Il voto dei “passanti delle primarie” ha travolto il voto degli iscritti del PD, ribaltandolo. È stato uno schiaffone rivolto non solo alle classi dirigenti del Partito Democratico ma anche alla maggioranza dei suoi iscritti e dei suoi militanti, che la scorsa settimana avevano votato Bonaccini per il 53% (18 punti di distacco dalla Schlein).
Uno dei primi effetti è che il partito avrà una direzione disallineata rispetto all’assemblea nazionale, anche se la complementarietà fra Schlein e Bonaccini credo che sarà, alla prova dei fatti, maggiore di quanto molti immaginano. Lo abbiamo visto in concreto negli scorsi anni di “governo schleinaccini” in Emilia Romagna.
Per la verità è piuttosto bizzarro che un partito faccia scegliere il proprio segretario/la propria segretaria da chi non è iscritto e neppure vota PD alle elezioni, eppure è così. Ed è l’esito di un’idea di partito fluido di derivazione veltroniana e poi renziana che può riservare notevoli colpi di scena. Renzi ne approfittò nel 2013 trionfando alle primarie “aperte” con 1.895.332 voti corrispondenti al 67,55% (e poi di nuovo alle primarie del 2017), oggi vince Elly Schlein con circa 700 mila voti, il 53,8%.
Renzi riuscì a farsi votare alle primarie da un bel pezzo di mondo di “destra”, fino a quel momento estraneo al PD, oggi Elly Schlein è riuscita a farsi votare alle primarie da un pezzo di “centrosinistra”, esterno al PD anche se perlopiù contiguo: sto parlando essenzialmente delle varie “liste coraggiose” (una l’abbiamo avuta anche alle regionali in Toscana) e di pezzi dell’alleanza Bonelli-Fratoianni con relativi simpatizzanti. Un’area che in termini assoluti è piccola, attorno al 3% dei voti alle elezioni nazionali, ma che, se mobilitata in elezioni primarie, fa la differenza. E stavolta questa piccola area si è mobilitata diligentemente - spesso giustificando il proprio voto alla Schlein con motivi “tattici”, “machiavellici” etc - in elezioni primarie che pur hanno scaldato poco il cuore, suscitando scarsa attenzione anche sui vari social network. Solo dopo la vittoria di Elly Schlein le bacheche si sono improvvisamente e comprensibilmente ravvivate, dopo mesi in cui sembrava che questa vicenda non importasse sostanzialmente a nessuno.
Chi fa notare la costante e inesorabile emorragia di voto alle primarie del PD mette in evidenza un dato incontrovertibile: 3,5 milioni di votanti nel 2007; 3,1 milioni nel 2009; 2,8 milioni nel 2013; 1,8 milioni nel 2017; 1,6 milioni nel 2019; 1,3 milioni nel 2023. Ma è altrettanto incontrovertibile che si tratta di una tendenza generale - si pensi al crescente astensionismo alle diverse tornate elettorali - e che comunque, in questa nostra epoca, mobilitare oltre un milione di persone non è cosa da poco.
Il mio punto di vista l’ho ripetuto spesso in questi anni, credo che il PD sia irriformabile e che solo la sua ulteriore decomposizione possa aprire qualche prospettiva nuova. Non so se il PD farà nei prossimi anni la fine del Partito Socialista francese o del Pasok greco, né so chi, fra Schlein e Bonaccini, possa (pur senza intenzione) favorire maggiormente questa ulteriore decomposizione. Vedo che però in Italia, al momento, non c’è purtroppo nessuna France insoumise (e nessuna Syriza) all’orizzonte. Nè è chiaro se il M5S consoliderà o meno la “svolta socialdemocratica” degli ultimi tempi. Vedremo.
Intanto, come si suol dire in questi casi, auguro a Elly Schlein buon lavoro. So che non farà peggio di Bonaccini ma spero anche che faccia molto, molto meglio di quanto ha fatto in Emilia Romagna da vicepresidente della Regione, dove, alla prova delle concrete politiche sociali e ambientali sue e della sua giunta, ha dato pessima prova. Ma sopratutto spero che rispetto alla questione cruciale di questi terribili tempi - la guerra, le guerre - possa trovare finalmente parole non ambigue, distanziandosi non tanto da Bonaccini ma dal mainstream filobellico al quale è stata fino ad ora allineata.
