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IL LIMITE IGNOTO. Il viaggio di Xi Jinping a Mosca

 

Gli ucraini vogliono armi a più lunga gittata, per continuare a colpire in profondità la logistica russa, rendendo insostenibile l’occupazione. Le armi che affluiscono dall’Occidente ci raccontano invece della pressione per un’offensiva diretta, per l’estate. Così da accorciare i tempi e segnare l’esito della guerra, verso un settlement da una posizione di forza.
I russi bombardano, ma da Sebastopoli, Belgorod e Rostov giungono notizie di esplosioni e incendi. Nelle scuole della Crimea i bambini sono sottoposti ad addestramento militare, mentre arriva Putin a celebrare nove anni di annessione: si porta addosso un mandato di cattura per crimini di guerra spiccato dal Tribunale dell’Aia.
Al pari di Washington, Mosca non ha sottoscritto il Trattato di Roma che istituisce il Tribunale. La deportazione dei bambini dalle città ucraine, flagrante violazione delle Convenzioni di Ginevra in materia di responsabilità della potenza occupante, è sempre stata presentata da Mosca come salvataggio umanitario.

Prevedibilmente i gerarchi, rabbiosi, parlano dell’ennesima, oltraggiosa prova di una guerra voluta dall’Occidente, pescando nel trito repertorio della paranoia. Mentre la Russia cerca di convincere il mondo della propria nobile guerra difensiva, un leader accusato di aver voluto varcare la linea dei crimini di guerra rappresenta un imbarazzo che va al di là dei 123 paesi che riconoscono il Tribunale. La logica della superpotenza porta con sé l’ambizione all’impunità (ricordiamo gli Stati uniti in Iraq), ma la guerra della Russia soffre di efficienza militare declinante, e a nessuno sfugge la parabola di quei capi di stato che sono incappati in mandati di arresto del Tribunale dell’Aia. Di certo si restringono i margini di viaggio (non vedremo più Putin alle cene romane o agli expò milanesi). Altrettando evidenti sono le implicazioni immediate dell’accusa sulla prospettiva di negoziati.

Xi è atteso a giorni a Mosca, mentre si annuncia un contatto anche con gli ucraini. Mai come ora la Cina sembra avere un ruolo chiave rispetto all’idea di negoziato e, in prospettiva, di pace. Con il recente annuncio della Global Civilisation Initiative, imperniata sul rispetto per la diversità delle civiltà, Pechino si affaccia ormai sull’ordine globale attraverso diversi documenti che esplicitano le linee di fondo della sua visione, declinando concretamente le ambizioni della politica estera del terzo mandato di Xi. Da quando nel 2015 è stata enunciata all’Onu, la «Comunità di futuro condiviso dell’umanità» definisce l’aspirazione cinese a un sistema internazionale libero da distorsioni occidentali, fondato su partenariati fra uguali, su una nuova architettura di sicurezza, su politiche di sviluppo comune e scambi fra civiltà. Una visione complessiva nella quale modernizzazione non equivale a occidentalizzazione.

Lanciata ormai dieci anni fa, la Belt and Road Initiative incarna la visione cinese di un mondo con interconnesso (finanza e infrastrutture) e l’ambizione «a costruire un nuovo modello di relazioni internazionali». Nel 2021 la Cina ha proposto la propria Global Development Initiative, riprendendo gli obiettivi di sviluppo sostenibile del Millennio Onu. Durante il summit di Boao del 2022, Xi ha infine annunciato la Global Security Initiative, esplicitata poi in un concept paper pubblicato giorni fa, ad un anno dall’inizio dell’invasione russa, per dare forza all’esplicito ingaggio diplomatico cinese su questo fronte: nell’enunciare le linee guida della riforma della sicurezza collettiva, Pechino inasprisce la critica del protezionismo americano, e mette al centro l’Onu integrità territoriale, sovranità statale, uniformità dell’applicazione del diritto internazionale, risoluzione pacifica delle dispute.

