione ecologica. Sono tanti e ripetuti i segnali che inducono questo pessimismo. La scelta di qualche giorno fa di rinviare a data da destinarsi la messa al bando nel 2035 le auto a combustione è indicativa in questo senso. Si sapeva che l’Italia per le stesse ragioni per cui aspira a essere l’Hub europeo del gas puntava a questo risultato e che attorno a sè avrebbe radunato i paesi più arretrati della Ue sul piano tecnologico e dell’innovazione, come è quello dei Paesi ex sovietici.

Ma è una totale sorpresa che a questo schieramento arretrato e conservatore si unisse la Germania, al cui governo ci sono i Verdi, oltre che l’Spd. Il segnale suona come il definitivo arenamento della scommessa Europea sul progetto NextGenerationUe. La stessa operazione il governo Meloni proverà a ripeterla quando la Commissione Europea tenterà di far approvare la direttiva sulla riqualificazione energetica del patrimonio abitativo, che chiede agli stati membri di portarlo almeno nella modestissima classe E.

Ed invece ci si guarderà bene di aprire questo confronto fra le diverse interpretazioni della transizione ecologica, facendo in modo che ogni stato la interpreti come vuole. Ognuno per conto suo col bel risultato di rischiare di fallire gli obiettivi climatici sia al 2030 che al 2050. Un altro pessimo segnale che il sogno europeo sta andando in pezzi, ormai travolto da una guerra che alimenta i peggiori nazionalismi

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STRAGE DI CUTRO. Nei commenti immediatamente successi alle sciagure c’è un copione unico: un vacuo dibattito caratterizzato dalla tesi secondo che i migranti sono vittime di una figura che ne determina le decisioni e ne organizza il viaggio spesso stimolandolo: gli scafisti o i «mercanti di carne »

C’è una sola possibilità: tornare a Mare Nostrum 

Ormai ogni decina di anni ha luogo nel Mediterraneo in prossimità delle coste italiane una strage di migranti. La prima fu quella di Portopalo del Natale 1996, con 280 vittime. La seconda fu quella della Kater i Rades nel 1997, quando una imbarcazione albanese fu speronata da una nave militare italiana che causò la morte di oltre cento migranti. I protagonisti erano profughi che fuggivano dall’Albania in guerra civile. Il cui governo aveva deciso di chiudere le frontiere in uscita, su richiesta esplicita del governo «democratico» italiano che aveva deciso sciaguratamente il blocco navale.

Quindici anni dopo nel 2013 c’è stata la tragedia di Lampedusa con il naufragio di una nave libica carica di migranti avvenuto a poche miglia dalla costa: la strage più grave di tutte con 368 morti. E ora abbiamo la strage di Cutro della quale sappiamo tutto tranne ciò che aiuta a capire.

Nei commenti immediatamente successi alle sciagure c’è un copione unico: un vacuo dibattito caratterizzato dalla tesi secondo che i migranti sono vittime di una figura che ne determina le decisioni e ne organizza il viaggio spesso stimolandolo: gli scafisti o i «mercanti di carne ». L’altro assunto è che non si può far entrare tutti e che bisogna difendere le frontiere nazionali dall’invasione di una immigrazione incontrollata. Il tutto accompagnato dalla ipocrita proposta di soluzione secondo la quale « bisogna aiutarli a casa loro»

All’inizio di questo secolo il compito di controllo venne assegnato a una agenzia della Ue, Frontex, con sede a Varsavia e in attività a partire dal 2004, destinataria di enormi finanziamenti dal bilancio dei paesi dell’Unione. I mezzi a disposizione di Frontex servirebbero a «garantire la protezione delle frontiere esterne dello spazio di libera circolazione della Ue»: cioè a bloccare i migranti.

