ISRAELE/PALESTINA. Se il viaggio di Biden è stato un fallimento completo lo sapremo tra pochi giorni rispetto a due obiettivi: «contenere» l’esercito israeliano ed evitare un incendio regionale
Joe Biden a bordo del Air Force One con i giornalisti - foto Ap
In che cosa si è risolta la mediazione di Biden in Medio Oriente? In un nuovo banchetto di aiuti militari che nelle intenzioni legano strategicamente il Medio Oriente all’Ucraina e all’Estremo Oriente. Come anticipavano le reti tv Usa, dallo studio Ovale nella notte Biden ha annunciato un richiesta della Casa Bianca al Congresso di oltre 100 miliardi di dollari da destinare alla fornitura di aiuti e risorse militari a Ucraina (60), Israele (40) e Taiwan, e al rafforzamento del confine tra il Messico e gli Stati Uniti. Che nel frattempo mettevano il veto al Consiglio di sicurezza Onu sulla proposta di tregua umanitaria. Il presidente sostiene che i conflitti in Ucraina e Israele costituiscano questioni di sicurezza nazionale per gli Stati Uniti. Peccato che mentre si incontravano Putin e Xi Jinping, nessuno a Washington sia in grado di spiegare come mai Israele non mette sanzioni a Mosca e Netanyahu tenga vivo da anni il patto con la Russia che gli consente di bombardare Hezbollah e Pasdaran iraniani in Siria.
SE IL VIAGGIO DI BIDEN sia stato un fallimento completo lo sapremo tra pochi giorni rispetto a due obiettivi. Il primo è quello di contenere l’esercito israeliano. Biden non contesta certo a Israele il diritto di difendersi ma gli chiede di rispettare il diritto di guerra. Il secondo obiettivo è quello di evitare un incendio regionale. Il coinvolgimento militare Usa nella regione – due portaerei nel Mediterraneo orientale, bombardieri in Giordania e soldati pronti a intervenire – è un messaggio all’Iran: l’apertura di un fronte a nord con Hezbollah avrebbe conseguenze gravi. La realtà del Medio Oriente gli è esplosa davanti. I razzi sull’ospedale di Gaza provocando una strage hanno fatto saltare il summit di Amman con il re hashemita Abdallah, il capo dell’Anp Abu Mazen e il generale-presidente egiziano Al Sisi – vertice già complicato per la reazione ai raid indiscriminati sui civili palestinesi. Biden è decisamente un mediatore mancato. E gli Stati uniti da anni, del resto, non sono un mediatore credibile in Medio Oriente. Mentre le piazze arabe si infiammavano contro Israele e i suoi alleati, i leader arabi hanno voltato le spalle a Washington e alla sua fallimentare politica di questi anni che a cominciare con Trump aveva riconosciuto Gerusalemme capitale di Israele, favorito il cosiddetto “Patto di Abramo” tra le potenze arabe e Tel Aviv, fino a cancellare del tutto la questione palestinese, come se non fosse mai esistita dal 1948 a oggi.
SE CANCELLARE IL PASSATO è difficile, lo è ancora di più eliminare le memorie più recenti dei fallimenti americani e occidentali in Medio Oriente, dall’Afghanistan all’Iraq, dalla Siria alla Libia, con una profondità strategica che va dal Golfo Persico al Sahel, passando per il Corno d’Africa, il Sudan e la Somalia. Chi ha visto sul fronte di guerra questi passaggi drammatici lì ha ben presenti. Soltanto l’arroganza, o l’ignoranza, può suggerire che gli arabi non se ne siano accorti.
E così il mondo arabo reagisce. Forse il più duro, nei fatti, è stato proprio il generale Al Sisi (che ieri ha ricevuto il premier britannico Sunak) nemico giurato dei Fratelli Musulmani (ma anche dell’opposizione democratica) che a dicembre ha convocato elezioni presidenziali anticipate. L’Egitto, dato non secondario, è dopo Israele il secondo destinatario degli aiuti militari americani in Medio Oriente e uno egli Stati della regione che intrattiene cordiali rapporti con la Russia di Putin. L’Egitto non ha alcuna intenzione di accogliere gli sfollati in fuga dalla Striscia di Gaza e ha deciso di convocare sabato un summit internazionale per discutere del futuro della questione palestinese.
