CONSEGUENZE ECONOMICHE. Guerra in Medio oriente, rincari del petrolio, inflazione, crisi in Europa: è questo che ci aspetta?
Guerra in Medio oriente, rincari del petrolio, inflazione, crisi in Europa: è questo che ci aspetta? Un anno e mezzo fa, a partire dalla guerra in Ucraina, la sequenza è stata la stessa. Con il gas al posto del petrolio. All’indomani dell’esplosione del conflitto tra Hamas e Israele i prezzi sono saliti del 20% per il gas e del 5% per il petrolio. Se il gas resta lontano dai picchi passati, tra luglio e settembre i prezzi del petrolio erano già saliti da 70 a oltre 90 dollari il barile, tornando vicini ai 110 dollari dell’inizio della guerra in Ucraina. Pur con riserve energetiche elevate, i prezzi dell’energia potrebbero tornare a colpire.
Il problema è che l’Europa e l’Italia non si sono attrezzate. La guerra in Ucraina ha spinto a diversificare gli acquisti di gas, evitando la Russia, ma l’Europa non ha sviluppato l’uso di energia solare ed eolica, non ha riformato la logica speculativa dei mercati energetici (le scommesse sui futures contano di più degli approvvigionamenti effettivi), non ha limitato i superprofitti e il potere e delle grandi imprese petrolifere (la Exxon sta comprando per 60 miliardi di dollari la Pioneer), non ha introdotto controlli dei prezzi per evitare la diffusione dell’inflazione al resto dell’economia.
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Il risultato è che quest’anno in Italia abbiamo un’inflazione al 6,1%, trainata soprattutto dall’aumento dei prezzi introdotto dalle imprese per proteggere i profitti. Altri paesi hanno fatto meglio; Francia e Spagna hanno posto limiti ai prezzi dell’energia e la loro inflazione nel 2023 è del 5,6 e del 3,5% (dati Fondo monetario). Banca d’Italia prevede la discesa dell’inflazione al 2,4% nel 2024 e all’1,9% nel 2025, addirittura più in fretta della media europea. Difficile che questa riduzione sia confermata.
Di fronte all’inflazione alimentata dalla guerra in Ucraina, la risposta è stata soltanto la stretta della politica monetaria della Banca centrale europea, che in un anno ha portato i tassi d’interesse da zero al 4%. Il rallentamento di investimenti e consumi è stato immediato: le prospettive del Pil dei paesi dell’euro si muovono ora tutte sul filo dello zero. Per la produzione industriale italiana la crisi è già arrivata: quest’estate era sotto di 5 punti percentuali rispetto a prima della guerra in Ucraina (dati Istat). Una caduta di domanda è tanto più grave quanto più urgenti sono le trasformazioni produttive necessarie per ridurre l’intensità energetica e gli effetti sul cambiamento climatico.
Senza crescita, l’erosione dei redditi reali provocata dall’inflazione diventa pesantissima: in Italia nel 2022 e 2023 per i lavoratori dipendenti e i pensionati la perdita di potere d’acquisto è stata dell’ordine del 15%, le disuguaglianze si sono aggravate e poco hanno fatto i “bonus” distribuiti dai governi. Gli effetti dell’inflazione si sono sommati a una caduta di lungo periodo: dal 2008 al 2022 i salari reali italiani erano già diminuiti del 10% (dati Ilo) e diventa così centrale la questione di come tutelarli, attraverso consistenti rinnovi contrattuali e nuove forme di indicizzazione.
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Anche i dibattiti su precarietà e salario minimo andrebbero collocati in questo contesto.
Sul fronte della finanza pubblica, l’aumento dei tassi d’interesse moltiplica gli oneri dovuti sul debito pubblico, mentre si riducono le entrate (tranne quelle che vengono dall’imposizione indiretta dei prodotti energetici). Il risultato è già evidente nella legge di bilancio varata ieri dal governo: non ci sono risorse per assunzioni e stipendi pubblici, la sanità pubblica è allo stremo, i margini per misure redistributive sono stretti, ci si concentra sul “cuneo fiscale” che riduce i costi per le imprese e offre modestissimi aumenti dei salari nominali: una strana politica in cui sussidi pubblici rimpiazzano la scarsa capacità delle imprese di far crescere la produttività.
