IRAN-ARABIA SAUDITA. La ripresa imminente delle relazioni diplomatiche tra due antichi rivali ottenuta da Pechino è la dimostrazione che il mondo cambia più velocemente di quanto si possa immaginare qui in Occidente
Il triangolo no, non l’avevo considerato: la strofa della canzone potrebbe essere dedicata a Biden, costretto a far buon viso a cattivo gioco. Anche i suoi alleati storici come i sauditi sono amici dei cinesi e grazie a loro fanno pace con i rivali di sempre. Persino quel Patto d’Abramo tra Israele e gli stati arabi del Golfo, un sorta di Nato mediorientale, adesso appare forse un traguardo meno vicino per i sauditi e per i piani di un Netanyahu sempre più in crisi a casa sua.
La ripresa imminente delle relazioni diplomatiche tra due antichi rivali, l’Iran sciita e l’Arabia saudita cuore del mondo sunnita, ottenuta da Pechino è la dimostrazione che il mondo cambia più velocemente di quanto si possa immaginare qui in Occidente. È un mondo che può non piacere, dove ci sono più autocrati che democrazie, ma voltare la testa dall’altra parte non aiuta a sciogliere i nodi. Anzi.
Come sottolineava il ministro degli esteri indiano Jaishankar al New York Times a proposito del conflitto ucraino, «voi occidentali ed europei siete bravi a far diventare i vostri problemi i problemi di tutti, ma quando noi abbiamo un problema nemmeno ci ascoltate». L’India alla fine di questo decennio sarà il Paese più popoloso del mondo e la terza economia dietro Usa e Cina. Né indiani né cinesi hanno condannato la Russia per la brutale aggressione all’Ucraina, né hanno messo sanzioni, approfittando di quelle occidentali per intensificare le forniture energetiche (con lo sconto) da Mosca.
La diplomazia di Pechino è rapida: è l’unica potenza ad aver presentato un piano di pace (sia pur vago) per la guerra in Ucraina e in poco meno di tre mesi ha messo al tavolo Teheran e Riad. È di dicembre il viaggio di Xi Jinping in Arabia saudita dove ospite del principe assassino Bin Salman (mandante dell’omicidio del giornalista Jamal Kashoggi) incontrò anche una trentina di capi di stato e di governo arabi (c’erano anche al-Sisi e Mahamoud Abbas).
È di febbraio la visita in Cina del presidente iraniano Ebrahim Raisi dove ha ricevuto un impulso decisivo l’integrazione di Teheran nella realtà geopolitica eurasiatica con l’ingresso a tutti gli effetti nell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (Sco) deciso lo scorso settembre a Samarcanda: ne fanno parte Russia, Cina, India, Pakistan e quattro repubbliche centro-asiatiche dell’ex Urss, e mette assieme il 40% della popolazione mondiale e circa il 30% del Pil del pianeta. Certo i cinesi sono arrivati a questo risultato con le leve potenti della loro diplomazia economica. La Cina è il maggiore cliente del petrolio iraniano sotto embargo occidentale e considera con estremo interesse che Teheran possiede le seconde riserve al mondo di gas: i giacimenti offshore di South Pars, condivisi in parte con il Qatar, potrebbero fornire l’intero consumo di un anno in Europa. Ma la via occidentale per la repubblica islamica, di fronte alla sollevazione anti-teocratica del movimento «Donna vita e libertà», appare sbarrata, e quindi si presenta la sponda cinese.
Ma é il rapporto tra Pechino e Riad, che vantano un interscambio di 330 miliardi di dollari, quello che brucia di più a Washington ora in apprensione: gli sforzi degli Stati uniti per indebolire e dividere i loro rivali risultano sempre meno efficaci. Nel contempo la politica delle sanzioni a oltranza, della promozione delle «rivoluzioni colorate» o dell’aggressione militare – diretta o per procura – sta sempre più alimentando un «movimento» che ha il suo baricentro in Asia. Cosa sta accadendo lo spiegava un articolo di Foreign Affairs: gli Stati uniti devono abbandonare il loro «narcisismo strategico» con cui chiedono ai loro alleati di schierarsi continuamente su ogni questione. Ce la fanno con gli europei ma già nella Nato c’è la Turchia che con Mosca e l’Iran agisce come le pare. Gli alleati americani del Medio Oriente e del Golfo vogliono partecipare agli accordi con gli Usa ma sentirsi anche liberi di muoversi verso Cina e Russia.
La svolta «cinese» dei sauditi appare quasi epocale. Era il 1945 – la seconda guerra mondiale doveva ancora finire – quando il presidente Usa Roosevelt e il sovrano wahabita Ibn Saud si incontrarono nel canale di Suez a bordo dell’incrociatore Quincy per forgiare il patto di ferro tra Stati uniti e Arabia Saudita da allora sempre rinnovato: sicurezza americana contro petrolio saudita. Quell’accordo è quasi del tutto ingiallito. Un evento negativo per Riad, è stata la mancata risposta Usa all’attacco di droni degli Houthi yemeniti alle raffinerie saudite nel settembre 2019. Adesso nel Golfo avanzano i nuovi equilibri (o squilibri) di un mondo multipolare. Come sottolineava ieri sul manifesto Michele Giorgio, l’Iran ha dimostrato di sapere aggirare l’isolamento regionale, incassando anche le lodi di una settimana fa del capo dell’Aiea Grossi per il ripristino delle ispezioni sul nucleare civile, mentre Riad si ripropone come mediatore nelle crisi mediorientali dove si sono affrontati sciiti e sunniti, dalla Siria al Libano, allo Yemen, in vista della prossima ripresa dei negoziati di pace. Allora vedremo se il «triangolo» cinese funziona