AL SISI È STATO CHIARO: non vogliamo vedere quanto accadde nel 2008, quando nel corso di un ennesimo blocco della Striscia gli uomini di Hamas abbatterono 200 metri del muro di confine che compone il valico di Refah. Un fiume di circa 350mila palestinesi riuscì a sconfinare in Egitto per sfuggire al blocco applicato da Israele 6 mesi prima, quando gli stessi miliziani di Hamas, con un’azione di forza, avevano assunto il controllo dell’intera Striscia. Non c’è diplomazia che tenga quando è in gioco la sopravvivenza delle leadership arabe. «Se c’è un’idea per sfollare la popolazione di Gaza, c’è il deserto del Negev in Israele», ha affermato con durezza al Sisi nella conferenza stampa con il cancelliere Scholz. L’eventuale sfollamento in Egitto dei circa 1,1 palestinesi in fuga dalla parte settentrionale della Striscia «sarà seguito dallo sfollamento dei palestinesi dalla Cisgiordania alla Giordania», ha aggiunto il leader egiziano che in piena campagna elettorale non può cedere di un millimetro.
L’UNICO OBIETTIVO strategico di Tel Aviv, condiviso a questo punto anche dagli americani, oltre a far fuori Hamas, è quello di gettare i palestinesi nel deserto egiziano del Sinai. E se Israele non occupa la Striscia, svuotata di metà della sua popolazione, a chi andrà questo lembo di Palestina? A un screditata Autorità nazionale palestinese? A un protettorato dell’Onu stile Kosovo? Nessuno lo sa dire perché tra Washington e Tel Aviv nessuno ha mezza idea strategica di cosa fare, se non cacciare i palestinesi insieme ad Hamas.
Persino gli americani si sono accorti di questo abominio. Scrive Richard Haas presidente del conservatore Council of Foreign Relations: «Gli Usa devono guardare oltre la crisi facendo pressioni sugli israeliani affinché offrano ai palestinesi un percorso pacifico e fattibile verso la creazione di un nuovo Stato». Niente di più, niente di meno
Commenta (0 Commenti)Per una parte consistente delle famiglie, quello che resta dopo aver soddisfatto i bisogni primari è irrisorio o negativo. I cittadini devono scegliere se nutrirsi, riscaldarsi o curarsi. È su un’economia fondamentale accessibile e di qualità che si fonda il benessere condiviso e, in ultima analisi, il grado di civiltà di un Paese
Nei sondaggi e nelle agende politiche degli ultimi mesi emerge un dato che sarebbe un errore trascurare: accanto al tema del reddito (insufficiente e incerto), in cima alle preoccupazioni di cittadine e cittadini si collocano la questione del caro-vita e quella dell’accesso alla sanità.
La sensazione che si consolida è che le rivendicazioni sul reddito e sulla stabilità dell’occupazione, quand’anche avessero risultati meno modesti di quelli consueti, non sarebbero comunque sufficienti a far fronte alla «crisi di vivibilità» che viene sperimentata da individui e famiglie. Che si tratti di una vera e propria crisi della vivibilità quotidiana lo mostrano i dati elaborati dal Collettivo per l’Economia Fondamentale sul «reddito residuo», inteso come quel che resta del reddito netto delle famiglie una volta che si siano sottratti i costi dei beni e dei servizi fondamentali. In Italia, prima della crisi acuta del costo della vita registrata nel 2022, il quintile più povero della popolazione – il 20% della popolazione che spende complessivamente meno – destinava a soli quattro beni fondamentali (cibo, abitazione, utenze e trasporti) ben il 72% della spesa mensile complessiva. La percentuale è arrivata all’82% dopo la fiammata inflazionistica del 2022.