Ci sono invece i soldi per le armi. Nel decennio 2013-2023 l’aumento in termini reali della spesa militare (dati Nato) è stato in Italia del 26%, e quello dell’acquisto di armamenti è stato del 132%, quando il Pil italiano aumentava nel complesso di appeno l’8%. Ecco il nostro contributo al circolo vizioso tra guerra ed economia
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Alberto Negri ospite a In Onda: “Sono sconcertato […] Sento fare comizi e sento poche cose concrete”.
Commenta (0 Commenti)Eviterei volentieri di intervenire su questioni urbanistiche che riguardano il Comune di Ravenna, ma il senso di responsabilità con il quale in passato, ormai lontano, ho svolto il ruolo di amministratore mi costringe ad alcune precisazioni, anche per rispetto a chi non può più rispondere.
Gli amministratori del Comune di Ravenna, da ultimo il Sindaco in una recente iniziativa pubblica, a fronte delle richieste di spiegazione sull’autorizzazione delle nuove espansioni si giustificano rispondendo che è la conseguenza della pianificazione approvata dalle precedenti amministrazioni. Questo è quanto accaduto anche nei mesi scorsi in occasione della discussione in Consiglio comunale sulla delibera di adozione del comparto PF 04 localizzato lungo lo scolo Lama.
Di fronte ad una scelta che non si condivide mi è stato insegnato che un amministratore è tenuto a dimostrare di aver fatto di tutto per evitarla, diversamente rischia di screditare il proprio ruolo relegandosi a burocrate e rinunciando a perseguire l’interesse della propria Comunità. Questa Amministrazione non solo non si è opposta a quelle scelte, ma le ha promosse.
Il PSC del Comune di Ravenna è stato approvato dall’Amministrazione di cui facevo parte il 27 febbraio del 2007. La pianificazione urbanistica indicata dall’allora vigente L.R. 20/2000 era articolata in tre strumenti distinti: il Piano Strutturale Comunale (PSC), il Regolamento Urbanistico ed Edilizio (RUE) e il Piano Operativo Comunale (POC). Il primo, il PSC, definiva il quadro delle invarianti, dei limiti e dei vincoli territoriali, ed al tempo stesso definiva lo scenario d’assetto futuro, riconoscendo delle vocazioni territoriali la cui attuazione doveva passare forzatamente attraverso il POC, così come disposto dalla L.R. 20 all’art. 28. Occorre altresì ricordare che il legislatore aveva immaginato il POC come strettamente connesso al Programma di mandato del Sindaco, in quanto è lo strumento urbanistico che individua e disciplina gli interventi di tutela e valorizzazione, di organizzazione e trasformazione del territorio da realizzare nell’arco temporale di cinque anni e seleziona e definisce gli interventi da realizzarsi nell’arco di cinque anni (art. 30 della L.R. 20/2000).
La legge regionale quindi non riconosceva capacità conformativa al PSC, vale a dire non produceva effetti immediati, se non per l’apposizione di vincoli non di natura espropriativa, e le previsioni contenute nello stesso PSC potevano essere attuate solo a seguito del loro recepimento nel Piano Operativo Comunale.
Quindi avere portato ad attuazione delle previsioni del PSC è una scelta, non un automatismo, sia perché non è stato modificato il PSC (cosa che in alcuni casi è stata fatta, come nel 2018 quando su richiesta dei proprietari si sono cancellate aree di trasformazione, come se il Piano fosse semplicemente uno strumento di valorizzazione immobiliare!) e sia perché quelle scelte sono state portate a maturazione con il POC, il secondo dei quali è stato approvato nel 2018, dall’Amministrazione guidata dallo stesso Sindaco. Il POC del 2018 ha scelto di confermare i comparti in attuazione del POC 2010-2015, come si legge nella stessa Relazione che accompagna lo strumento.
Mi è chiaro che questo poteva essere complicato per ambiti oggetto di accordo con i privati (c.d. artt. 18), ma il fatto che con il POC alcuni di questi siano stati profondamente rivisti (in alcuni per agevolarne l’attuazione è stato mortificato l’interesse pubblico) è la prova che l’ammissione alla fase operativa poteva essere maggiormente selettiva.