Su queste basi la direzione della politica estera cinese appare oggi, in contesto di crescente rivalità con Washington, orientata all’ingaggio con il Sud Globale, a partire dal mondo che fu colonizzato, tipicamente marginale nella governance globale. Strumentale alle ambizioni egemoniche di Pechino, la visione cinese della pace ambisce a caratterizzarsi per il proprio tratto post-coloniale. Lungo questa direttrice, anche in ragione di rivalità perduranti ed interessi divergenti, essa fatica ad allinearsi fino in fondo col revisionismo imperialista russo.

Al tempo stesso, la debolezza di Putin, la sconfitta militare che si prepara, lo spettro di un periodo di torbidi, obbligano la Cina ad esporsi maggiormente in direzione di una soluzione negoziata. Fino a che punto, nel dare sostegno a Mosca, Xi si spingerà nel sostenere la costruzione russa di mondi separati, ad esempio con processi per crimini di guerra ucraini creati ad uso e consumo dell’audience dei paesi emergenti (Brics)? Quanto potrà concedere tatticamente rispetto alle proprie ambizioni globali, con proposte di cessate il fuoco che, se non sviluppate con un ingaggio politico strategico, rischiano oggi di ricalcare solo gli interessi di Mosca? L’Europa che fu colonialista ha tutto da perdere da una guerra che non si ferma, e molto da guadagnare da un intenso dialogo con Pechino

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POLITICA. Il Pd cambia, è possibile ora un fronte comune d’opposizione. Il rischio è la concorrenza con il M5S. Ma serve una formazione di sinistra autonoma da questi due partiti

 Elly Schlein - foto Ansa

Dopo l’affermazione della Meloni nell’inedito destra-centro di governo, la vittoria di Elly Schlein alle primarie del Pd grazie a suffragi progressisti estranei al partito sommuove in profondità anche l’altro versante dello schieramento politico italiano.

Vi è un ampliamento del pensabile della politica partendo dalla sua riconfigurazione al femminile, e si aprono nuove prospettive politiche, incerte ma ben visibili, anche per l’arcipelago della sinistra, il M5S, i movimenti, l’associazionismo progressista. Nel Pd s’è avviato un cambiamento. Nella composizione del gruppo dirigente un forte rinnovamento generazionale si innesta sull’accordo con Bonaccini – ma non con gli ex renziani – ed alla conferma nella Direzione di molti protagonisti della fase precedente.

Quanto al programma la Schlein si propone come una democratica conseguente, aperta alle istanze del lavoro e dell’ambiente, ma si trova sottoposta ad un duplice condizionamento. Da un lato, come Draghi alla Meloni, Letta ed altri le avranno spiegato che la sua legittimazione a governare dipende dalla piena adesione alle politiche del rigore di bilancio e della Nato. Dall’altro, le cordate del potere politico-amministrativo, struttura portante del Partito nei territori, continueranno a gestire l’esistente secondo le linee di minor resistenza alle spinte degli interessi forti.

Tuttavia, le conseguenze drammatiche della crisi spingono nella direzione indicata dalla Schlein. Il rischio è una riedizione, adeguata ai tempi, del «ma anche», principio fondativo del Pd coniugante belle narrazioni e prassi inadeguate o negative, come per la guerra in Ucraina. Intanto la Schlein ha aperto un confronto con il M5S e i rosso-verdi per costruire iniziative comuni a partire dai temi del salario e del lavoro subordinato, ovvero dal cuore del conflitto di classe. Si delinea così una possibile prospettiva verso la costruzione di uno schieramento comune di opposizione al governo di destra-centro ed al suo programma di controriforma istituzionale e sociale.

Prospettiva che dovrà superare la tentazione della concorrenza per la guida dell’opposizione tra il ceto politico del Pd e quello del M5S, con la sinistra divisa tra le formazioni inclinate verso il Pd, coi loro parlamentari, e le formazioni indipendenti dal Pd, più orientate sul M5S.