Commenta (0 Commenti)Pd al bivio, dai primi dati alla vittoria di Schlein: la nostra maratona in diretta
Una attivista e dirigente di sinistra, una giovane femminista, una donna che ama un’altra donna. Basterebbe questa carta d’identità, per capire – e far capire – che la vittoria di Elly Schlein alle primarie, è una mini rivoluzione per un partito tradizionalmente maschilista, liberista sul piano economico, moderato sul piano politico, tartaruga nella difesa dei diritti civili. Ma è anche una identità sullo stomaco di tutta la politica italiana, perché non è difficile prevedere che le prime mosse della neo-segretaria della principale forza di opposizione, saranno di rottura degli schemi ai quali ci aveva abituato il partito guidato da Enrico Letta: sulla competizione con i Cinque Stelle, sul segno democratico-istituzionale, sulle picconate alle decisioni e alle proposte delle destre sui migranti, sul lavoro, sull’ambiente, sull’Europa.
Anni fa, durante l’onda di piena renziana, con la ripresa, sulle nostre pagine, del dibattito e della mobilitazione tra le minoranze, scrivemmo e titolammo “C’è vita a sinistra”, con la speranza di veder nascere un’area nuova, larga, popolare, aperta, libertaria, di rottura, socialmente e politicamente avanzata. Purtroppo quell’idea – che prevedeva una convergenza unitaria di tutte le organizzazioni più piccole a sinistra del Pd – non si è mai realizzata. Ciascuno preferì custodire la propria organizzazione.
Oggi invece, la spiazzante affermazione di Schlein, rianima la speranza tra il popolo di sinistra, sparso tra il Pd, i 5S, Sinistra Italiana, i Verdi e le altre piccole formazioni che nell’ultimo decennio hanno tentato, invano, di affermarsi.
Elly Schlein potrebbe essere la leader di un fronte progressista ampio, in grado di rimettere in moto “macchine” ferme, arrugginite, di stimolare passioni politiche spente, di ridare fiducia ad un esercito di scontenti, di spingere i più giovani a partecipare, riattivando un popolo duramente ferito dalla vittoria elettorale delle peggiori destre dell’Italia post-bellica. Ma per far questo – e tanto altro – Schlein dovrà niente di meno che rovesciare la piramide del Pd, le sue cristallizzate dinamiche interne, la sua stessa visione a-conflittuale del paese. E anche rompere con quella storia della sinistra, segnata da continue scissioni, rotture, divisioni. Per evitare di perpetuare la nefasta tradizione di incoronare oggi l’ex segretario di domani.
Se ci riuscirà lo vedremo presto. Perché gli ostacoli e le polemiche che hanno accompagnato le primarie, sono ben squadernate da un generale sbalordimento per l’inaspettato esito e, anche, dalla delusione di non poter parlare di un flop. Intanto le code per votare – sostiene chi vuole sminuire il significato dell’affluenza – sarebbero in parte dovute al voto di tantissimi sostenitori di Conte contro il nemico Bonaccini. Possibile vista la mancanza di qualunque filtro, ma saremmo di fronte a comportamento autolesionista per i grillini, visto che la futura segretaria Pd toglierà terreno proprio ai 5Stelle pescando, queste due forze politiche, in uno stesso elettorato.
Domenica sera, durante la diretta televisiva del manifesto (un esperimento che è piaciuto e riuscito, pur tra mille difficoltà tecniche, e che ci proponiamo di ripetere presto), uno dei nostri interlocutori, Domenico De Masi, spiegava bene che Pd e M5S finora ricevevano il grosso dei voti da due mondi diversi: uno “borghese” e uno più “proletario”. Forse d’ora in poi non sarà più così. Anzi, il Partito democratico potrà solo trarre vantaggio dalla nuova situazione se ricostruirà una identità socialista e ecologista seppellendo decenni di ubriacatura neoliberista. Preoccupandosi di rappresentare e di mobilitare le piazze sui diritti degli italiani meno garantiti, meno protetti, precari, senza diritti, quell’esercito di milioni di persone che nessuno rappresenta, neanche dal punto di vista sindacale. E naturalmente quella galassia ambientalista tanto ricca e presente nella società quanto risicata nelle istituzioni.
Resta comunque il rischio di una scissione? Possibile, ma improbabile. E semmai di altro segno: verso destra. A Renzi e Calenda la vittoria della Schlein sembra non dispiacere. I due paiono convinti che un pezzo del loro ex partito, si staccherà. D’altra parte è vero che, dopo la sconfitta di Bonaccini, tra le attuali correnti, una è fortemente legata al passato renziano. Per evitarlo, la futura leader dovrà mostrarsi capace di aggregare, di tenere insieme persone che, oltre ad avere orientamenti diversi (certo non una novità anche ripensando alla convivenza nel Pci di aree culturali molto distanti), tra di loro mal si sopportano.