Ci sono poi casi in cui il PSC aveva demandato al POC anche la completa definizione della previsione, è il caso dell’Ambito PF 04 sud, da poco adottato dal Consiglio comunale, che comprende aree a ridosso del canale Lama, recentemente interessato dagli eventi alluvionali. Questo è un ambito non oggetto di accordo con i privati in fase di PSC, per il quale lo strumento generale rinviava completamente le modalità di attuazione alla fase operativa. È del tutto evidente che è stato il POC a decidere di attuarlo, rappresentando così una precisa volontà di questa amministrazione.
Da ex amministratore che vuole bene al nostro territorio tutto questo mi intristisce: mi spiace assistere ad amministratori che rinunciano ad assumere un ruolo attivo nel governare il Comune addossando responsabilità ad altri. In passato il Comune di Ravenna rispondeva alle mutate condizioni ed esigenze del territorio e della propria comunità garantendo un adeguamento della propria strumentazione urbanistica: dal 1973 e fino al PSC si era provveduto, con cadenza decennale. Anche grazie a quell’impegno è stato possibile scongiurare lo scempio dell’Ortazzo e Ortazzino. Questo ha fatto sì che la storia dei Piani di Ravenna non trovi molte analogie nel panorama urbanistico nazionale. Ma non era solo il rispetto di una usanza quanto la volontà di alimentare la fiducia negli strumenti di pianificazione che la nostra comunità ha dimostrato per oltre trent’anni: una idea del Piano quale riferimento fondamentale per il governo del territorio, uno scenario sempre adeguato grazie alla regolarità con cui lo strumento urbanistico generale si aggiornava rispetto alle mutate condizioni territoriali, ambientali, sociali ed economiche e che ha consentito di rispondere alla domanda di flessibilità del Piano con la continuità del processo di pianificazione, senza addossare colpe alle amministrazioni precedenti.
Il Piano Urbanistico Generale, il nuovo strumento urbanistico introdotto dalla L.R. 24/2017 (quella del cosiddetto consumo di suolo zero!), è stato assunto dalla Giunta comunale solo il 14 gennaio 2022, quattro anni dopo l’entrata in vigore della Legge e 13 giorni dopo la scadenza per la presentazione dei Piani attuativi della vecchia pianificazione! Quindi, oltre ad una maggior capacità selettiva del POC, l’assunzione del PUG avrebbe consentito di anticipare la scadenza per la presentazione dei Piani attuativi della pianificazione pregressa: se si fosse proceduto con maggior celerità si sarebbero potuti evitare alcuni di quei Piani attuativi per i quali oggi ci si appella alla pianificazione previgente (il Piano del comparto PF 04 è stato presentato il 30 dicembre 2021).
Fabio Poggioli – ex assessore comunale all’edilizia e urbanistica del Comune di Ravenna
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Bethlehem, un murales di Banksy - foto Gettyimage
Non c’è dubbio che, per Israele, il 7 ottobre 2023 è come l’11 settembre 2001 per gli USA. Se allora un’azione di guerra totalmente inaspettata, promossa dal terrorismo fanatico dell’estremismo di origine wahhabita, aveva per la prima volta nella storia colpito in modo drammatico all’interno del territorio statunitense, aprendo una nuova fase nel mondo, ora il 7 ottobre colpisce per la prima volta su larga scala, con una ferocia mai vista, una larga porzione del territorio di Israele.
L’incapacità di proteggere il Paese – come già fu allora per gli americani- è stata clamorosa e sorprendente, e i giornali israeliani imputano al governo e al premier Netanyahu, impegnato da mesi in un tentativo di imbavagliare la giustizia e di modificare gli equilibri costituzionali, la responsabilità di questo fallimento. Ma ciò che davvero cambia tutto, in ogni coscienza democratica, è la furia nazista e stragista – paragonabile a quella del 2001 di Al Qaeda, al Bataclan nel 2015, al sedicente stato islamico di Daesh negli stessi anni – con cui i terroristi di Hamas hanno condotto un’operazione non militare, contro obiettivi militari, ma di sterminio e di ferocia contro i civili, giovani che stavano ballando, bambini e neonati, violentando e sequestrando centinaia di donne e con loro portando via in ostaggio persone indifese di tutte le età.