La tentazione riflette anche le contraddizioni interne alla frammentata base sociale di queste forze, dai ceti medi professionali e produttivi al lavoro dipendente garantito o precario, fino ai disoccupati e ai giovani impegnati sulla crisi ambientale. Costruire uno schieramento comune, perciò, significa definire un’agenda a grandi linee comune, in grado di ricomporre la disarticolazione sociale intorno agli interessi fondamentali della gran parte dei cittadini, colpiti dalle dinamiche distruttive innescate dalle esigenze del capitale finanziario. Per questa agenda c’è una base condivisa costituita dal collegamento tra ambiente, lavoro e diritti, ma c’è anche un vuoto da colmare. Per realizzare politiche adeguate alla complessità dell’intreccio c’è bisogno di un sistema istituzionale all’altezza, che non presenti le vistose carenze di quello vigente. La destra offre una risposta a queste carenze col suo progetto di controriforma della Costituzione, sgangherato ma rispondente alle esigenze degli interessi forti e dei ceti privilegiati. Per batterlo è necessario un progetto alternativo, che rilanci il ruolo del Parlamento rispetto all’esecutivo e delle Autonomie locali rispetto al neocentralismo regionale, trovando le risorse necessarie alle nuove politiche pubbliche con una riforma fiscale in senso fortemente progressivo.

Un progetto sul quale battersi, in Parlamento e nel paese, per poterlo proporre domani all’elettorato. La costruzione dello schieramento comune e del progetto alla sua base rappresenta un compito assai impegnativo e tuttavia ineludibile. Una condizione perché si realizzi potrebbe essere data dalla capacità della sinistra di svolgere un ruolo di cardine tra l’evoluzione avviatasi nel Pd grazie alla Schlein e quella in corso nel M5S, grazie a Conte, perché vengano controllate contraddizioni, oscillazioni, lo spirito di concorrenza.

Ma occorre che una sinistra vi sia, ovvero una formazione politica anche plurale ma stabile, autonoma dal Pd e dal M5S, in grado di mettere insieme su questa prospettiva le persone impegnate nelle varie organizzazioni e i molti intellettuali di area finora dispersi, che possono contribuire in modo decisivo alla definizione del progetto comune

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COMMENTI. La Corte penale internazionale ha spiccato un mandato di arresto per crimini, come l’adozione dei minori ucraini, di cui Putin si è addirittura lodato. Se però è un criminale, con […]

Vladimir Putin, foto Ap

 

La Corte penale internazionale ha spiccato un mandato di arresto per crimini, come l’adozione dei minori ucraini, di cui Putin si è addirittura lodato. Se però è un criminale, con chi si potrà ora negoziare la fine della guerra? C’è voluto più di un anno di conflitto per l’incriminazione. Più di un anno di tempo affinché il Procuratore della Corte penale internazionale (Cpi) richiedesse l’arresto di Vladimir Putin per reiterati crimini di guerra. Ma sono sorprendenti i capi di imputazione: non aver iniziato una guerra, non per aver consentito che il suo esercito uccidesse i non combattenti, non per aver strategicamente mirato le infrastrutture civili, come le centrali elettriche ed idriche, del Paese occupato. Tutti questi fatti ben noti all’opinione pubblica e ancor più alla Cpi sono, per ora, passati in secondo piano. L’incriminazione riguarda la deportazione di bambini da Mariupol e altre zone di guerra verso orfanotrofi e altri centri di raccolta se non addirittura l’averli dati in adozione a famiglie russe.

Il Cremlino ha sempre negato i crimini che gli hanno imputato: questa non è guerra, continuano a dichiarare, bensì una «operazione militare speciale», non è vero che l’esercito abbia ucciso civili a Bucha e altrove, si tratta solo di propaganda occidentale. Come sempre avviene in un conflitto, entrambe le fazioni denunciano gli orrori del nemico e negato i propri. Ma per la ricollocazione dei minori dalle aree di guerra è successo esattamente il contrario: la Russia ha esplicitamente dichiarato di avere voluto «proteggere» e «salvare» i bambini, e i programmi di adozione sono stati addirittura magnificati dai mezzi di informazione. Si tratta, insomma, di un crimine di cui Putin e il suo entourage, a cominciare dalla sua collaboratrice Maria Alekseyevna Lvova-Belova, anche lei oggi sotto mandato di arresto, si sono addirittura lodati di fronte alle televisioni.