Chi deve preoccuparsi davvero sono le destre al governo, di ogni ordine e grado. Intanto una premier che preferisce essere nominata al maschile (“il” presidente del consiglio), non fa una bella figura di fronte ad una donna che difende l’importanza della identità di genere e del mondo Lgbt (pensate a La Russa che si è dichiarato “dispiaciuto” se avesse avuto un figlio omosessuale: la vittoria di Schlein sarà andata di traverso a lui e larga parte della destra). Ma è sul piano politico che questo governo reazionario e fascistoide dovrà preoccuparsi. Perché la nuova leadership del Pd proverà a mettere in campo una opposizione marcata, senza concessioni.
In sostanza si tratterà di dare verità e credibilità al cambiamento, parola che, come tante buone intenzioni, ha spesso lastricato la via della disillusione, ma che se davvero porterà con sé novità positive, tornerà a convincere e a coinvolgere.
Rimettere in cammino forze sparse, divise, deluse, non sarà una passeggiata. Come abbiamo visto anche alle ultime regionali in Lombardia e nel Lazio, il distacco dalla politica è abissale. Il voto delle primarie, con tutti i limiti e le contraddizioni (la più vistosa: ribaltare il voto dei 150mila iscritti) rappresenta indubbiamente una scossa forte per i progressisti, per i democratici, per la sinistra. Tuttavia l’impresa – rimettere sulla giusta rotta un popolo sbandato e disperso – è molto complicata. E non sarà una donna sola al comando a poterla compiere
Commenta (0 Commenti)IL LIMITE IGNOTO. Libertà d'informazione: «Il nostro caso un precedente pericoloso»
Ieri pomeriggio, dopo 19 giorni in attesa di spiegazioni ufficiali che non sono mai arrivate, abbiamo deciso di lasciare l’Ucraina. Era il 6 febbraio quando i nostri accrediti giornalistici sono stati sospesi dal ministero della Difesa di Kyiv. Da allora non abbiamo più potuto svolgere il nostro lavoro di reporter, e per ragioni di sicurezza abbiamo dovuto lasciare il Donbass alla volta di Kyiv. Abbiamo contattato più volte le autorità ucraine, che sono state sollecitate, oltre che dall’Ambasciata italiana, anche dall’Ordine dei giornalisti, dalla Fnsi e dalla nostra avvocata, Alessandra Ballerini. Ci avevano detto che avremmo dovuto sottoporci a un interrogatorio da parte dell’Sbu, i servizi di sicurezza di Kyiv. Per 19 giorni, come ci era stato espressamente richiesto, abbiamo atteso con pazienza questa convocazione, che tuttavia non c’è mai stata.
NEL FRATTEMPO le uniche voci che ci sono giunte, e che hanno iniziato a circolare abbondantemente proprio dal 6 febbraio, sono quelle che ci descrivevano come “propagandisti filorussi” e “collaboratori del nemico”. Si tratta di calunnie gravissime e pericolose, specie in zona di guerra. La nostra “colpa” – così ci è stato detto dalla Farnesina – sarebbe quella di aver raccontato il conflitto su entrambi i fronti a partire dal 2014, realizzando inchieste e reportage – peraltro spesso critici nei confronti dei russi – anche nelle repubbliche separatiste di Donetsk e Lugansk. Tanto sarebbe bastato a renderci automaticamente dei giornalisti “nemici”. Poco importa se per un anno intero siamo stati in prima fila a raccontare il dramma dell’invasione russa, a Odessa, a Kerson, a Kharkiv, nel Donbass. Per Kyiv non abbiamo comunque il diritto di lavorare. Il 21 febbraio – stando a quanto ci è stato riferito dall’Ambasciata italiana – le autorità ucraine hanno persino messo il veto sulla nostra partecipazione alla conferenza stampa di Giorgia Meloni e Volodymyr Zelensky. Eppure, la lista dei giornalisti italiani che avrebbero potuto prendere parte all’evento era stata compilata dai nostri diplomatici, i quali ci avevano riferito che non era necessario alcun accredito militare.