Per chi come me, da segretario della Fgci ha promosso una campagna di raccolta fondi chiamata «Con la Palestina nel cuore» all’epoca della prima Intifada (1987), per chi ha partecipato, insieme ai giovani democristiani, socialisti, ebrei alla grande manifestazione per la pace a Tel Aviv in quello stesso anno e poi (1990) alla catena umana di pacifisti israeliani, palestinesi e mondiali attorno alle mura di Gerusalemme, le immagini del 7 ottobre sono un punto di non ritorno. Non ci può essere ambiguità né giustificazione di alcun tipo, a partire dalle violenze sistematiche compiute dai governi israeliani contro i palestinesi.
La vera domanda è come mai, di fronte alla
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Bombardamento israeliano su Gaza - foto Fatima Shbair /Ap
La trappola di Hamas a Gaza è scattata una prima volta e può entrare in azione anche un seconda perché un’azione militare massiccia nella Striscia presenta rischi altissimi che vanno dalla popolazione civile, ai militari, agli ostaggi. Gli esperti israeliani e internazionali ne sono convinti. Come sottolinea Sami Cohen professore a Science Po di Parigi e autore di molti libri sul Medio Oriente e Israele c’è stato un fallimento a due livelli, uno di intelligence, l’altro politico imputabile in gran parte a Netanyahu. Cohen è molto chiaro: i servizi di sicurezza interni, lo Shabak, fino qualche tempo erano ben informati su quanto accadeva a Gaza ma negli anni recenti hanno trascurato le fonti interne ad Hamas per affidarsi alla sorveglianza elettronica e ai “muri”. Un grave errore. Secondo fonti dell’intelligence italiana Hamas in questi anni non ha contato soltanto sul fattore armi ma sul training dei giovani militanti addestrati a fare contro-informazione. Dimenticate gli shabab che tirano le pietre esercitandosi sulle montagne di spazzatura a Jabalya. In poche parole i militanti dovevano far credere agli israeliani che non erano loro il vero obiettivo di Hamas ma l’Anp di Abu Mazen in Cisgiordania dove per altro il movimento nel 2006 aveva vinto le elezioni, oltre che nella Striscia di Gaza.
Ma il fallimento dell’intelligence non è stato casuale. Questi fallimenti derivano spesso da una narrativa politica e militare che distorce la realtà. Basti pensare alla Yom Kippur di 50 anni fa quando gli israeliani disponevano di tutte le informazioni possibili _ e persino della collaborazione di Ashraf Marwan, genero di Nasser come spia a fianco di Sadat – ma secondo la narrativa strategica dei vertici militari ritenevano l’Egitto troppo debole per attaccare.
Il trauma del 1973 è ancora molto vivo e il paragone con il Kippur è immediato perché questo attacco è arrivato proprio il giorno dopo l’anniversario. Stavolta però Israele non si trova a dover affrontare un esercito regolare com’era all’epoca quello egiziano. Deve fronteggiare gruppi di uomini disposti a tutto, armati soltanto di kalashnikov e lanciarazzi, che combattono una guerra di tipo diverso. Il Paese è sotto choc perché il fallimento militare e di intelligence è stato enorme. Soprattutto se si pensa che l’organismo di intelligence militare noto come “Unità 8200” sorveglia la vita dei palestinesi e che Israele controlla tutte le reti telefoniche fisse e mobili, è davvero incredibile che non si siano resi conto che stavano organizzando un assalto di questa portata. In questi anni Netanyahu ha sostenuto con insistenza che Hamas non costituisse un pericolo maggiore per Israele e che non era necessario mantenere una massiccia presenza di intelligence a Gaza. L’obiettivo di Netanyahu era dimostrare anche alla comunità internazionale che i palestinesi non costituivano più un problema per i suoi «piani di pace» perché erano troppo deboli e divisi tra Hamas e Al Fatah.
L’arroganza di Netanyahu sfiora la deriva criminale, secondo il noto giornalista israeliano Merovon Rapoport (Local Call e la rivista online +972 Magazine) che in un’intervista al sito Gariwo afferma: «L’esercito israeliano era ormai concentrato quasi tutto in Cisgiordania. Per proteggere i coloni e gli insediamenti erano stati dispiegati ben trentatré battaglioni mentre lungo la frontiera con Gaza ce n’erano soltanto tre». Vuol dire che lo stesso livello di addestramento dell’esercito non è più paragonabile a quello di una volta, perché negli ultimi vent’anni i soldati sono stati chiamati a svolgere quasi esclusivamente compiti di polizia, ad arrestare bambini o lanciatori di pietre nei villaggi. Si è quindi trovato impreparato a fronteggiare miliziani armati in un conflitto irregolare.