Del resto, non bisogna dimenticare che la Russia, secondo l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, sta ospitando il numero più alto di rifugiati di questa guerra: più di 2,8 milioni, quasi il doppio rispetto a quelli ospitati in Polonia e pari a più di un terzo di tutti i rifugiati generati da questa insensata guerra.

Quale può essere il ruolo della giustizia penale in questo conflitto? Non era mai successo che i giudici fossero così attivi mentre sparano i cannoni. I tribunali ordinari ucraini hanno già condannato all’ergastolo alcuni semplici soldati per crimini di guerra, rendendoli poi disponibili per eventuali scambi di prigionieri. I separatisti russi hanno più volte minacciato una Norimberga 2.0 per processare i militi del Battaglione Azov per i bombardamenti sui civili del Donbass compiuti dal 2016 in poi, senza però farsi alcuna remora dal liberarli dopo trattative.

Ancora più solerte è stata la comunità internazionale, con periodiche dichiarazioni, tra gli altri da parte di Joe Biden, Boris Johnson e Ursula von der Leyen, di voler mettere sotto processo il Cremlino. Vari Stati, tra i quali l’Olanda, il Belgio e la Francia, hanno messo a disposizione della Cpi investigatori per raccogliere prove sui crimini di guerra commessi.
La storia mostra che le toghe sono entrate in azione quando i generali avevano finito di combattere. Oggi non più. In tutto questo attivismo penale da parte dei Paesi occidentali, siamo forzati a chiederci: potrà la guerra finire con la sconfitta definitiva della Russia e una resa senza condizioni? Ben pochi oggigiorno si meritano la patente di criminale di guerra quanto Putin, ma dopo di lui chi gestirà le trattative?

Ci sono responsabilità che spettano alla politica ed altre che sono di competenza dei giudici. I pretori stanno svolgendo il proprio lavoro e possiamo essere certi che nel giro dei prossimi mesi le incriminazioni non faranno che aumentare. Ma questo non deve esimere la diplomazia dallo svolgere il proprio lavoro, per giungere il prima possibile ad un cessate-il-fuoco, al progressivo ritiro delle truppe russe dalle zone occupate e ad una ricostruzione dell’Ucraina.

Per quanto la giustizia penale internazionale, così faticosamente risorta un quarto di secolo fa, se la si vuole veramente rinforzare sarebbe necessario chegli Stati uniti finalmente aderiscano alla Cpi, accettando di essere sul banco degli accusati come tutti gli altri membri – responsabili di tante guerre criminali – e che si lasci all’Ufficio del Procuratore la possibilità di decidere dove indagare, giacché finanziare programmi ad hoc significa inevitabilmente ridurre la sua imparzialità.
In tutto questo caravanserraglio di minacce giudiziarie, bisogna anche essere consapevoli dei limiti dei tribunali. Come insegna il processo di Norimberga e i suoi troppo pochi epigoni, i crimini sono sempre troppi e i condannati sempre troppo pochi.

Per uscire dalla guerra in Ucraina, oltre ai processi sarà necessario un ben più diffuso processo di verità e riconciliazione analogo a quello che Nelson Mandela ebbe il coraggio di avviare in Sud Africa. I popoli russo ed ucraini sono destinati a convivere uno accanto all’altro e quando finalmente gli attuali delinquenti saranno scacciati dal Cremlino, sarà necessario ritrovare le condizioni per una pace duratura.

Autore del libro “Delitto e castigo nella società globale”, ed. Castelvecchi 2022

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DESTRE . Una litania di apologie è seguita al «suo» discorso di insediamento che ha declinato l’antifascismo sulla misura degli «opposti estremismi» anziché radice fondativa della Repubblica

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«Questa vittoria la voglio dedicare a tutte le persone che non ci sono più e che meritavano di vedere questa nottata». Queste le parole di Giorgia Meloni, dedicate ai padri fondatori della «comunità» missina nella Repubblica. Così la neo-presidente del Consiglio scelse di celebrare i risultati elettorali della notte del 25 settembre 2022 che determinarono la sua ascesa (prima esponente dichiaratamente postfascista) alla guida del governo.