CHI HA DECISO di tenerci fuori? E perché? È stato questo episodio, in particolare, a farci capire che la nostra attesa era ormai diventata inutile: non ci sarebbe mai stato nessun interrogatorio, era chiaro. Restare avrebbe significato soltanto accumulare nuove frustrazioni, e onestamente cominciavamo ad averne abbastanza. Perciò abbiamo deciso di andarcene. Spostandoci man mano verso ovest, nel giro degli ultimi giorni, abbiamo visto il Paese mutar volto: dalle devastazioni del Donbass siamo passati alla apparente calma di Kyiv, dove oggi la gente è tornata a mangiare nei ristoranti e a fare shopping lungo i grandi viali del centro. Infine Lviv, la più europea tra le città ucraine: da qui la guerra appare come un concetto estremamente lontano, da esorcizzare a suon di aperitivi e concerti, quando scende la sera all’ombra delle antiche cattedrali.
Ora tutto questo è ormai alle nostre spalle. Lasciamo l’Ucraina con grande amarezza, dietro consiglio della nostra Ambasciata. Prima e dopo di noi, a loro insaputa, altri giornalisti italiani sono stati inseriti in questa «lista di proscrizione». I nomi a noi noti sono quelli di Salvatore Garzillo e Lorenzo Giroffi, entrambi respinti mentre cercavano di entrare nel Paese con l’unico intento di raccontare il dramma della guerra, ma l’elenco, a quanto pare, sarebbe molto più lungo.
SE PASSERÀ QUESTA linea – secondo la quale chi ha cercato di lavorare liberamente, senza fare il tifo, ma semplicemente raccontando i fatti, debba essere considerato una minaccia per l’Ucraina – allora il rischio è che il livello di libertà di stampa in questo conflitto si abbassi sensibilmente. Tutti i giornalisti stranieri avranno davanti agli occhi il nostro precedente, e chi probabilmente avrà la meglio – se si procederà in questo senso – saranno i propagandisti e gli uffici stampa militari.
È PER EVITARE TALE prospettiva – nella speranza che le autorità ucraine tornassero sui loro passi – che abbiamo deciso di resistere per questi 19 giorni. Oggi, alla luce di ciò che è successo, restare non avrebbe più senso. Speriamo che tutto questo sia comunque servito a lanciare un messaggio forte, contro ogni censura e contro ogni bavaglio. Perché questa guerra riguarda tutti noi, in Italia e in Europa. È qualcosa di terribilmente vicino e terribilmente importante, e merita di essere raccontata da voci libere e oneste. Oggi tanti colleghi – anche molto più validi di noi – lavorano in Ucraina senza farsi condizionare in alcun modo dalla propaganda. Li conosciamo, li abbiamo visti sul campo. Oggi è così, ma domani cosa succederà?
Commenta (0 Commenti)La Cassazione ributta la palla nel campo della sfera politica. Molto di ciò che potrebbe (o non) accadere di tragico è nelle mani e nella coscienza del Guardasigilli
La decisione della Cassazione su Alfredo Cospito ributta la palla nel campo della sfera politica, dove sin dall’inizio essa vagava. Molto di quello che potrebbe accadere (o non accadere) di tragico nei prossimi giorni è nelle mani e nella coscienza del ministro della Giustizia Carlo Nordio. Potrà sempre in autotutela decidere di revocare il regime di cui all’articolo 41 bis, secondo comma, dell’Ordinamento Penitenziario e determinare lo spostamento di Cospito nel regime di AS1 dove ci sono i soli detenuti declassificati dal regime durissimo di 41 bis.
L’ho qualificato durissimo per distinguerlo dal regime penitenziario AS1 che è a sua volta duro. Tutto il dibattito pubblico sul 41 bis sembra spingere verso la narrazione di una vita in carcere che sia solitamente ben poco afflittiva e che giustifichi l’adozione di misure particolarmente severe in un caso come quello del detenuto anarchico.
Non è così. Affermarlo significa non conoscere la realtà penitenziaria. Dall’inizio dell’anno sono già morte venti persone nelle prigioni italiane ed è dovere morale, prima ancora che giuridico, evitare che a breve ne arrivi una ventunesima.
Nelle mani del Ministro è anche il tema più generale del regime 41 bis visto che, nei numeri (aumentati addirittura rispetto al 1992) e nelle pratiche, ha esondato rispetto alle finalità originarie e ai contenuti voluti trent’anni addietro per contrastare lo stragismo mafioso. Il regime, così come oggi funziona, è il frutto di norme e circolari del Dap che si sono stratificate negli anni, andando a modificare un impianto originario che aveva l’obiettivo di ridurre i contatti dei capimafia con il loro mondo all’esterno del carcere. Dunque è nelle mani del Guardasigilli riportare il regime 41 bis nei confini suggeriti dalle Corti interne e internazionali, dal Garante Nazionale delle persone detenute, dal Comitato Europeo per la prevenzione della tortura. In alcuni casi sarebbe necessario intervenire legislativamente, in altri con atto amministrativo.