Nel progressivo incremento delle politiche di chiusura qualcosa cambiò dopo la strage di Lampedusa con l’istituzione in Italia del programma di intervento ‘Mare Nostrum’ stimolato dal clima di commozione – «mai più» – e da una riflessione meno convenzionale sui motivi che spingono la gente a partire: si trattò di una scelta politica in controtendenza ma in linea con

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COMMENTI. Siamo sicuri che si sia votato solo per eleggere la segretaria di un partito «di elettori e di iscritti» o piuttosto la possibile leader di una opposizione che manca alle destre e al loro governo?
Elly Schlein: una svolta, circondata da molti «ma» Elly Schlein - foto Ansa

Schlein, Landini, Conte: una foto di gruppo diventata una icona sullo sfondo della solatia giornata che ha salutato la grande manifestazione antifascista di Firenze, carica di significati densi e attualissimi. Tre volti, tre figure che potrebbero rappresentare un possibile schieramento d’opposizione che si rapporta a una dimensione sociale e, a sua volta, una proposta di coalizione sociale, annunciata ma fin qui trascurata, che riprende fiato e corpo in relazione con una dimensione politica senza confusione di ruoli. Eppure ci sono molti «ma» che ci separano da un simile wishful thinking. E i«ma» stanno soprattutto sul versante Schlein nella sua qualità di ultima arrivata senza che ce ne accorgessimo – come si è autodefinita. In effetti l’esito dei gazebo è stato per i più, una sorpresa.

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Che però, a guardar bene, deriva più da una nostra ottica sbagliata che non da una straordinaria performance della nuova segretaria. È come se avessimo introiettato il fatto che dopo che le precedenti primarie avevano sempre confermato il dato uscente dal voto «interno», così sarebbe successo anche stavolta. In realtà avremmo dovuto stupirci del contrario, cioè del fatto che non fosse accaduto già da prima. Non ci mancavano gli elementi per essere più avvertiti. Infatti, – lo ha scritto Antonio Floridia su queste pagine e in un suo recentissimo libro – il modello originario con cui è nato il Pd, oltre alla indeterminatezza ideale, politica e sociale, comprendeva anche il carattere del tutto indefinito dei confini della nuova organizzazione. Lo statuto, approvato il 16/2/2008 definiva il Pd come un partito «costituito da elettori e da iscritti». Lo stesso ordine con cui i due soggetti vengono nominati non é casuale visto che è stata ripetuto senza modifiche nelle successive versioni statutarie, compresa quella del 2021 che appare in Gazzetta Ufficiale. Ovviamente chiunque può attribuirsi la qualifica di elettore, essendo questa del tutto inverificabile, dal momento che per la nostra Costituzione il voto è libero e segreto. E non c’è Albo che tenga.

Se poi si aggiunge la continua diminuzione degli iscritti negli anni – non corretta dal passaggio da 80mila a 150mila durante quest’ultimo percorso congressuale -; l’assenza di prerogative decisionali dell’iscritto rispetto al comune, vero o presunto, elettore, e soprattutto il fatto che tra gli iscritti al Pd e il suo elettorato non esiste un rapporto quantitativo misurabile, la sorpresa per l’esito delle cosiddette primarie si ridimensiona non poco. Non c’è bisogno di immaginare disegni machiavellici dietro quel voto. Può valere l’interpretazione più favorevole: esiste una sinistra diffusa non inquadrata in organizzazioni partitiche, ma non ancora definitivamente sfiduciata dalle cattive prove della politica e del Pd in particolare.

Piuttosto serve chiedersi quale significato avesse quel voto. Siamo sicuri che si sia votato solo per eleggere la segretaria di un partito «di elettori e di iscritti» o piuttosto la possibile leader di una opposizione che manca alle destre e al loro governo? Osservando la campagna di Elly Schlein e le sue successive dichiarazioni, emerge più questa seconda figura. Che poi possano sovrapporsi è ovvio, ma qui è importante cogliere il senso prevalente di quel voto.

Attraverso questa lente andrebbe quindi in primo luogo misurata l’adeguatezza di Elly Schlein. E qui i «ma» si moltiplicano. Finora i suoi atti pubblici appaiono come risposte necessarie alle mosse del governo e delle destre.

Cosa indispensabile, ma non sufficiente. Costruire un’opposizione significa in primo luogo, ce lo ripeteva Stefano Rodotà, definire un’agenda alternativa a quella del governo e non soltanto giocare di rimessa. Si potrebbe obiettare: verrà col tempo.

Ma c’è una cosa che deve esserci subito, perché è premessa di tutto il resto.