Negli altri paesi dell’Europa occidentale – sebbene l’aumento sia stato paragonabile – l’incidenza della spesa per i quattro beni fondamentali sul totale della spesa è tendenzialmente più basso: 78% in Germania, 63% nel Regno Unito, 55% in Francia e in Austria. Benché il costo della vita sia aumentato per tutti, sono le famiglie più povere quelle sulle quali l’incidenza è maggiore: minore è il reddito, maggiore è la porzione dello stesso che deve viene «consumata» per rispondere a bisogni essenziali. Ad esempio, in Italia il 20% di famiglie che ha una più bassa spesa mensile (primo quintile) spende per generi alimentari, in termini assoluti, circa la metà del quintile più abbiente, ma per le prime la spesa alimentare equivale a circa il 25% della spesa totale, per le famiglie più benestanti equivale a circa il 13%. Se ai quattro beni e servizi considerati in quest’analisi se ne aggiungono altri egualmente essenziali, come la sanità o l’assistenza, si comprende facilmente che per una parte consistente delle famiglie – in Italia in particolare – il reddito che resta dopo aver soddisfatto i bisogni primari è irrisorio, e talora negativo, ovvero tale da costringere i cittadini a scegliere se nutrirsi, o riscaldarsi, o curarsi.
È importante notare che l’aumento dei costi dei beni e dei servizi essenziali è una tendenza di lungo corso, conseguente ai processi di privatizzazione e deregolamentazione delle attività economiche fondamentali e alla nascita della «cittadinanza di mercato». Di fatto, queste attività sono da tempo gestite come qualsiasi altra attività economica volta alla massimizzazione del profitto, spesso riducendo i costi del lavoro e incrementando il rendimento del capitale investito. Per esempio, il settore immobiliare ha conosciuto, soprattutto nelle grandi città, una trasformazione radicale che ha portato a una crescita esponenziale della rendita urbana, a danno dell’accessibilità alle abitazioni.
Alla luce di queste tendenze, dobbiamo prendere atto che la questione del lavoro e del reddito non è l’unica questione aperta per la sinistra, perché la sottoccupazione, la disuguaglianza e la povertà producono effetti devastanti soprattutto laddove mancano infrastrutture collettive in grado di sostenere un adeguato livello di benessere per tutti. Se i settori economici fondamentali non producono beni e servizi universalmente accessibili dal punto di vista economico e ben distribuiti nei luoghi di vita, nessun reddito, tantomeno i più bassi, può garantire un solido benessere.
Dobbiamo constatare che affidare la soddisfazione dei bisogni essenziali al mercato è un modello di cittadinanza che ha radicalmente fallito. Si apre qui uno spazio di azione decisivo per un riformismo radicale, sul quale si può costruire un’agenda condivisa da un ampio spettro di forze politiche, di movimenti, di soggetti associativi e alleanze civiche, di attori del terzo settore e, non da ultimo, di sindacati.
L’intero spazio dell’economia fondamentale – dalla sanità, all’alimentazione, alla casa, all’assistenza, all’energia, ai trasporti – è da ripensare e rifondare: è su un’economia fondamentale accessibile e di qualità che si fonda il benessere condiviso e, in ultima analisi, il grado di civiltà di un Paese. Come costruirla è una questione che riguarda scale territoriali, modelli regolativi e dimensioni organizzative diverse: da quella dell’auto-organizzazione locale, a quella prettamente politica della regolamentazione e della qualità dell’intervento pubblico su scala nazionale, a quella della costruzione di beni pubblici transnazionali su scala europea.
Una sfida del tutto aperta, che dovrebbe essere messa esplicitamente al centro di un’agenda politica di sinistra
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GUERRA E CAOS GLOBALE. Non è più un rischio ma una certezza: gli sviluppi della crisi in Medio oriente sono del tutto fuori controllo. E così le loro conseguenze nel mondo intero. Saltano vertici, […]
Non è più un rischio ma una certezza: gli sviluppi della crisi in Medio oriente sono del tutto fuori controllo. E così le loro conseguenze nel mondo intero. Saltano vertici, si spezzano alleanze politiche, le piazze mediorientali ribollono, i lupi islamisti tornano a colpire in Occidente, la diplomazia è messa all’angolo a suon di bombe. Tutto resta appeso al filo dell’imprevisto.