Vediamo in cosa potrebbero consistere alcune di queste necessarie e indifferibili modifiche: restringere l’area dei reati per i quali è prevista la possibile applicazione del regime; introdurre un limite massimo di durata della misura evitando che si muoia in quelle sezioni o che si passi direttamente dal 41 bis alla libertà; prevedere l’espressa non cumulabilità del regime con altre forme di isolamento (disciplinare o diurno); non prevedere sotto-insiemi del regime ancora più rigidi del 41 bis; aumentare il numero dei colloqui e delle telefonate, affidando la funzione di prevenzione alle modalità di fruizione; assegnare, nel rispetto del principio del giudice naturale precostituito per legge, la competenza sul reclamo contro la decisione del ministro al Tribunale di Sorveglianza territorialmente competente in base al luogo di detenzione della persona reclusa e non a quello di Roma come è oggi; assicurare una socialità degna di questo nome, seppur con le adeguate attenzioni ai profili criminali; rispettare senza eccezioni le decisioni assunte dalla magistratura di sorveglianza in sede di accoglimento dei reclami presentati dai detenuti; garantire non meno di quattro ore fuori dalla cella a contatto con altre persone, comprese le due ore di permanenza all’aria.
È questo un piccolo breviario per riportare il regime dentro i confini della legalità internazionale e interna.
Cambiando tema, è sempre nel potere del Ministro ridisegnare quel codice Rocco che è la madre di molti dei problemi che affliggono il nostro sistema penale e penitenziario. Una parte dei delitti contro la personalità dello Stato presenti nel codice del 1930 è un residuo di quella cultura illiberale e fascista di cui il codice Rocco trasuda. Così come spetterà al Ministro Nordio scegliere di non costituirsi davanti alla Corte Costituzionale quando questa, speriamo a breve, dovrà decidere se abrogare un altro tassello della legge Cirielli sulla recidiva, ossia quello la cui applicazione ha determinato la pena dell’ergastolo per Cospito, pur in assenza di persone morte.
Cosa che invece il Ministro non potrà fare è trasformare in scelta etica la questione dell’alimentazione forzata. In questo caso il tema è solo ed esclusivamente legale e giuridico. La scelta di Cospito di non mangiare è nella sua sfera di auto-determinazione ed è già giuridicamente protetta.
(presidente Antigone)
Commenta (0 Commenti)COMMENTO. Mai come in questa occasione le primarie del Pd si presentano come una sfida vera, di cui non si conosce il risultato in anticipo. Non era mai successo dal 2007, quando questo partito è stato fondato. Una sola candidata si propone seriamente di invertire la rotta su lavoro e precariato, dopo la sbornia neoliberista
Mai come in questa occasione le primarie del Partito democratico si presentano come una sfida vera, di cui non si conosce il risultato in anticipo. Non era mai successo dal 2007, quando questo partito è stato fondato.
Nel ground zero della sinistra seguito alle politiche di settembre e poi alle regionali, nel deserto dell’affluenza alle elezioni vere che riguarda in maniera sempre più consistente le fasce più fragili della popolazione, questo appuntamento non è di secondaria importanza. Dal risultato delle primarie infatti dipenderà il profilo della principale forza di opposizione al governo più a destra della storia repubblicana.
E anche il profilo di quella che, a un certo punto, sarà la coalizione che dovrà tentare di battere Meloni e soci. Non è solo una questione che riguarda le diverse personalità di Bonaccini e Schlein, le loro storie, i loro caratteri. Ma soprattutto la direzione politica che vorranno imprimere a un partito mai come oggi in crisi d’identità, a quali soggetti sociali si rivolgerà, con quali priorità su temi come
Leggi tutto: Virata a sinistra o minestra centrista? Il Pd al bivio - di Andrea Carugati
Commenta (0 Commenti)COMMENTI. Giorgia Meloni, che si sciacqua la bocca con la «nazione», ha commesso un errore subappaltando il disegno di legge, che disfa l’unità della Repubblica, all’alleato leghista
Bene hanno fatto i sindaci a bloccare la corsa di Calderoli verso una autonomia differenziata in salsa leghista. La notizia non riceve l’attenzione che meriterebbe solo perché oscurata dall’anniversario dell’assurda guerra nel cuore d’Europa. Il presidente Anci Decaro scrive al ministro che una innovazione istituzionale di così grande rilievo impone una riflessione approfondita. Ha ragione, e dice quello che avremmo voluto sentire in Consiglio dei ministri all’atto del frettoloso primo disco verde al disegno di legge Calderoli. I Comuni si sono fatti Stato, esercitando una supplenza verso chi avrebbe dovuto parlare e non l’ha fatto.
