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NUOVO CORSO DEM . Sfidare e mobilitare il Pd nelle idee e nelle proposte. Mettere alla prova le sensibilità ridando peso, spazio e respiro a un vero confronto politico e culturale

La vera partita del Pd comincia adesso, alla prova i nuovi assetti Partito Democratico - LaPresse

Dopo una faticosa trattativa, si sono definiti i nuovi assetti del gruppo dirigente che affiancherà Elly Schlein alla guida del Pd. Appaiono fuorvianti quei commenti che leggono questa vicenda sotto il segno della sempiterna disputa tra il leader e i condizionamenti delle correnti. Era del tutto irrealistico pensare che la nuova segretaria, solo sulla base del consenso ricevuto, potesse praticare uno stile decisionista, della serie “non guardare in faccia nessuno”, e sottrarsi all’onere di una mediazione interna.

Fuori da ogni ipocrisia, bisogna comprendere come l’attuale logica correntizia sia l’unico modo con cui può funzionare questo Pd; è un dato strutturale, non dipende dalla buona o cattiva volontà di qualcuno. Solo un lungo lavoro di ricostruzione e riconversione potrà modificare la “costituzione formale” e poi quella “materiale” del partito.

LA REDAZIONE CONSIGLIA:

Elly Schlein e le prospettive che si aprono a sinistra

Lo stesso commissariamento del partito campano conferma una condizione di emergenza che, in quella regione, si protrae da tempo. E forse va ricordato un aspetto spesso sottovalutato del regime di governo del Pd: per votare il segretario nazionale non occorre essere iscritti, ma per eleggere gli organismi dirigenti locali (che poi decidono sulle candidature), i pacchetti delle tessere contano, eccome. Da qui l’importanza di una gestione trasparente delle iscrizioni. Sarà questo il duro lavoro che spetta ai commissari campani, ma è un problema che, prima o poi, si porrà in molte altre situazioni.

La partita vera comincia adesso. Vedremo se

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Andare oltre l’esperienza preziosa di Unidas Podemos, lievito del governo di coalizione e delle conquiste sociali, ma senza la spinta e la forza per espandere i consensi

La lezione di Sumar per battere la destra spagnola

“Voglio essere la prima donna presidente del consiglio in Spagna”, “Le donne non hanno più bisogno di tutele” sono le due frasi che meglio sintetizzano la bella, partecipata ed appassionata assemblea tenutasi a Madrid domenica scorsa, quando Yolanda Diaz ha annunciato la sua sfida per le prossime elezioni politiche: una femminista alla guida del governo.

Ha chiamato “Sumar” il progetto con cui intende realizzare questo ambizioso obiettivo. Sommare, cioè unire la sinistra che si organizza fuori dal Psoe ma soprattutto attrarre nuove forze, nuovi movimenti ed esperienze sociali, restituendo loro la convinzione che cambiare si può. Un progetto che vuole andare oltre l’esperienza preziosa di Unidas Podemos senza della quale non sarebbe nato il governo di coalizione fra le due sinistre e le tante conquiste sociali realizzate, ma che ora ha esaurito la sua capacità di espandere i consensi

LA REDAZIONE CONSIGLIA:

Sumar, il lancio di Yolanda Díaz
Gli obiettivi che la Diaz si pone con Sumar sono due: sconfiggere le destre confermando il governo progressista; riequilibrare il rapporto di forza fra le due sinistre, quella vecchia rappresentata dal Psoe di Pietro Sanchez e quella nuova, scaturita dal moto di indignazione che percorse la Spagna nel 2011, rapporto oggi troppo sbilanciato a favore del Psoe. In altre parole continuare a governare spostando a sinistra l’asse programmatico della futura coalizione, se il voto del dicembre prossimo la confermerà.

L’assenza di Podemos all’assemblea di domenica è grave, ma non per questo tale da ridurre le ambizioni e le potenzialità del progetto, ma solo le possibilità di poterle realizzare. Il confronto è aperto, ma se verrà compreso da entrambe le forze che procedere separati comporta un prezzo salatissimo, cioè consegnare la Spagna alle peggiori destre la frattura si potrà ricomporre.