Così come imprevista è stata, nel suo orribile svolgimento, l’aggressione che ha segnato l’inizio della guerra, per gli aggrediti e perfino per gli aggressori stessi. A nessuna delle molte domande che si affollano esiste una risposta plausibile. Non sul futuro della striscia di Gaza, su cosa significhi annientare Hamas con il vasto retroterra fondamentalista – trasversale a stati, movimenti e comunità – che lo sostiene e alimenta e che non mancherebbe di riprodurlo in altre forme una volta smantellato dalle armi israeliane. Non sull’immagine internazionale di Israele, sempre più compromessa con il crescere delle vittime civili a Gaza, o sulla posizione dello stato ebraico nella regione mediorientale che, in seguito a una guerra spietata con costi umani esorbitanti e azioni irresponsabili, è sull’orlo di una conflagrazione generale. Nemmeno sulla stessa sicurezza di Israele, intesa come condizione stabile e non come perenne prova di forza nell’alterna condizione di assediati o di assedianti. Per non parlare di ciò che attende l’insieme della popolazione palestinese, ancora una volta in ostaggio di tutti.
Non vi sono risposte perché gli eventi travolgono gli stessi attori, nascono certamente da una storia che può essere ricostruita, ma non basta quella storia (con i torti e le ragioni che i contendenti possono desumerne) a spiegarli, né gli interessi materiali né i fattori culturali. La violenza finisce coll’emanciparsi dalle sue stesse cause e motivazioni, nutrita da una somma di esperienze singole e vissuti individuali che si agglutinano in una massa critica, sempre pronta a diventare massa di manovra. Così prende forma una violenza post politica, tanto più
Leggi tutto: L’imprevisto della violenza senza politica - di Marco Bascetta
Commenta (0 Commenti)ISRAELE/PALESTINA. Intervista alla scrittrice palestinese: «Quelle immagini ci riportano al 1948. Invece di mettere sotto inchiesta Netanyahu, attaccano i civili di Gaza. Lo scopo è sbarazzarsi di Hamas? Non sono una sostenitrice di Hamas, ma so leggere la realtà: continuerà a esistere»
Palestinesi in fuga dal nord della Striscia di Gaza - Ap/Hatem Moussa
Nel suo ultimo romanzo, Storia di un abito inglese e di una mucca ebrea, Suad Amiry fa quello che fa da tanti anni: racconta, con un’ironia che è solo sua, il trauma individuale e collettivo della Nakba del 1948, la catastrofe del popolo palestinese, la cacciata dalle proprie terre dell’80% della popolazione palestinese dell’epoca, tra 800mila e un milione di persone.
Nipote di rifugiati, rifugiata lei stessa, architetta e scrittrice, Amiry è autrice di opere fondamentali della narrativa palestinese, da Murad Murad a Sharon e mia suocera.
I volantini lanciati venerdì sul nord di Gaza dall’esercito israeliano – andatevene per la vostra sicurezza, tornerete a operazione conclusa – hanno fatto subito rivivere ai palestinesi quanto avvenuto 75 anni fa. Che ruolo ha l’immaginario dell’esodo e della diaspora sulla popolazione di Gaza e su chi vive fuori?
La cosa che mi ha più addolorato è stato vedere i palestinesi del nord di Gaza lasciare le loro case, per non andare da nessuna parte. Mi ha fatto rivivere il 1948. Abbiamo sempre detto che non ci sarebbe mai stato un altro 1948, un altro abbandono delle nostre case. Ed ora lo vediamo in tv. Da bambina chiedevo sempre con rabbia ai miei genitori perché se ne fossero andati. Abbiamo sempre dato la colpa alle generazioni dei nostri genitori: perché ve ne siete andati? È un sentimento profondamente radicato. E lo riviviamo oggi: un milione di palestinesi è esattamente lo stesso numero che se ne andò nel 1948. E queste persone sono profughi del 1948. Posso capire che se ne vadano. Un mio amico mi ha detto: «Se gli israeliani mi dicono che bombarderanno la mia casa, prenderò le mie due figlie e me ne andrò, perché sono un padre e sono un essere umano». In tutte le guerre la gente scappa. Nessuno guarda alla morte e la aspetta. È un’immagine fortissima per i palestinesi perché richiama l’inizio del conflitto. Tutti oggi affrontano il conflitto come se fosse iniziato il 7 ottobre. Ma queste persone che lasciano le loro case riportano al 1948. Dopo 75 anni ci saremmo aspettati che il mondo dicesse a Israele che non si possono sradicare le persone dalle loro terre senza subire condanne.
Gli chiedono di spostarsi a sud di Gaza, ma anche lì non ci sono rifugi sicuri.