Diventa sempre più chiaro che Giorgia Meloni ha commesso un errore subappaltando l’autonomia differenziata all’alleato leghista. Forse contava su una lealtà che non c’è poi stata sulla contemporaneità con la riforma presidenzialista. Conta, invece, che siano in mani leghiste tutte le sedi decisionali più rilevanti sul tema: ministero delle autonomie (Calderoli), economia (Giorgetti) e infrastrutture (Salvini). Calderoli ha praticato forzature a raffica, fino all’ultima di un comitato tecnico-scientifico imbottito di fan antichi e neofiti dell’autonomia differenziata. Ora Meloni potrebbe trovarsi nella condizione di perdere il controllo, e vedere il paese sfarinarsi quando occupa Palazzo Chigi e si sciacqua la bocca con i «patrioti» e la «nazione». Il pericolo è grave, e non bastano le rassicurazioni di ufficio.
È vero o no che la maggiore autonomia, una volta concessa, è potenzialmente irreversibile perché qualsiasi cambiamento dovrebbe passare attraverso le forche caudine di un assenso della regione già beneficiata? È vero o no che se un diverso clima politico, un’altra maggioranza, un nuovo ciclo economico vedessero la necessità di un passo indietro o comunque di una modifica potrebbero essere fermati dalla difesa di privilegi conseguiti da questa o quella regione? È vero o no che la legge attributiva di maggiore autonomia ai sensi dell’art. 116.3 non potrebbe nemmeno essere assoggettata a referendum abrogativo ai sensi dell’art. 75 della Costituzione? È vero o no che alla legge di attuazione a firma Calderoli non sarebbe consentito rimediare, sia ex ante non potendo porre con efficacia limiti giuridicamente cogenti alla legge attributiva di maggiore autonomia, sia ex post, non potendo intervenire successivamente a modifica?
È vero. Una risposta univoca per il giurista, cui si aggiunge un rischio politico, per l’effetto domino che la più ampia autonomia data a una regione avrebbe inevitabilmente sulle altre. I maggiori poteri e le maggiori risorse diventerebbero il metro per misurare la cifra del ceto politico regionale nel mercato generale della politica. Se un governatore mettesse le mani sulla scuola, sull’energia, sui porti, gli aeroporti, le ferrovie, i beni culturali o altro, anche gli altri vorrebbero farlo, non potendo concedere un vantaggio competitivo. Avviare l’autonomia differenziata significa dare inizio in tempi comunque brevi al disfacimento della Repubblica una e indivisibile.
Queste riflessioni giustificano ampiamente uno stop a Calderoli. Toti vuole il porto di Genova, Giani vuole l’energia e la Galleria degli Uffizi, Zaia vuole tutto di tutto e conferma la pretesa veneta per le 23 materie possibili (Italia Oggi, 23 febbraio). Qualche governatore dà segni di ravvedimento operoso, come il campano De Luca quando coglie che contratti integrativi delle regioni più ricche nella scuola e nella sanità avvierebbero un esodo potenzialmente incontrollabile da quelle del Mezzogiorno.
In linea con il presidente dell’ordine dei medici di Napoli Zuccarelli per cui servirà la carta di credito e non la tessera sanitaria per curarsi. Prospettive per nulla smentite dagli ingannevoli Lep a costo zero o dal richiamo ai tributi maturati sul territorio del modello Calderoli.
Ma i contratti regionali integrativi paventati da De Luca non sarebbero forse possibili anche senza autonomia differenziata, in base alla potestà legislativa concorrente già riconosciuta alle regioni dall’art. 117.3 su istruzione, sanità, lavoro? Molto probabilmente sì. E allora non basta contrastare il ddl Calderoli. Bisogna anche cancellare gli elementi che mettono a rischio la Repubblica una e indivisibile nella ormai famigerata riforma del Titolo V del 2001. È quello che fa la proposta di legge costituzionale di iniziativa popolare per la modifica mirata degli articoli 116.3 e 117 sulla quale stiamo raccogliendo le firme, anche online con lo SPID su www.coordinamentodemocraziacostituzionale.it
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