La conferma del governo di coalizione deve cioè essere la priorità, non solo perché le destre riporterebbero la Spagna in un passato buio e terribile, ma soprattutto perché in questi anni il governo di coalizione ha prodotto ottimi risultati: sul piano sociale, estendendo tutele e diritti per tutte/i, in particolare durante il Covid; sul lavoro realizzando la miglior legge sul lavoro europea con cui ha drasticamente ridotto il precariato e creato lavoro stabile e a tempo indeterminato; sulla transizione ecologica dando il giusto indirizzo alla trasformazione del modello energetico per cui la Spagna è oggi il principale punto di riferimento per le fonti rinnovabili già installate di tutta l’Europa.

Nonostante l’assenza di Podemos dunque il progetto di Sumar mantiene la sua forza e capacità di seduzione. Penso per tre ragioni collegate fra loro: la prima riguarda l’entusiasmo che ha saputo suscitare in tutta la Spagna e soprattutto in pezzi di società che non si sentivano più rappresentate e quindi propense ad astenersi. La scelta di metodo che La Diaz ha compiuto è alla base di tanta partecipazione. Infatti l’evento di domenica è solo l’atto conclusivo di oltre sei mesi di ascolto della società spagnola, centinaia di iniziative a cui la Diaz ha partecipato, un ascolto che ha prodotto idee, proposte, con cui ora è possibile definire le principali priorità programmatiche di Sumar.

Uno dei punti di discussione su cui Podemos è chiamato a riflettere è proprio su questo dato e cioè se l’esperienza di Unidas Podemos ha davvero questo potenziale espansivo e quindi se la sua evoluzione in Sumar è da favorire e non ostacolare come il poco impegno fin qui praticato da Podemos farebbe intendere.

La seconda ragione è che l’obiettivo di modificare i rapporti di forza fra le due sinistre è credibile, perché la popolazione ha capito che senza la pressione continua di Unidas Podemos e delle sue ministre le tante conquiste realizzate non sarebbero state possibili. Non è irrealistica nemmeno la candidatura della Diaz a sostituire Sanchez alla guida del governo. visto che in tutti i sondaggi è la politica più valorizzata.

La terza e più importante ragione è che un successo elettorale di Sumar rende più e non meno forte la possibilità di conferma del governo di coalizione. La sua crescita non è necessariamente a scapito dei socialisti, ma in larga parte legata alla capacità di attrarre e conquistare aree di astensionismo di sinistra, che anche in Spagna hanno una loro consistenza.

Un’ultima considerazione suggerita dalla scarsa attenzione che l’evento di domenica ha suscitato nella sinistra italiana. Si stenta a comprendere che riuscire a sconfiggere le destre in Spagna, così come piegare Macron sulle pensioni in Francia sono obiettivi per l’intera sinistra europea e quindi è necessario alzare lo sguardo oltre i confini. Servono segnali che un’inversione di tendenza è possibile per rendere credibile la possibilità di mettere in crisi l’egemonia delle destre sull’Europa.

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Intervista a David Gaborieau, ricercatore all'università Paris-Cité

«In tutti gli strati del movimento sociale si è alzato il livello di conflittualità»

David Gaborieau è ricercatore all’Università Paris-Cité. Sociologo del lavoro e dei gruppi sociali, è specializzato nell’analisi dei movimenti sociali e del mondo della logistica.

Il movimento contro la riforma delle pensioni è cominciato a fine gennaio, e sembra destinato a durare ancora a lungo. Cosa è successo in questi mesi?
Ci sono state varie fasi. All’inizio, c’è stata una fase che si potrebbe definire «cittadina» (citoyenne). Enormi manifestazioni, con 2, 3 milioni di persone per strada, ma non per forza delle giornate di sciopero a oltranza e di massa. Ha funzionato piuttosto bene, visto che quasi tutte le manifestazioni sono state estremamente partecipate. Tuttavia, è palese che ormai il potere politico non ascolta più questo tipo di mobilitazione. Lo si è visto nel prosieguo logico di questa fase, durante il dibattito all’Assemblée Nationale: c’era una seppur debole speranza che il parlamento prendesse in considerazione le rivendicazioni dei sindacati, aspirazione presto disattesa. Il governo ha ristretto il dibattito in modo caricaturale, utilizzando gli articoli 47-1 e 49-3 della Costituzione, rispettivamente per limitare severamente il tempo della discussione parlamentare e, poi, per impedire il voto sulla riforma. È a questo punto che è iniziata la seconda fase del movimento, in maniera quasi insperata.