DA QUELLA NOTTE, come un continuo e incontrollabile riflesso antropologico, si sono succeduti in serie: l’attacco di Meloni, nel suo discorso di insediamento, all’antifascismo (furbescamente declinato sulla misura degli anni Settanta degli «opposti estremismi» anziché come radice fondativa della Repubblica); gli onori al Msi, nella ricorrenza della sua fondazione, della sottosegretaria alla Difesa Isabella Rauti (figlia del fondatore di Ordine Nuovo) e del Presidente del Senato Ignazio Benito La Russa (già compiaciuto gallerista di busti di Mussolini esposti a favore di stampa); l’attacco anti-antifascista del ministro dell’Istruzione Valditara alla preside del liceo Leonardo da Vinci di Firenze dopo l’aggressione squadrista dei militanti giovanili di Fratelli d’Italia contro studenti minorenni davanti al Liceo Michelangiolo.

In ultimo, la rilettura subcosciente operata da Claudio Anastasio del discorso con cui Mussolini rivendicò politicamente l’omicidio di Giacomo Matteotti e la natura criminale del fascismo.

«Me ne frego! Rinnegare non è un vocabolo che rientra nelle mie costumanze né nelle costumanze dei missini». Così Almirante rispondeva, il 14 gennaio 1987, all’attonito giornalista che conduceva una tribuna politica. Citando la formula coniata dall’ex segretario del Msi Augusto De Marsanich «non rinnegare non restaurare» Giorgio Almirante tracciava un solco che oggi i suoi eredi al governo difendono con la spada.

NELLA CONSAPEVOLEZZA dell’impossibilità di un ritorno del fascismo nelle sue forme storiche (intese come corporativismo; autarchia; imperialismo bellicista; regime terroristico; razzismo di Stato; classismo totalitario e organicista) il senso profondo della formula indica una linea politica molto più concreta per i posteri seguaci della fiamma tricolore: saper essere fascisti nel proprio tempo.

Nascondersi e mescolarsi dentro il corpo globale liberista e da lì mantenere da un lato viva la retorica «dell’alterità al sistema» e dall’altro esprimere il più alto grado di compatibilità in termini di atlantismo coniugato con il classismo punitivo dei ceti più deboli; la negazione dei diritti civili; la discriminazione dei migranti.

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PIÙ CHE IL DIBATTITO sulla riemersione dal gorgo della storia del regime di Mussolini è, dunque, sulle dimensioni del tempo presente che si misurerà nel prossimo biennio il rapporto di forza tra eredità storica della Repubblica costituzionale (nata dalla vittoria dell’antifascismo) e nuova destra (nata dalla sconfitta del fascismo).

NELLA RIDEFINIZIONE dell’identità repubblicana questo governo si confronterà con anniversari storici che acquisiranno un grande significato perché cadenti nel pieno di un prospettato processo di «riforma» presidenziale e autonomistico-regionale che potrebbe stravolgere definitivamente l’impianto delle istituzioni nate dalla Resistenza.

Quale sarà la postura dell’esecutivo Meloni: Il prossimo 8 settembre di fronte all’80° anniversario dell’armistizio che la destra missina ha sempre indicato come «tradimento» e «disonore» della patria?; oppure nel giugno 2024, quando ricorreranno i 100 anni dall’omicidio Matteotti (e dunque dall’avvento totalitario del regime fascista) e gli 80 anni della Liberazione di Roma medaglia d’oro alla Resistenza?; o ancora il 25 aprile 2025, 80° della Liberazione d’Italia?

QUESTE RICORRENZE giungeranno quando ci troveremo (se il governo durerà) nel pieno della discussione su due mutamenti di sistema (la repubblica presidenziale e l’autonomia differenziata) che potrebbero portare non ad un «nuovo fascismo» ma alla disarticolazione definitiva dello Stato nato dalla Resistenza.

Non porteranno camicie nere nelle strade ma «risolveranno» quei problemi di compatibilità tra la Costituzione antifascista e gli assetti del libero mercato denunciati dalla banca d’affari JP Morgan nel 2013.