Queste persone a cui gli israeliani chiedono di andare a sud sono originarie di città venti chilometri a nord della Striscia, Ashkelon, Ashdod. Se volete proteggerli, riportateli nelle loro case, a cui appartengono. Non chiedete all’Egitto di aprire il confine e di prenderli. Israele vuole cacciare i palestinesi e chiede ad altri Paesi di assumersi la responsabilità dei suoi atti criminali. Abbiamo bisogno di una soluzione politica. Senza porre fine all’occupazione, senza porre fine all’assedio di Gaza, senza lo stop agli insediamenti in Cisgiordania, senza fermare i coloni e le loro violenze, non ci sarà una fine. Cosa si aspettano da noi? Come possiamo resistere a tutto questo, ogni giorno, da 50 anni? Questa è la domanda che dobbiamo porci. Se non avremo una soluzione politica, vi assicuro che ci sarà un altro ciclo di ostilità.
Lei viaggia molto, ha una casa in Italia, in questo momento è negli Stati uniti. Come legge la reazione internazionale?
Siamo lasciati a morire, non importa a nessuno. Questo è il messaggio che l’Europa e l’America ci stanno inviando. Non hanno valori. Dateci una guida su come resistere e noi la seguiremo. Ciò che mi fa arrabbiare più degli attacchi israeliani è l’animosità europea e statunitense contro i palestinesi. Il mondo assiste a bombardamenti di edifici con le persone dentro e si limita a guardare. Ora sono negli Usa: il sentimento contro i palestinesi è incredibile. In Germania cancellano la partecipazione a un festival letterario di Adania Shibli. Shibli è una scrittrice, una donna pacifica. La stessa cosa in America: c’è stato un festival letterario all’Università della Pennsylvania a cui ho partecipato, stanno chiedendo alla direttrice di dimettersi perché ha ospitato dei palestinesi. Qualsiasi cosa facciamo, veniamo criticati. Se andiamo a un festival letterario, veniamo attaccati. Se vinciamo un premio letterario, veniamo attaccati. Se a Gaza la gente si impegna in manifestazioni pacifiche per mesi, nessuno si chiede perché, nemmeno ne parla. E ora tutto il mondo è in rivolta contro di noi: non siamo uguali nella morte e non siamo uguali nella vita.
Lei ha vissuto la prima Intifada e il processo di Oslo. Né disobbedienza civile popolare né dialogo funzionarono.
Ho vissuto la prima Intifada quando Rabin faceva spezzare le ossa ai bambini perché lanciavano pietre. E ho partecipato ai negoziati per tre anni con la squadra palestinese a Washington. Ci facevano perdere tempo. Venivano nella stanza e dicevano: oggi discutiamo di come dividerci le zanzare, argomenti senza senso solo per perdere tempo. Come se noi palestinesi venissimo dalla luna. Siamo le persone che vivono in questo Paese da sempre. Qual è la nostra colpa, esattamente? Quando si vive una vita senza giustizia, senza uguaglianza, si impazzisce. Hanno passato 20 anni a negoziare con noi in modo insensato per arrivare a Oslo, che significava transizione per cinque anni. E i cinque anni sono diventati 30. Cosa vogliono, uno Stato unico? Siamo pronti. Uno Stato unico con pari diritti? Siamo pronti. Ma Israele non lo vuole. Due Stati? Noi siamo pronti, ma loro non lo vogliono. Vogliono continuare a occuparci e pretendono che restiamo zitti. Non sto dando la colpa agli israeliani, sto incolpando gli europei per la loro posizione: la prima cosa che l’Europa ha detto dopo il 7 ottobre è stato proporre il taglio degli aiuti ai palestinesi. Come può questo aiutare la pace? Dovremmo cercare delle soluzioni. Non dovremmo continuare solo a condannare Hamas o a condannare gli israeliani. Condannare è una posizione da intellettuali. Voglio che l’Europa si alzi in piedi e dica: come poniamo fine al problema?
Si dovrebbe tornare alla radice?