In che senso?
La violenza simbolica esercitata dal governo ha rilanciato il movimento sociale. Il caso della gioventù è esemplificativo: fino a quel momento, la gioventù precaria non era riuscita a esprimersi nel quadro della mobilitazione. L’utilizzo del 49-3, invece, l’ha fatta uscire per strada. Il voto di fiducia ha reso palese l’insufficienza della mobilitazione cittadina e il movimento ha quindi cominciato a tracimare un po’ ovunque: cortei spontanei notturni, roghi della spazzatura, blocchi, picchetti. I blocchi in particolare sono stati impressionanti: blocco dei rifiuti, delle piattaforme logistiche, degli assi stradali… Nel momento in cui queste azioni molto dirette si sono scontrate con la repressione della polizia, il movimento è entrato in una terza fase, riattivandosi attorno al tema della violenza della polizia. Questo ha rimesso al centro del dibattito la questione della democrazia, che era sempre stata presente, ma che è emersa in primo piano, quando il movimento ha posto il problema della violenza di Stato.
La connessione coi Gilet gialli, è nelle pratiche: i blocchi, i cortei notturni, il fatto di far scattare queste azioni in reazione all’assenza di dialogo dello Stato
Che legami si possono tracciare tra i Gilets gialli e il movimento attuale?
Il tema delle pensioni, in un certo senso, attrae più consenso rispetto alle questioni che avevano mobilitato i Gilet gialli. Questi ultimi si erano attivati all’inizio per una tassa sulla benzina, ma molto rapidamente si erano concentrati sul funzionamento della democrazia e sulle violenze della polizia. Le pensioni sono un argomento che tocca in modo particolare il basso della classe media e le classi popolari stabili, sono loro che pagheranno il prezzo della riforma, che dovranno lavorare di più, che fanno lavori usuranti, che hanno dei salari bassi – in particolare, le donne, le persone tra i 40 e i 50 anni, popolazioni molto presenti nella provincia francese, cosa che secondo me spiega almeno in parte il successo della mobilitazione nei piccoli centri urbani. Là dove c’è una vera connessione coi Gilet gialli, è nelle pratiche: i blocchi, i cortei notturni, il fatto di far scattare queste azioni in reazione all’assenza di dialogo dello Stato, in tutto ciò c’è una vera continuità coi Gilet gialli. Oggi, nel movimento sociale francese, in senso largo, c’è un’accettazione, un’abitudine a pratiche più radicali che il semplice corteo sindacale. Si ha l’impressione che in tutti gli strati del movimento sociale, si sia alzato il livello di conflittualità.

Settori tradizionalmente poco sindacalizzati si sono resi protagonisti, come gli spazzini o gli autisti. Come mai? Che cosa significa?
È uno dei dati più interessanti di questo movimento: il modo in cui dei settori emergenti del mondo operaio cercano delle forme di mobilitazione. Dico ‘cercano’, poiché la forma ‘classica’ dello sciopero a oltranza, esteso su delle settimane o dei mesi, è estremamente complicata da attuare per dei lavoratori precari e poco sindacalizzati. Innanzitutto, bisogna comprendere che i settori che conosco meglio, cioè quello dei rifiuti e quello della logistica, hanno un punto in comune: sono tantissimi. Gli operai della logistica in Francia sono circa 1 milione, un quarto del totale degli operai, tanti quanti quelli dell’industria manifatturiera. È un dato strutturale, prodotto dall’evoluzione stessa del capitalismo. È inevitabile che questo dato si rifletta nel movimento sociale di oggi, ed è fondamentale includerli nella mobilitazione. Questo però implica un obbligo a far evolvere certe abitudini: questi operai sono diversi dalle generazioni precedenti, non hanno gli stessi percorsi, le stesse pratiche quando si mobilitano. È importante ascoltarli, prendere in considerazione le invenzioni che creano, accettare le pratiche che sviluppano, le quali, molto spesso, consistono nel blocco dei flussi.