Tra le sue proposte annunciate figurano reddito di cittadinanza, salario minimo, il no all’autonomia differenziata e pare anche una patrimoniale che colpisca le ricchezze. Ma sul versante della pace, già relegato a uno tra i punti finali del programma per le primarie, non vi è una parola convincente. Anche nella sua recente intervista al New York Times Schlein dichiara che il suo partito è un «sostenitore totale» di Kiev, rivendicando il merito di avere votato per l’invio di armi. L’iniziativa diplomatica e di popolo per un cessate il fuoco e una conferenza di pace viene poi evocata come una foglia di fico, per nascondere che l’escalation in corso e il riarmo generale muovono da tempo in direzione opposta. Non si tratta di un vuoto che si possa riempire strada facendo, ma di una mancanza di senso, soprattutto perché il tempo che abbiamo per impedire la generalizzazione del conflitto, comprendendo anche l’uso del nucleare, è maledettamente breve. Le tante manifestazioni di Europe for peace del 25 febbraio lo hanno gridato chiaramente. Guai non ascoltarle

 
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... intendono quelli piccoli, quelli che non contano niente: con quelli grandi loro ci fanno gli accordi.

Luca Casarini - Wikipedia

In mezzo al fragore, sacrosanto, dovuto alla strage di Cutro, una notizia di un certo rilievo è passata quasi inosservata: la polizia francese ha fermato all’aeroporto Charles De Gaulle, Imad Al Trabelsi, attuale ministro dell’interno libico, con una valigia piena di soldi in contanti, mezzo milione di euro, di cui non ha “saputo” dare spiegazioni.

Il suo passaporto diplomatico, e chissà cos’altro, gli hanno permesso di essere rilasciato, e di certo per il giudice francese che ha in mano il caso, non sarà facile adesso pretendere spiegazioni plausibili. Se dovessimo stare alle note vicende, si potrebbe aprire un “LibyaGate”, ma probabilmente non sarà così. Il potente Ministro libico gli affari, e tanti, li fa da sempre, con i governi occidentali.

Lo ricordano bene tre cronisti esperti, ai quali la notizia non è sfuggita: Nello Scavo, che su questi traffici ci ha anche scritto un libro ( LibyaGate, ed. ViteePensiero, 2023 ), Fausto Biloslavo per Il Giornale, uno a cui le “fonti” non mancano, e Umberto De Giovannangeli su Globalist. Oltre a Sergio Scandura che per Radio Radicale ha segnalato l’accaduto. Ma perché la notizia, come scrive Biloslavo a mò di allerta, visto che oppositore del governo non è, “potrebbe imbarazzare il Viminale”?

Perché il trafficante libico Trebelsi, promosso a ministro, lo scorso 21 di febbraio era con Piantedosi nel suo ufficio, a Roma, per gli accordi “per fermare le partenze” dei migranti e dei rifugiati imprigionati in Libia. Che questo galantuomo sia un criminale, e non uno semplice, ma un pezzo da novanta, lo dice il suo curriculum: Capomafia del sud ovest della Libia dilaniata del post-Gheddafi, già schedato dalle Nazioni Unite come uno dei più potenti trafficanti, a capo della milizia di Zintan. Ha accumulato milioni di euro principalmente attraverso il traffico illegale di petrolio.

Si è messo poi al servizio dell’attuale governo, pretendendo subito la promozione a sottosegretario. In occasione di questa nomina, le organizzazioni per i diritti umani libiche e internazionali, come Amnesty International, lo hanno indicato “come uno dei peggiori violatori di diritti umani e del diritto umanitario internazionale”. Per questo signore, così calorosamente accolto da Piantedosi a Roma, nelle carte ufficiali delle Nazioni Unite e del Tribunale Penale Internazionale, si parla di “traffico di esseri umani, violenze, torture e sparizioni forzate ai danni di migliaia di migranti e rifugiati”. La riunione al Viminale dello scorso 21 febbraio nel quale questo criminale è stato ricevuto con tutti gli onori, segue quella avvenuta a Tripoli il 29 dicembre del 2022. 