Trattano la situazione come se la storia fosse iniziata il 7 ottobre, come se non ci fosse una storia di occupazione di decenni. Condanno sicuramente e con forza qualsiasi uccisione di civili. Ma a livello militare, gli israeliani hanno fallito tremendamente nel proteggere il loro stesso popolo. Non riesco ancora a capire come Hamas abbia potuto fare tutto quello che ha fatto senza che gli israeliani intervenissero per 4 o 5 ore. E ora, invece di mettere Netanyahu sotto inchiesta, attaccano i palestinesi. Netanyahu dovrebbe essere imprigionato per la crudeltà che esercita sulla sua stessa società e su di noi. Quanto è eroico attaccare civili dall’alto per compiacere il proprio popolo? Qual è lo scopo di tutto ciò, sbarazzarsi di Hamas? Posso assicurarvi che Hamas continuerà a esistere. Non sono una sostenitrice di Hamas, ma so leggere la realtà
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bombardamenti sulla striscia di Gaza, i resti della torre Al-Aklouk
«Una notte d’inverno mi toccò il turno di guardia con Efraim Avneri… nella notte non vedevo il suo volto però colsi un’ombra di ironia sovversiva nella sua voce, quando mi rispose:
<Assassini? Ma che ti aspetti da loro? Dal loro punto di vista noi siamo extraterrestri giunti dallo spazio a sparpagliarci sulla loro terra, …. E con l’astuzia ci accaparriamo un appezzamento dopo l’altro del loro suolo. Dunque che cosa vorresti? Che ci ringraziassero della nostra bontà d’animo? Che ci venissero incontro suonando le fanfare? Che ci porgessero rispettosamente le chiavi di tutto Il paese perché i nostri avi un tempo vivevano qui? C’è forse da stupirsi se hanno imbracciato le armi contro di noi? E adesso che abbiamo inferto loro una sconfitta schiacciante, e centinaia di migliaia di loro da quel giorno vivono nei campi profughi, ti aspetti forse che condividano la nostra gioia e ci augurino ogni bene?>
Gli risposi:
<….stando così le cose, perché mai sei qui a fare la ronda, armato? Perché non te ne vai dal paese? O prendi l’arma e passi a combattere dalla loro parte?
Dentro il buio sentii il suo sorriso triste:
<Dalla loro parte? Dalla loro parte mica mi vogliono, in nessun posto al mondo mi vogliono. Nessuno mi vuole. La questione sta tutta qui. Ce n’è già troppa dappertutto di gente come me. Solo per questo mi trovo qui. Questa è l’unica ragione per la quale porto un’arma, perché non mi caccino pure di qui. Ma la parola assassini non la userei mai per degli arabi che hanno perduto i loro villaggi.
Dei nazisti lo dico senza esitazione. Di Stalin, pure. E di tutti coloro che espropriano terre altrui.>»
(Amos Oz: Una storia di amore e di tenebra, Feltrinelli, 2005 pagina 514)
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«Atalya lo guardò in tralice, dalla chaise long, e come sputando le parole tra le labbra disse: Volevate uno stato? Volevate l’indipendenza? Bandiere e divise e banconote e tamburi e trombe. Avete sparso fiumi di sangue innocente avete sepolto un’intera generazione. Avete cacciato centinaia di migliaia di arabi dalle loro case, avete spedito navi intere di immigrati sopravvissuti a Hitler dritto dal capannone di accoglienza ai campi di battaglia. Tutto per avere qui uno stato di ebrei. E guardate che cosa avete ottenuto.”»
(Amos Oz: Giuda Feltrinelli, 2014 pagina 200)
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Il pogrom organizzato da Hamas (di un pogrom infatti si tratta, non di un’azione di guerra) non si è rivolto contro lo stato di Israele, contro l’esercito di Israele, ma contro i ravers, le donne, le comunità dei villaggi. Si è trattato di un’azione abominevole, ma non la possiamo condannare senza al tempo stesso comprendere il contesto in cui è maturata. Questo contesto è la vendetta di tutti contro tutti. Questo contesto è una guerra frammentaria e globale in cui si scontrano ormai soltanto nazisti contro nazisti.
È il frutto avvelenato della vittoria del nazionalismo contro l’internazionalismo.
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Dal 7 agosto del 2023 ho cominciato a tenere il conto delle aggressioni dei coloni israeliani contro i contadini palestinesi e delle violenze dei soldati di Tsahal contro i giovani rinchiusi nei territori occupati o nel campo di concentramento di Gaza, e delle profanazioni degli ultra-ortodossi contro i luoghi sacri agli islamici sulla Spianata delle Moschee.
Principale fonte delle informazioni è l’agenzia ANBAMED, curata da Farid Adly.