Gli spazzini in particolare hanno sviluppato delle forme di blocco sorprendenti, con un livello di sviluppo tecnico molto elevato. Sono riusciti a far scattare degli scioperi paralizzanti con dei tassi d’adesione piuttosto bassi, attorno al 20-30% in media, ma organizzandosi molto bene, facendo sciopero ciascuno a turno, qui in un centro di raccolta, là in un deposito, altrove in un inceneritore, alternando i cicli di sciopero e di ripresa del lavoro, andando a cercare sostegni all’esterno per bloccare certi luoghi strategici in certi momenti precisi, sono riusciti a produrre questi enormi, impressionanti cumuli di spazzatura che hanno sepolto i marciapiedi parigini. Così facendo, sono riusciti a parlare al movimento sociale nel suo insieme, a fargli capire che per bloccare i flussi, in questo caso quello dei rifiuti, bisogna organizzarsi in un certo modo, con una certa tempistica, con un certo tipo di sostegno dall’esterno. Soprattutto, hanno fatto capire a tutti, fuori da ogni ambiguità, che anch’essi sono un settore strategico

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PETROLIO, OPEC E USA. La disputa tra Washington e Riad è evidente

Produzione tagliata. Nessuno obbedisce più agli Usa 

Pur di stringere con re Ibn Saud l’accordo «petrolio in cambio di sicurezza», il presidente Usa Roosvelt nel lontano febbraio 1945 rinunciò per due giorni all’amatissimo sigaro, detestato come l’acol dall’inflessibile monarchia wahabita. A cosa dovrebbe rinunciare oggi Biden per farsi obbedire dal tenebroso principe assassino Mohammed bin Salman? Riad con l’Opec e la Russia ha tagliato di oltre un milione di barili la produzione giornaliera di greggio puntando su un deciso aumento dei prezzi: esattamente il contrario di quello che gli americani chiedono dall’anno scorso alla monarchia saudita, un tempo il maggiore alleato Usa nella regione insieme a Israele.

Agli americani sulla politica energetica, ma anche sul resto, non obbedisce più nessuno, tranne gli europei che con l’aggressione di Putin all’Ucraina hanno sanzionato la produzione russa sia di gas che di greggio. Altri stati dell’Opec come Kuwait, Emirati Arabi Uniti – membro del Patto di Abramo con Israele – e l’Algeria hanno seguito la strada dell’Arabia saudita, mentre la Russia prevede di continuare a tagliare la produzione fino alla fine del 2023. Gli analisti si aspettano forti rialzi. La banca d’affari americana Goldman Sachs ha alzato le stime di prezzo del Brent a 95 e 100 dollari al barile rispettivamente per il 2023 e il 2024. Si tornerebbe così ai livelli dell’agosto scorso. I riflessi si vedrebbero anche sull’aumento dell’inflazione per i rincari dei carburanti e dei trasporti e il rischio è di vedere, dopo una breve tregua, di nuovo crescere i costi della borsa della spesa e quelli di bollette di luce e gas.

La disputa tra Washington e Riad è evidente. Nell’ottobre del 2022 la Casa Bianca aveva accusato l’Arabia Saudita di essersi schierata con la Russia perché, nonostante la crisi energetica, Riad sembrava agire dalla parte di Mosca. Poi i sauditi si sono irritati perché l’amministrazione Biden ha pubblicamente escluso nuovi acquisti di greggio per ricostituire le scorte strategiche statunitensi. In precedenza la Casa Bianca aveva assicurato all’Arabia Saudita tutto il contrario.