Una questione portata alle soglie (e per fortuna lì fermata) della «soluzione» dal referendum del 2016 del governo Renzi e non aliena a quella parte di società liberale che non perde occasione per tentare di separare ideologicamente ciò che la Storia ha unito nella realtà del nostro Paese: l’antifascismo comunista e socialista (che fu oggettivamente maggioritario), l’antifascismo cattolico e quello laico-democratico.

Un incontro che disegnò il primo e unico terreno storico che abbiamo in comune (a differenza delle odierne posticce memorie condivise): la Costituzione della nostra Repubblica. Sarà quello l’obiettivo della destra

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COMMENTI. Ecco un trafficante «nostro» interlocutore a Tripoli: è il ministro degli Interni Trabelsi, che ha incontrato Piantedosi. Per Onu, Usa e Amnesty è «tra i peggiori violatori di diritti umani»

Traffico di migranti: c’è un “Libyagate” che ignoriamo Tripoli, un gruppo di migranti intercettati e sorvegliati dalla polizia libica - foto Ap

In Libia sappiamo chi manovra il traffico di migranti e gestisce i campi di tortura, basta sfogliare “Libyagate”, libro-inchiesta fresco di stampa di Nello Scavo e di un gruppo di giornalisti italiani e stranieri. Basta guardare in casa nostra per saperlo, non c’è bisogno come fa il governo di tirare in ballo i mercenari russi, trincerati in Cirenaica, della Wagner – che ieri secondo l’Ansa, hanno messo una taglia sul ministro della Difesa Crosetto, una mossa killer, tanto incendiaria quanto provocatoria da respingere al mittente.

Per capire davvero chi manovra il traffico di migranti, chiediamoci piuttosto chi sono i nostri interlocutori a Tripoli per gestire le migrazioni. Uno di questi è il ministro degli Interni Emad Trabelsi, che il 26 febbraio incontrava a Roma il suo omologo Piantedosi: il 3 marzo Trabelsi è stato brevemente arrestato all’aereoporto di Parigi Charles de Gaulle. Sembra che avesse mezzo milione di euro in contanti, ma soprattutto figurava in una lista di indagati per traffico di migranti, come riportato anche in un’interrogazione parlamentare del deputato di Sinistra italiana Marco Grimaldi.

CAPO DELLE MILIZIE di Zintan, Trabelsi era stato nominato a novembre ministro degli Interni dal premier Ddeibah ma il suo nome figura in più di un rapporto internazionale dell’Onu, del dipartimento di stato americano e di Amnesty International come «uno dei peggiori violatori di diritti umani e del diritto umanitario internazionale». In combutta – leggendo “Libyagate” – anche con il famigerato comandate libico Al Milad, conosciuto con il nome di battaglia di Bija, capo delle guardia di costiera di Zawihah, uno dei più spietati contrabbandieri di esseri umani, prima arrestato e poi riabilitato dal governo libico.

Ma quella di Tripoli forse è una strategia raffinata: chi meglio di un ex trafficante che fa il ministro per trattare con altri trafficanti? Le ondate incontrollate di migranti dalla Libia sono iniziate con la caduta di Gheddafi nel 2011 voluta da Francia, Usa e Gran Bretagna. I mercenari russi della Wagner, accusata da Roma, allora neppure esisteva. In Tripolitania, poi, non c’è la Wagner ma ci sono le milizie locali e quelle della Turchia che hanno il controllo sulle motovedette della guardia costiera fornite dall’Italia. In Cirenaica i più influenti sono il generale Khalifa Haftar e gli egiziani che qui scaricano migliaia di poveri.

Incolpare la Wagner è un modo per giustificare un governo, smentito per altro dai rapporti più recenti dell’intelligence, che ha appena stretto accordi sul petrolio con Tripoli e nulla dice di campi di concentramento e tortura con dentro almeno mezzo milione di persone. Inoltre risulta che la maggioranza degli sbarchi oggi arrivi dalla Tunisia – dalla frontiera «porosa» con la Libia – sull’orlo del fallimento finanziario, dove il presidente Saied giustifica i fallimenti suoi e dei predecessori attaccando i migranti dal Sahel.