La stampa italiana che definisce terroristi i militanti di Hamas non ha mai definito terroristi gli israeliani che uccidono a sangue freddo civili disarmati e distruggono quotidianamente le abitazioni e sradicano gli olivi.
Io so che Hamas è un’organizzazione islamista sostenuta dai massacratori iraniani. So benissimo che la loro azione si fonda su un’ideologia violenta di vendetta.
Ma so anche che la vendetta è tutto quel che rimane a chi è oggetto di violenza e di umiliazione sistematica. Chi vive sotto la minaccia costante, chi ha subito la distruzione della casa, chi ha un fratello incarcerato senza motivo, non può che desiderare la vendetta.
L’umiliazione genera mostri, dovremmo saperlo.
L’umiliazione dei proletari tedeschi dopo il Congresso di Versailles generò il mostro Hitler.
L’umiliazione degli ebrei sterminati da Hitler e abbandonati da tutti gli stati europei generò il mostro dello stato etnico militarista e colonialista di Israele.
L’umiliazione dei palestinesi schiacciati dalla preponderanza militare dei sionisti ha generato Hamas.
Ma la storia del secolo ventesimo avrebbe dovuto insegnarci che se applichiamo il principio biblico: Occhio per occhio, quel che ne segue è che tutti diventiamo ciechi. Ciechi sono i palestinesi, ciechi sono gli israeliani. Ciechi sono i russi e ciechi gli ucraini.
Invece no. Dopo la fine dell’internazionalismo brancoliamo in un mondo di ciechi che si azzuffano nel buio eterno del Nazismo onnipresente.
Dal libro dell’Esodo (cap. XXI):
Quando alcuni uomini rissano e urtano una donna incinta, così da farla abortire, se non vi è altra disgrazia, si esigerà un’ammenda, secondo quanto imporrà il marito della donna, e il colpevole pagherà attraverso un arbitrato. Ma se segue una disgrazia, allora pagherai vita per vita: occhio per occhio, dente per dente, mano per mano, piede per piede, bruciatura per bruciatura, ferita per ferita, livido per livido.
Qui sotto potete leggere le notizie che la stampa occidentale (cieca) non vi ha dato nei due mesi che precedono la vendetta di Hamas.
LEGGI TUTTO L'ARTICOLO su EFFIMERA
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LA SORPRESA DELLA GUERRA. Dialogo dietro le quinte con gli Usa per contenere il conflitto e tour regionale per rafforzare le alleanze. E un costante avvicinamento alla Cina
Il ministro degli esteri iraniano Amirabdollahian a Beirut - Ap
Una seconda guerra in Medio Oriente dopo quella in Ucraina è l’ultima cosa che vuole l’amministrazione statunitense. Non è un caso che Biden, pur mostrando i muscoli e schierandosi completamente con Tel Aviv, cui promette ogni sostegno dichiarando di poter fare due guerre in una volta, abbia messo in guardia Israele dall’idea di occupare Gaza. E forse anche l’Iran non ha intenzione di allargare il conflitto al nord del Libano facendo leva su Hezbollah.
Il rischio di una escalation con Israele è alto ma Washington e Teheran si parlano «in via privata», così sostiene il Financial Times. Certo la diplomazia iraniana sta lavorando a tutto spiano per rinsaldare il cosiddetto «asse della resistenza», quella Mezzaluna sciita protagonista ormai da anni in Libano, Siria, Iraq, Yemen.
L’Iran, dopo la rivoluzione del 1979 e soprattutto dopo l’attacco subito a sorpresa nel 1980 da Saddam Hussein, è sempre sul piede di guerra o comunque pronto a sfruttare gli esiti di un conflitto nella regione: a volte non deve neppure fare troppo per cogliere il risultato, come nel 2003 quando l’invasione statunitense dell’Iraq ha regalato il Paese all’influenza sciita e iraniana.
OGGI I 240MILA miliziani delle Forze di mobilitazione sciite, che hanno contribuito a sconfiggere il «califfato» sunnita, costruite sul modello delle guardie della rivoluzione iraniane, sono la forza predominante del Paese. Per non parlare di Hezbollah in Libano, movimento di guerriglia e politico, dove il suo capo Nasrallah ha un coordinamento strategico con la Guida suprema Khamenei.