Presenti il Prefetto Lamberto Giannini, capo della polizia e il Generale Giovanni Caravelli, Direttore dell’Aise. Loro sanno bene chi è Trabelsi. Come lo sanno ad esempio, il funzionario dell’Aise dott. Antonio Fatiguso, detto “Tony”, che in Libia è di casa, o il Tenente Colonnello Ernesto Castellaneta, capomissione dei rapporti bilaterali Italia-Libia.  Quindi, la grande “lotta ai trafficanti” sbandierata dal governo italiano in questi giorni, si tradurrebbe nell’arresto di quelli che stanno dentro le barche che affondano, e che magari pagano il viaggio anche loro, e invece nel dare pacche sulla spalle ai capi del traffico, quelli che ci guadagnano milioni di euro stando nelle loro ville?

La lotta ai trafficanti di esseri umani dunque, significa arruolarli e arricchirli pur di “bloccare le partenze”, per fargli torturare e uccidere i migranti prima che diventino un problema per noi? Chissà che tipo di pagamento era quel mezzo milione di euro che Trebelsi stava andando a depositare in qualche conto coperto. Chissà se i nostri servizi segreti ne sanno qualcosa. Come diceva Andreotti “a pensar male si fa peccato, ma spesso ci si azzecca”.  L’unica certezza è che i famosi viaggi del governo per stringere accordi con i vari paesi di transito e partenza verso le nostre coste di migliaia di donne, uomini e bambini che tentano di fuggire dagli orrori, secondo l’ottica di Salvini e Meloni, vanno fatti per impedire che partano. “Così non muoiono in mare” dicono. Sarebbe meglio dire “così muoiono dove non li vediamo”.

E per far questo, si stringono accordi con criminali come Trebelsi o dittatori senza scrupoli: li chiudano in un lager, li ammazzino, li confinino dentro campi dove avviene di tutto, basta che non partano. E’ dai tempi di Minniti che la clausola del “rispetto dei diritti umani” è carta straccia dentro questi accordi. Paghiamo, milioni di euro sottratti al Fondo di cooperazione con l’Africa, per fornire i mezzi con i quali un altro criminale, il trafficante Abd al-Rahman al-Milad, detto “Bija”, cattura in mare e deporta i profughi che tentano di fuggire dai lager. Le motovedette per questo signore le stanno costruendo ad Adria, in provincia di Rovigo. Bija, che non può nemmeno uscire dalla Libia perché ha un mandato internazionale che gli pende sulla testa a causa dei suoi crimini, comanda la cosidetta “guardia costiera libica”. E’ a lui che il governo italiano si affida perché “blocchi le partenze”. 32.000 deportati solo l’anno scorso, in totale violazione della Convenzione di Ginevra, che ovviamente la Libia non ha sottoscritto.

Ma l’Italia si. Davvero una grande considerazione per gli esseri umani, per i diritti “indivisibili e inviolabili” di cui parlava il Presidente Mattarella. La prossima volta quindi che sentiremo dire a Salvini, a Piantedosi o alla Meloni, che “la lotta ai trafficanti deve essere durissima”, ricordiamoci: intendono quelli piccoli, quelli che non contano niente. Con quelli grandi, loro ci fanno gli accordi.

Luca Casarini

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COMMENTI. Le modifiche del Mia produrranno certo dei risparmi (2-3 miliardi all’anno si stima) ma i problemi di chi è a rischio povertà nonostante abbia un lavoro, rimarranno

Dopo il Reddito di Cittadinanza tagli e restrizioni per i poveri Distribuzione di cibo da parte dell’associazione Pane Quotidiano

Dopo gli annunci sono arrivate anche le anticipazioni. Il nuovo Reddito di Cittadinanza, chiamato MIA (Misura per l’Inclusione Attiva), sarà presentato tra poco, con alcune sostanziali novità in tema di lavoro. I poveri non attivabili continueranno ad avere accesso all’assistenza ma con un sussidio ridotto negli importi e a tempo, per gli altri (i cosiddetti attivabili), oltre alla riduzione degli importi (-30% in media), di nuovo ci sono limitazioni temporali nell’accesso e paletti più rigidi all’attivazione.

Viene estesa inoltre la sospensione del sussidio quando si percepisce un reddito superiore ai 3 mila euro annui a tutti i tipi di contratto. Niente di tutto questo serve a scoraggiare il lavoro nero se questo era l’obiettivo. Andava piuttosto ritoccata l’aliquota marginale che oggi, per ogni euro da lavoro guadagnato, riduce il sussidio di 80 centesimi.