Dietro a tutto questo c’è un poderosa evoluzione geopolitica di una parte di mondo, sempre più multipolare, che non segue le direttive di Washington. Si tratta della presa d’atto che vent’anni di iniziative americane e occidentali in Medio Oriente, dalla guerra in Afghanistan a quella in Iraq, alla Libia, alla stessa Siria, sono finite in un disastro. Svanite le illusioni delle primavere arabe del 2011, andati in frantumi gli accordi di Obama con Teheran sul nucleare (cancellati da Trump), abbandonati e traditi i curdi, relegati i palestinesi in un’inaccettabile doppio standard che vìola regolarmente da decenni ogni risoluzione Onu, a Washington non resta che qualche sceicco, un generale, Al Sisi, che per tenere in piedi l’Egitto ha bisogno dei soldi sauditi e un alleato scomodo nella Nato come Erdogan, che fa di tutto pur di tenere in scacco l’Alleanza e mostrarsi ben intenzionato con Putin, senza mettere sanzioni a Mosca e mediando accordi sul grano indispensabili per non affamare il Sud del mondo.

Erdogan davanti a una folla di seguaci della destra dei Lupi Grigi, alleati del partito Akp e radunati in vista delle elezioni del 14 maggio, ha appena dichiarato senza mezzi termini che si «prepara a impartire una lezione agli Stati Uniti» e ha attaccato direttamente Biden perché l’ambasciatore Usa in Turchia ha fatto visita al rivale, il repubblicano Kemal Kilicadaroglu. Come è noto la leadership turca imputa agli Usa di avere partecipato con la rete di Fethullah Gulen (in esilio dal ’99 in Usa) al fallito colpo di stato nel luglio 2016. E allora a congratularsi con Erdogan per lo scampato pericolo fu Putin non gli alleati Nato della Turchia.

Sia chiaro: gli Stati Uniti non hanno certo mollato il Medio Oriente. La quinta flotta Usa è in Barhein, i contingenti di soldati americani sono dovunque, dal Qatar alla Siria all’Iraq, dove a venti anni dalla guerra del 2003 la Federal Reserve controlla ancora tutte le entrate petrolifere irachene. Senza contare che in Israele, nonostante un assetto sempre più illiberale, affluiscono copiosamente gli aiuti militari americani. Ma è evidente che i recenti accordi tra Arabia saudita e Iran, così come quelli che hanno sdoganato il siriano Assad nel mondo arabo, hanno incrinato la presa americana sul Golfo. Qui gli americani hanno un interesse principale: controllare i flussi energetici che vanno verso l’Asia e la Cina. A questo non vogliono rinunciare ma la missione è assai più complicata che imporre agli europei di sganciarsi dalla Russia e da quel North Stream 1 e 2 che era apertamente nel mirino degli Usa sin dal 2021, ben prima dell’invasione russa dell’Ucraina e dell’attentato. Certo il futuro non è roseo. Gli accordi tra Teheran e Riad sono tra due stati che hanno in comune la difesa di un ordine sociale oscurantista e patriarcale: un orizzonte nero come il petrolio

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COMMENTI. Il Papa affidato le sue intenzioni alla “rete mondiale di preghiera”. Una intenzione al mese, per tutto l’anno. Aprile è il mese dedicato alla preghiera “Per una cultura della nonviolenza”. […]

La primavera della nonviolenza: la preghiera del Papa, l’utopia di Lennon

 

Il Papa affidato le sue intenzioni alla “rete mondiale di preghiera”. Una intenzione al mese, per tutto l’anno. Aprile è il mese dedicato alla preghiera “Per una cultura della nonviolenza”.

In tutte le chiese cattoliche, durante le messe, si pregherà così: “Preghiamo per una maggiore diffusione di una cultura della nonviolenza, che passa per un sempre minore ricorso alle armi, sia da parte degli Stati che dei cittadini”.

Papa Francesco scrive correttamente “nonviolenza”, parola unica, come stabilito da Aldo Capitini per tradurre bene in italiano il “satyagraha” di Gandhi, la forza che è insita nella Verità. Nonviolenza, dunque, per usare le stesse parole di Francesco, come “stile di una politica per la pace”. Ora il Pontefice si augura che la cultura della nonviolenza (storicamente quella sperimentata e teorizzata da L. Tolstoj, M.K. Gandhi, K.A. Ghaffar Khan, M.L. King, e nella tradizione cattolica da Gesù, Francesco d’Assisi, e poi nei tempi moderni da Giovanni XXIII e Madre Teresa di Calcutta) si diffonda sempre più e per questo ha dato vita al Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale, per promuovere la pace in tutti gli ambiti dell’esistenza pubblica e sociale. Ma la cultura della nonviolenza, per trovare spazio, deve contrastare la cultura della violenza, delle armi, della guerra.