Hezbollah, dopo la guerra del 2006 contro Israele che lasciò il Libano distrutto e in ginocchio (come del resto lo è oggi economicamente), toccò il massimo della sua popolarità nel mondo arabo, per essere poi decisivo nel sostegno dal 2011 al regime dittatoriale siriano di Bashar Assad che si è tenuto in piedi grazie all’Iran e alla Russia (dal 2015).
Il ministro degli esteri iraniano Hossein Amirabdollahian da giorni sta facendo il giro dello sciismo militante a cui Teheran fornisce armi, addestramento e denaro. È stato a Baghdad, Beirut, Damasco. Obbligato anche a qualche deviazione improvvisa quando Israele ha deciso di bombardare le postazioni Hezbollah e pasdaran in Siria tra Aleppo e Damasco.
Quando gli israeliani entrano in azione i rappresentanti della Repubblica islamica non sono mai al sicuro. Non è forse un caso che sia finito in questi giorni in terapia intensiva a Teheran l’agente iraniano Mohammed Akiki: l’ultimo attentato del Mossad era stato nel 2022, in un lunga lista di ufficiali iraniani eliminati in cui spicca nel gennaio 2020 il generale Qassem Soleimani, un’operazione congiunta tra Usa e Israele, che fece fuori il maggiore stratega di Teheran.
Il ministro iraniano ha fatto tappa anche a Doha dove ha incontrato il capo politico di Hamas Ismail Haniyeh – esaltando l’operazione del 7 ottobre – ma ha anche visto i banchieri che in Qatar detengono quei sei miliardi di dollari iraniani scongelati recentemente dagli Usa.
Contrariamente a quanto dicono a Washington, gli iraniani si stanno preparando a incassarli insieme ad altri dieci miliardi di dollari depositati da Teheran nelle banche irachene.
In un Medio Oriente dove si è costretti a seguire i solchi tracciati nel sangue dei popoli, ogni tanto bisogna anche seguire altre tracce, come quelle lasciate dai soldi indispensabili a volte per fare la differenza tra la pace e la guerra.
CERTO l’ambiguità sui piani di Teheran in Libano al riguardo di uno scontro con Israele resta assai marcata. Il presidente iraniano Raisi in un colloquio con il francese Macron ha affermato che «i gruppi della resistenza hanno preso le loro decisioni», però si è smarcato su un coinvolgimento diretto di Teheran.
Del resto quanto è ambigua la Russia e il rapporto stesso tra Putin e Netanyahu? Nonostante Putin abbia appoggiato la causa palestinese, la Russia continua, da anni, a fare finta di niente quando Israele lancia i suoi raid anti-iraniani in Siria dove per altro Mosca ha le sue basi più importanti del Mediterraneo.
Da questo conflitto Teheran guadagna già. Ha portato dalla sua parte Pechino nella solidarietà ai palestinesi; Hamas con lo scioccante e criminale attacco del 7 ottobre ha già fatto saltare l’accordo tra Arabia saudita e Israele; e la Russia di Putin (di cui vedremo le ambiguità) è dalla parte dell’Iran.
La Cina che aveva gestito il riavvicinamento tra Riyadh e Teheran è in questo momento l’attore «nuovo» in Medio Oriente al quale non a caso si è rivolto anche il segretario di stato Blinken. Pechino è il maggiore partner economico della Repubblica islamica, l’Arabia saudita ha un giro d’affari annuo con la Cina di oltre 300 miliardi di dollari l’anno.
CON L’ALLARGAMENTO dei Brics deciso a Johannesburg, gli undici Paesi dell’organizzazione detengono oltre il 50% della produzione mondiale di petrolio. E nessuno di questi Paesi (pur magari condannando l’invasione dell’Ucraina) ha aderito alla narrativa occidentale sulla guerra non imponendo neppure una sanzione a Mosca.
Si corre sul filo in Medio Oriente, come sempre, ma in uno scenario che ha visto prevalere il radicalismo e il fanatismo religioso sia nel mondo arabo che in Israele. Come se – parafrasando il compianto amico Samir Kassir – l’infelicità degli arabi diventasse inevitabilmente anche quella degli israeliani, in un fallimento dello stato moderno e delle ideologie laiche e progressiste che non lascia molte speranze
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