Queste modifiche produrranno certo dei risparmi (2-3 miliardi all’anno si stima) ma i problemi di chi è a rischio povertà nonostante abbia un lavoro rimarranno. Anzi, è molto probabile che aumenteranno, tanto più se a questa stretta seguirà la reintroduzione dei voucher per il lavoro accessorio per un ampio spettro di settori (l’agricoltura, il commercio, ristorazione e turismo solo per citarne alcuni) dove già oggi è radicato un vasto precariato a rischio povertà. I dati li conosciamo e sono preoccupanti. Più dell’11% della forza lavoro in Italia è rischio povertà, una percentuale nettamente al di sopra della media europea (l’8,9% nel 2021), con le punte di maggiore disagio tra i giovani, le donne e nelle regioni del Sud.

Il paradosso è che non si contano così tanti occupati in Italia come oggi, come ha ricordato l’Istat nell’ultimo rapporto sull’occupazione (+465 mila unità rispetto allo scorso anno). Ma non basta aumentare l’occupazione per avere condizioni di lavoro decenti, se quasi la metà dei lavoratori italiani ha contratti scaduti che non vengono rinnovati. E non basta eliminare o dare una stretta al Reddito di Cittadinanza perché gli attivabili trovino un lavoro, né basta dire che sarà rafforzata la formazione. Già oggi i beneficiari devono seguire corsi di formazione.

Lo stesso programma GOL ha tra i suoi target i percettori di RdC. Ma anche con i nuovi corsi di formazione i risultati rischiano di rimanere al di sotto delle attese, specie nelle aree del paese più deboli, dove peraltro la presenza delle agenzie private di collocamento (che entreranno nel sistema di attivazione) è scarsa. E questo per un semplice motivo. Quando la domanda è debole o stagnante, come in molte aree del Mezzogiorno, quando il lavoro pagato poco o sommerso è l’unica alternativa alla disoccupazione, le politiche attive del lavoro possono poco se rimangono slegate da interventi per creare e fare emergere nuova domanda di lavoro.

Negli anni passati la sinistra non si è occupata abbastanza non solo degli ultimi ma anche di molti penultimi incastrati in lavori mal pagati. Nei loro confronti è necessaria una offerta politica più radicale perché sono le fratture e le disuguaglianze che si sono fatte più profonde: non il basso costo del lavoro come unica possibilità di inserimento lavorativo; non bonus di ogni sorta per questa o quella categoria, ma salario minimo e integrazioni fiscali per aumentare le retribuzioni nette di chi è a rischio intrappolamento nel lavoro povero; non il reddito minimo che torna a essere residuale, ma uno strumento in grado di raggiungere anche i beneficiari che un lavoro lo hanno trovato, senza decalage, sospensioni o forme più o meno esplicite di stigmatizzazione sociale; non solo le politiche attive del lavoro quando l’occupazione rischia di essere spiazzata ma politiche per la piena occupazione e investimenti per creare lavoro a partire dai bisogni non soddisfatti e scoperti dei territori, specialmente quelli più deboli o a rischio desertificazione non solo industriale ma anche sociale.

Si tratta di bisogni sociali, ambientali, culturali, legati a filiere territoriali di prossimità che possono incubare nuova occupazione se inseriti in una strategia per trasformare questi bisogni in domanda di lavoro. È questa del resto la filosofia di molti programmi di Job Guarantee che iniziano a essere sperimentati in alcuni paesi europei e che farebbero bene anche all’Italia, in un rapporto con gli attori della società civile e del terzo settore che non guardi semplicemente al sostegno degli ultimi, ma alla ideazione e realizzazione di interventi in grado di rivitalizzare tutto il perimetro del welfare

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COMMENTI. Conte dovrà recuperare l'astensionismo popolare, dirottandolo in alleanza con il Pd, e Schlein dovrà rivedere il ruolo di perno del sistema del partito ereditato dai predecessori

 La neosegretaria del Pd Elly Schlein e Giuseppe Conte alla manifestazione antifascista a difesa di scuola e Costituzione

L’abbraccio tra Giuseppe Conte ed Elly Schlein alla manifestazione antifascista di Firenze, officiante Landini, ha tutte le potenzialità iconografiche per incarnare la metafora della ricostruzione del blocco storico tradizionale della sinistra: ossia l’alleanza tra classi popolari (lavoratori specializzati e subalterni, disoccupati) e ceti medi urbani (intellettuali latamente intesi) con il collante del sindacato. Si tratta della coalizione che negli anni trenta del Novecento dette vita al New Deal negli Stati Uniti, e che in Europa ebbe la sua traduzione nella costituzione dei Fronti popolari.