FORSE IL NOSTRO GOVERNO puntando il dito sulla Wagner intende sollecitare, in contemporanea con la guerra in Ucraina, un intervento dell’Alleanza anche nel Mediterraneo per fermare le rotte migratorie. Un’ipotesi, per altro non tanto priva di fondamento visto che in Italia ci sono 64, costose assai, basi militari Usa e Nato e con mezzi navali e di tracciamento sofisticati.

Il ritorno della Russia in Libia con la Wagner nel 2018, chiamata dal generale Khalifa Haftar, è stata una delle conseguenze della fine di Gheddafi nel 2011: Usa e Nato (Italia compresa), insieme all’Europa, hanno lasciato che il Paese cadesse nell’anarchia e senza alcun controllo alle frontiere, con una spaccatura tra Tripolitania e Cirenaica che persiste da anni. Nel 2019 l’offensiva contro Tripoli dell’uomo forte della Cirenaica, il generale Haftar, si è risolta in un fallimento perché il governo Sarraj, dopo avere visto respingere le sue richieste di aiuto militare rivolte a Italia, Usa e Gran Bretagna, è stato sostenuto dalla Turchia di Erdogan, oggi presente con istruttori militari e mercenari. Si è ripetuto lo schema della Siria e dell’Azerbaijan, quando l’Occidente ha lasciato che fosse Erdogan a contrastare Putin e poi a mettersi d’accordo con Mosca per la spartizione delle zone di influenza.

LA PRESENZA DELLA WAGNER in Libia è comunque strategica per i russi, a metà strada tra Siria e Africa subsahariana dove i mercenari di Evgheni Prighozin, l’ambizioso e violento amico di Putin, sono schierati anche in Mali, Repubblica Centrafricana, Sudan e Burkina Faso, con un modello economico predatorio: sicurezza in cambio di petrolio, miniere d’oro e metalli rari. Per Mosca i miliziani possono essere utili a gestire il conflitto in Europa e assicurarsi il supporto degli stati africani anche all’Onu.

Ma in Cirenaica la Wagner è arrivata con un accordo tra Mosca, Haftar e il beneplacito del raìs egiziano Al Sisi che ha ottimi rapporti con Mosca e in Libia è alleato con gli Emirati arabi uniti, sotto lo sguardo non disinteressato della Francia. Dopo l’insuccesso dell’offensiva contro Tripoli, i mercenari della Wagner hanno protetto la ritirata delle forze di Haftar ed eretto una serie postazioni militari nella Sirte, sono rimasti nei siti petroliferi in Cirenaica e in Fezzan con una presenza stimata intorno alle 1.500 unità. In particolare il gruppo Wagner sta lavorando come fa da anni la Russia per riportare al potere il figlio di Gheddafi Seif al-Islam. Ma con i russi è spesso così: c’è un passato che non passa

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ECONOMIA. Via l’Irap, silenzio sugli extraprofitti, nulla per la giungla delle “spese fiscali” (626 per un totale di 155 mld) che erode base imponibile e penalizza incapienti e bassi redditi

La ricetta fiscale, un mix di neoliberismo e corporativismo

 

La «rivoluzione fiscale» (copyright di Giorgia Meloni) è iniziata e mai pubblicità fu così ingannevole. Difficile vedere qualcosa di rivoluzionario nel tagliare le tasse ai ricchi. Sarebbe più appropriato definirla rivoluzione «corporativa», un tentativo di adattare il fisco ai diversi e frammentati interessi, di costruire più solidi recinti (legali) intorno ai grandi patrimoni, ai privilegi e alle posizioni di rendita.

Va in questa direzione l’istituto del “concordato fiscale”, uno strumento di negoziazione biennale tra imprese e agenzia delle entrate per concordare appunto gli importi da versare. Un regime fiscale à la carte, un trattamento speciale e di riguardo che tende a spostare l’aliquota sugli utili aziendali dal 24 al 15 per cento (un deciso passo avanti verso la generalizzazione della flat tax). Il colpo di spugna sui reati fiscali è la ciliegina sulla torta, nella mal riposta speranza che questa dolce terapia riesca a ridurre, almeno in parte, l’elevato tasso di evasione. Le linee guida di questa pseudo rivoluzione sono dunque la tassa piatta e la pace fiscale.