È un programma impegnativo, che punta direttamente alla riduzione degli armamenti, dunque delle spese per la difesa, sia collettiva che personale. Meno armi per gli eserciti, meno armi nelle case. Sarebbe già un bel passo in avanti: un obiettivo politico realistico, non un’utopia irenica.

Le parole che il Papa ha usato nel video che accompagna l’intenzione di preghiera sulla Nonviolenza, sono ben ponderate: “ogni guerra, ogni scontro armato, finisce con l’essere sempre una sconfitta per tutti; anche nei casi di legittima difesa, l’obiettivo è la pace. Una pace duratura può essere solo una pace senza armi”.

Per capire il pieno e profondo significato delle scelte di preghiera del Papa, bisogna scorre anche le altre intenzioni, mese dopo mese, e ne esce un mosaico che dà bene l’idea che Francesco ha della nonviolenza. Nel corso dell’anno si prega per gli educatori alla fraternità anziché alla competizione, per le vittime di abusi, per l’abolizione della tortura, per gli emarginati, per l’inclusione delle persone con disabilità. Il mese di novembre il Papa lo riserva alla preghiera per se stesso, per essere aiutato nella sua missione.

Passando dal sacro al profano, è significativa la coincidenza che esattamente 50 anni fa un altro leader pacifista, laico, scelse il mese di aprile per lanciare il suo messaggio nonviolento.

Era il primo aprile del 1973 quando John Lennon, in una affollatissima conferenza stampa a New York, annunciò la nascita di un paese concettuale, Nutopia: uno stato senza terra, né confini, né passaporti, senza esercito, solo persone, basato esclusivamente sulle leggi cosmiche. La bandiera di Nutopia è un fazzoletto bianco, e l’inno è una traccia muta con 5 secondi di silenzio  Lennon, come suo ambasciatore, chiese l’immunità diplomatica e il riconoscimento alle Nazioni Unite del paese di Nutopia e del suo popolo, formato da tutti coloro che vogliono farne parte.

C’è un filo culturale e spirituale che lega l’idea di Nutopia alla rete mondiale di preghiera: la diffusione della cultura della nonviolenza, da John Lennon a Papa Francesco, oggi coinvolge credenti e atei, religiosi e laici.

Per Gandhi la preghiera è una forza di azione nonviolenta: “Credo che la preghiera silenziosa sia spesso una forza più potente di ogni atto. La preghiera è come ogni altra azione, porta frutto, che ce ne accorgiamo o no, e il frutto della preghiera sincera è assai più potente della cosiddetta azione.  Propriamente compresa e applicata, la preghiera è lo strumento d’azione più potente”. Le vie della nonviolenza sono infinite.

* Presidente del Movimento Nonviolento

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INTERVISTA. Antonio Casilli, autore di «Schiavi del Clic»: «Dietro questa tecnologia c'è un'enorme quantità di lavoro sui dati fatto da grandi masse di persone. C’è un filo rosso che lega chi allena ChatGpt e i suoi utilizzatori. Ci sono tante persone che lo fanno gratis, mentre dalle Filippine al Kenya c’è chi lo fa quasi gratis»

 

Nel comunicato del garante della Privacy che blocca l’assistente virtuale ChatGpt c’è un passaggio illuminante in cui si osserva che l’illecita raccolta dei dati personali avviene in mancanza di una «base giuridica» e «allo scopo di addestrare gli algoritmi sottesi al funzionamento della piattaforma».

L’«addestramento» è stato effettuato dagli utenti di questo software che, stimolati dalla stupefacente operazione di marketing basata sull’immaginario apocalittico della sostituzione del lavoro, e persino degli esseri umani, da parte dei robot nelle ultime settimane hanno lavorato gratuitamente, e probabilmente inconsapevolmente, allo sviluppo di ChatGpt bombardandolo con le richieste più singolari e divertenti. Ciò ha permesso alla società OpenAI che ha lanciato anche ChatGpt, fondata a San Francisco nel 2015, di raccogliere fondi da decine di miliardi di dollari, e investimenti cospicui da parte di Microsoft.