Coalizioni sociali e politiche su cui fu imperniata l’opposizione al fascismo, e nel dopoguerra, con particolare vigore a partire dal ciclo di lotte del “lungo Sessantotto”, una delle più grandi e straordinarie stagioni di conquiste sociali della storia umana. Tanto che deindustrializzazione guidata dall’alta finanza e precarizzazione – in una parola, il neoliberismo – possono essere lette come la risposta tutta politica delle classi dominanti all’offensiva di una siffatta coalizione.

Un blocco che è stato talvolta unificato in un unico partito, altre volte in alleanze di classe abbastanza stabili, e che un po’ in tutto l’Occidente era stato rotto dall’adesione delle sinistre storiche ai postulati dello stesso neoliberismo, con la conseguenza che i nuovi movimenti politici sorti sulla scia della crisi del 2008 presero le mosse proprio dalla critica di quel “tradimento”. Pd da una parte e M5S dall’altra hanno rappresentato per una lunga stagione i frutti di quella divisione.

Le due leadership di Schlein e Contelo si è visto sabato, hanno una possibilità di ricomporre quella frattura. Tuttavia nella situazione concreta italiana ci sono alcune variabili da tenere di conto, poiché in grado di ostacolare in maniera non rimediabile il processo di ricomposizione.

Non è scontato, da un lato, che Conte sia in grado di recuperare l’astensionismo popolare, e soprattutto di farlo dirottandolo su un’alleanza con il Pd, partito quest’ultimo vissuto, a torto o a ragione poco importa, come organicamente ostile alle fasce popolari astensioniste. Anche senza rimontare ai tempi del “parlateci di Bibbiano”, definitivamente archiviati, basterà ricordare che alle ultime politiche la riscossa pentastellata ha cominciato ad essere registrata proprio con la certificazione della fine del rapporto privilegiato col Pd lettiano.

Dall’altro lato il Pd deve poter sopravvivere, senza deflagrare, all’abbandono della funzione sistemica ricoperta a partire dalla sua nascita, e cioè quella di garante in Italia del vincolo esterno euro-atlantico. Perché in un quadro di adesione ideologica e politica alla situazione, quale si profila, di guerra continua/ritorno dell’austerità in Europa, quel blocco sociale di cui si parlava non pare ricomponibile: austerità e guerra pesano sulle classi popolari, e secondo il paradigma dominante ciò deve continuare ad accadere.

Si apre una contraddizione enorme tra la “funzione sociale” del Pd e la sua “funzione sistemica”, ed è tutto da dimostrare che Schlein sia in grado di governarla senza che spinte centrifughe facciano implodere il partito. Anche perché, in uno scenario in cui il Pd non è più il partito-Stato, ma un partito che più modestamente ambisce al governo in una posizione di alternativa in alleanza coi 5S, non è scritto da nessuna parte che ai democratici tocchi il ruolo di guida della coalizione: un Pd ridotto a potenziale junior partner sarebbe ancor più sottoposto a spinte centrifughe di quanto già non lo sia, venendo meno in quel caso il suo ruolo di cerniera con gruppi di elettori che debbono ad un rapporto di subordinazione clientelare con la politica il mantenimento della loro condizione di relativo privilegio. Non a caso i detentori del potere istituzionale locale si sono schierati in larghissima parte, in occasione delle primarie, a fianco di Bonaccini.

Se davvero si vuole lavorare alla prospettiva della ricomposizione, a Schlein tocca il compito di lanciare concreti segnali di discontinuità; sulla base di questi segnali (da questo punto di vista, il cerino è in mano al Pd), Conte è chiamato ad esercitare le proprie riconosciute capacità di leadership e di carisma per riconquistare consensi popolari apparentemente preda di apatia e scetticismo e incanalarli in una prospettiva politica di alleanza. La via è molto più stretta di quanto possa a prima vista apparire, ma la giornata fiorentina ha aperto un pertugio attraverso il quale occorre provare a passare

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