La progressività fiscale va in soffitta e la regressività diventa la nuova regola, con tutte le iniquità e le implicazioni negative: le spaccature nel mondo del lavoro, i divari territoriali e le distanze sociali, il prosciugamento delle fonti di entrata (basti pensare all’abolizione dell’Irap) con i conseguenti effetti devastanti sul debito e sulla tenuta del Welfare. Nulla di concreto è previsto per sfoltire la giungla delle “spese fiscali” (se ne contano 626 per un valore complessivo di 155 miliardi) che erode base imponibile e penalizza incapienti e bassi redditi. Mettere un tetto alle detrazioni, in base al reddito dei contribuenti, non attenua le sperequazioni esistenti e, comunque, consente una riduzione di appena il 3 per cento delle spese fiscali. Oltre tutto, in una logica di scambio, il meccanismo delle agevolazioni e dei bonus conviene alla destra per attrarre nella sua orbita imprenditori, lobby, manager, settori della rendita e della finanza, categorie del lavoro autonomo.

Nel mix di liberismo e corporativismo c’è più coerenza politica e ideologica di quanto si possa immaginare. Le imposte sono considerate dalla destra alla stregua di un furto di Stato, una sottrazione indebita di risorse ai consumi privati e al mercato. In questa visione tagliare le tasse è la chiave di volta per riaccendere i motori della crescita economica. Naturalmente vanno tagliate soprattutto ai ricchi, non ai redditi medio-bassi. Dal tavolo del governo è scomparso perfino il dossier sulla tassazione degli extraprofitti, che pure era stato un cavallo di battaglia di Fratelli d’Italia in campagna elettorale. Silenzio sui cospicui “dividendi di guerra” delle compagnie energetiche, dell’industria delle armi, delle big tech, delle big pharma, del settore alimentare, delle società finanziarie.

L’Eni ha registrato, nel 2022, un utile operativo di 20,4 miliardi, più del doppio rispetto al 2021, di cui 12,5 di extraprofitti. Giorgia Meloni dimentica le promesse elettorali e incassa i complimenti di illustri opinionisti e uomini d’affari per il realismo e lo spirito pragmatico che sta dimostrando. Alla presidente del Consiglio non manca l’arte di trovare argomenti per distrarre l’attenzione da alcuni temi sensibili e usa la retorica patriottarda intorno a un fantomatico “Piano Mattei” per mascherare il via libera ai massicci investimenti Eni nella ricerca di nuovi giacimenti di gas e petrolio. Da parte sua il ministro della difesa, Guido Crosetto, risulta impegnato in una serrata trattativa con l’Ue per ottenere che gli investimenti in armi siano classificati come spese in ”beni comuni europei”, scomputandole quindi dal calcolo del deficit.

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Sugli impegni per la transizione ecologica il dietro front non potrebbe essere più clamoroso. La transizione va bene, come nella vicenda del Superbonus e delle case green, solo fino a quando a guadagnarci sono imprese private e ricchi proprietari.

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La propaganda populista mostra il suo carattere classista e reazionario e si ribalta nella difesa delle rendite di posizione (vedi balneari e altre corporazioni) e dei ceti benestanti. D’altra parte, basta evocare la «patrimoniale», perché la destra insorga come un sol uomo. E non è certo un caso che la riforma del Catasto resti ben chiusa in qualche cassetto. Il volto generoso e clemente dei nostri governanti verso lor signori, magari evasori incalliti, si trasfigura quando sono in ballo i poveri, i precari, i migranti. Il sentiment cambia. La scure dei tagli cala impietosa sui percettori del Rdc e sulle politiche sociali. Emerge in tutta la sua pericolosità una destra che fa politica alimentando l’egoismo individuale e di gruppo, che ritiene un dato naturale e immodificabile la condizione degli italiani più sfortunati come quella dei diseredati del mondo. La questione fiscale, in questo contesto, diventa centrale per combattere le disuguaglianze e costruire un’alternativa politica credibile

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