Oltre alle questioni legate alla privacy, e all’intelligenza artificiale presentata con una dose di pensiero magico, c’è il «machine learning», i sistemi di apprendimento macchinico attraverso i quali un’altra forza lavoro diffusa nel Sud globale preleva e raffina i dati che permettono di migliorare il rendimento di un software adattandolo ad altri contesti e prodotti. Al centro di questo sistema c’è la forza lavoro, la merce più preziosa per il capitalismo digitale, quella che alimenta l’inesausta produzione di dati sia a monte che a valle di un’intelligenza che è artificiale nella misura in cui è prodotta dall’interazione con gli umani. È pronta a produrre volontariamente il valore quando è stimolata da un hype pubblicitario pazzesco.

La forza lavoro è il lato oscuro del capitalismo digitale. O meglio, diciamo in chiaroscuro. Perché il suo ruolo non è del tutto ignoto. Alcuni ricercatori di OpenAI lo hanno parzialmente raccontato in uno studio di 60 pagine pubblicato il 23 marzo scorso in cui descrivono anche il lavoro fatto per migliorare l’algoritmo. Il lavoro sul «modello linguistico» è stato realizzato attraverso test ostili che hanno tentato di costringere l’Intelligenza Artificiale relazionale a esprimersi in maniera pericolosa, controversa o illegale. Questi tipi di test sono usati per limitare l’attività dei software e impedirgli di riprodurre atteggiamenti pregiudiziali, violenti o anche razzisti che vengono trascinati nel corso della «mietitura dei dati» in quantità mai vista e realizzata anche a partire dalle piattaforme digitali più comune.

«Davanti a una raccolta dati di queste dimensioni va fatta una constatazione. I dati non possono essere usati allo stato grezzo – osserva Antonio Casilli, professore all’Institut Polytechnique de Paris e autore di Schiavi del clic. Perché lavoriamo tutti per il nuovo capitalismo? (Feltrinelli) – Hanno bisogno di essere filtrati, selezionati e arricchiti. Chi fa questo lavoro di selezione sono esseri umani malpagati per fare il data work. Nel caso di ChatGpt c’è stato prima un lavoro di pre-addestramento tra le Filippine, la Turchia, l’India, il Sudafrica e il Kenya. Di quest’ultimo caso ha parlato il Time il 18 gennaio scorso. A noi utenti è toccato il post-addestramento in cui abbiamo fornito una serie di dati personali».

In che modo?
Quando ChatGpt ti dà una risposta appare un pollice elevato e uno abbassato che permettono di dire se la risposta è di buona o cattiva qualità. Tu stesso stai annotando dati che vengono immessi in un data base e usati per riaddestrare l’intelligenza artificiale. C’è un filo rosso che lega chi addestra questo assistente virtuale in tutto il mondo e i suoi utilizzatori. Solo che ci sono tante persone che lo fanno gratis, mentre altrove altre lo fanno quasi gratis, per pochi centesimi o dollari. Del resto lo dice l’acronimo stesso di ChatGpt. La “P” significa «pre-trained», cioé «pre-addestrati». Dietro questa tecnologia c’è un’enorme quantità di lavoro sui dati fatto realizzato da grandi masse di persone».

Più che la sostituzione degli esseri umani da parte dei robot qui stiamo parlando di esseri umani che lavorano per le aziende che producono «intelligenza artificiale». È così?
Sì, nello studio sulla scheda di sistema GPT-4, OpenIA di cui stiamo parlando ha pubblicato una prima stima del numero di posti di lavoro che sarebbero stati esposti a un’intelligenza artificiale, l’80 per cento sarebbero stati trasformati o forse addirittura eliminati da ChatGpt e altre tecnologie. In realtà stiamo assistendo a tutt’altro processo: tanti più posti di lavoro cerchi di sopprimere nell’ambito del lavoro formalmente inquadrato, tanto più saranno creati micro-lavori ultra-precari nel mondo per fare esistere tecnologie come ChatGpt. Anche questo software si trova alla fine a precarizzare il lavoro che c’è e che ci sarà sempre

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