Ma è il dato politico, oltre quello di intelligence e securitario, quello più stringente. Il governo di Netanyahu è dominato – ora nel gabinetto di coalizione per la guerra entrano i militari – da estremisti religiosi ossessionati dagli insediamenti ebraici in Cisgiordania. E tutta questa attenzione è stata la sua rovina: per restare in sella, affrontare i guai giudiziari e dettare la divisiva campagna sulla giustizia aveva bisogno del sostegno di Smotrich e di Ben Gvir, i due “falchi” dell’estrema destra, e questo lo ha condotto insieme al Paese verso il baratro di Gaza. Come uscirne? Una conquista militare di Gaza via terra avrebbe un esito tutt’altro che certo, significherebbe la morte di decine di migliaia di abitanti, quella degli ostaggi e una grave crisi di rifugiati. Hamas non è un esercito, sono formazioni delocalizzate, da guerriglia e terrorismo. Inoltre ora palpabile è il rischio di una guerra regionale su larga scala, con il possibile coinvolgimento di Hezbollah in Libano e perfino della Siria.
Finora tutto ha tenuto grazie al patto tra Russia e Israele che consente allo Stato ebraico di bombardare in Siria i pasdaran iraniani alleati di Mosca e di Assad, come sanno bene tutti, da Teheran ad Ankara. L’unica alternativa al caos è la diplomazia, la ripresa dei negoziati per uno Stato palestinese senza passare attraverso le false e ormai improbabili scorciatoie delle monarchie del Golfo. Altrimenti scatterà la parte due della trappola
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Missili di Hamas su Ashkelon - foto Ap
Non esitiamo a definire l’attacco di Hamas come terrorista e barbaro. Uccidere a sangue freddo civili o sequestrarli, offendere i vinti, devastare i corpi delle donne.
E di chi non è della tua religione, non corrisponde ad alcun principio di liberazione e nemmeno di guerra asimmetrica; al contrario, per la sua efferatezza, rischia di legittimare l’oppressione che si vorrebbe combattere e di alimentare nuovo odio. E non c’è bisogno di ricordare il dolore di nostri interlocutori e collaboratori che in questo momento piangono cari e amici uccisi, per provare orrore. L’unica vera ideologia che sembra sorreggere questo crimine è la «vendetta», così la chiamano, per «l’usurpazione dei luoghi sacri di Al Aqsa», a cui i palestinesi associano i torti, le umiliazioni, le uccisioni subite da chi da decenni sta chiuso nella Striscia di Gaza, definita non a torto «prigione a cielo aperto» per più di due milioni di persone, un orrore esistenziale quotidiano – il manifesto titolò il 7 aprile 2018 Poligono di tiro quando l’esercito israeliano mirava ai corpi di giovani palestinesi indifesi.
Ora si avvia l’operazione militare di Israele che, dalle parole di Netanyahu, anch’essa è motivata dalla «vendetta». Mentre si sprecano gli esempi con l’11 settembre, varrebbe invece la pena ricordare le guerre scellerate che produsse, in Afghanistan – anche quella per «vendetta dell’11 settembre, non per la democrazia afghana» dichiarò Biden nell’estate 2021 del drammatico ritiro Usa-Nato -, e poi in Iraq per le armi di distruzione di massa che non c’erano. Ma l’odio e le distruzioni provocate hanno intanto motivato altro odio, altra vendetta e altro integralismo religioso.
Ma come rispondiamo alla domanda sulla sorpresa? Su come sia stato possibile tutto questo per un rodato e costosissimo apparato di sicurezza riconosciuto come inviolabile nel mondo? Israele si scopre vulnerabile, dov’era l’apparato d’intelligence – e quello Usa anch’esso violato?
Semplicemente non c’era, perché le forze di sicurezza israeliana da mesi sono impegnate nella
Leggi tutto: La vendetta, la sorpresa e la memoria - di Tommaso Di Francesco
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