GOVERNO DEL DEBITO. La banca centrale aumenta i tassi d’interesse, agendo in sostanza come una «scala mobile» dei capitalisti in posizione di credito
Quando Lagarde e gli altri banchieri centrali vi dicono che sono costretti ad alzare i tassi d’interesse per ridurre l’inflazione, vi raccontano bugie. Non sussiste infatti evidenza scientifica di relazioni stabili tra rialzo dei tassi e declino dei prezzi.
Gli economisti usano dire che il canale di trasmissione che va dall’uno all’altro è irto di ostacoli, persino contraddittorio. Basti notare che per molte aziende il tasso d’interesse rappresenta un costo, e quindi un suo aumento può tradursi non in una riduzione ma addirittura in un incremento dei prezzi.
L’unica eccezione documentata di un tangibile effetto anti-inflazionistico è quando il rialzo dei tassi è così violento che l’economia subisce un vero e proprio crollo. Da ciò ovviamente scaturisce un boom della disoccupazione e quindi, a lungo andare, anche un declino dei salari e dei prezzi. Ma questo, se ci pensiamo bene, somiglia un po’ allo strano caso in cui, per risolvere una lieve storta al piede, l’ortopedico ci propone di amputare la gamba. Se questa fosse davvero la ricetta anti-inflazionistica della Bce, potremmo senza indugio definirla una «politica monetaria dell’orrore».
In effetti, dall’austriaco Holzmann all’olandese Knott, vari membri del direttorio di Francoforte non si vergognano di sostenere una tale visione “splatter” della politica monetaria: per loro, pur di abbattere i prezzi, ben venga una grande crisi! Ma al di sotto di questa sanguinolenta interpretazione di superficie, esiste un motivo più profondo per cui i banchieri centrali stanno continuando ad alzare i tassi d’interesse. Il loro vero proposito, infatti, non è di governare l’inflazione, ma di rimediare ad essa.
La Bce cannoneggia la tassa sugli extra-profitti
Lo sguardo dei banchieri centrali è rivolto soprattutto ai danni che l’inflazione arreca ai capitalisti in posizione di credito. L’aumento dei prezzi riduce il valore reale dei rimborsi e degli interessi che i creditori si attendono dai loro debitori. Per compensare tali perdite, i creditori chiedono allora una politica monetaria di aumento dei tassi d’interesse. Chiaramente i debitori protestano, evocando il rischio di insolvenze di massa. Ma la voce dei creditori alla fine prevale: la banca centrale aumenta i tassi d’interesse, agendo in sostanza come una «scala mobile» dei capitalisti in posizione di credito.
Ecco dunque spiegata la continua disputa interna al direttorio della Bce. I media mainstream ce la presentano come una raffinata controversia tecnica tra chi intende combattere l’inflazione e chi vuole evitare la recessione. Ma la verità è che si tratta di un rude scontro politico tra due fazioni del capitale: quelli in posizione di debito che invocano tassi bassi e quelli in posizione di credito che li vogliono alti.
In questa lotta tra debitori e creditori, la collocazione dell’Italia è oggi meno scontata di un tempo. Da un lato, il nostro è un capitalismo assistito che vive di sgravi, sussidi e prebende, e che anche per questo accumula un ingente debito, privato e soprattutto pubblico. Dall’altro lato, però, questo paese ha attuato un’austerity così violenta da schiacciare i redditi interni e quindi anche le importazioni di merci dagli altri paesi, con la conseguenza che da qualche anno siamo diventati creditori netti verso l’estero.
Questa collocazione ibrida dell’Italia, tra credito estero e debito interno, aiuta anche a capire perché l’attuale governo sta manifestando qualche imbarazzo a prendere una posizione netta in tema di tassi d’interesse. Ovviamente, la critica nostrana ai continui rialzi dei tassi decisi dalla Bce non manca. Tuttavia, la voce della protesta italiana appare flebile, al di sotto di quel che ci si attenderebbe dal sedicente governo «anti-banche» di Meloni e soci.
Questa inattesa mitezza verso Lagarde si potrebbe spiegare con le consuete banalità, sostenendo che nel passaggio dall’opposizione al governo è richiesto un cambio di tono. Ma a ben vedere c’è di più. La condiscendenza verso la Bce potrebbe rivelare un cambio più strutturale, nella composizione di classe delle forze reazionarie al potere: la destra di lotta prospera se sostiene i debitori, la destra di governo sopravvive se si mette al servizio dei creditori
Commenta (0 Commenti)Hotspot di Lampedusa strapieno, gestione dell’accoglienza disastrosa, naufraga il memorandum firmato con la Tunisia. Saied vieta l’ingresso a una delegazione europea. Meloni isolata e la Lega l’attacca
IL FALLIMENTO. Le politiche europee e italiane di esternalizzazione dei controlli di frontiera con il coinvolgimento di paesi terzi, ritenuti a torto “sicuri”, sono definitivamente fallite
La tragedia umanitaria in corso a Lampedusa, l’ennesima dalle “primavere arabe” del 2011 ad oggi, dimostra che dopo gli accordi di esternalizzazione, con la cessione di motovedette e con il supporto alle attività di intercettazione in mare, in collaborazione con Frontex, come si è fatto con la Tunisia e con la Libia (o con quello che ne rimane come governo di Tripoli), le partenze non diminuiscono affatto, ed anzi, fino a quando il meteo lo permette, sono in continuo aumento.
Si sono bloccate con i fermi amministrativi le navi umanitarie più grandi, ma questo ha comportato un aumento degli “arrivi autonomi” e l’impossibilità di assegnare porti di sbarco distribuiti nelle città più grandi della Sicilia e della Calabria, come avveniva fino al 2017, prima del Codice di condotta Minniti e dell’attacco politico-giudiziario contro il soccorso civile.
La caccia “su scala globale” a trafficanti e scafisti si è rivelata l’ennesimo annuncio propagandistico, anche se si dà molta enfasi alla intensificazione dei controlli di polizia e agli arresti di presunti trafficanti ad opera delle autorità di polizia e di guardia costiera degli Stati con i quali l’Italia ha stipulato accordi bilaterali finalizzati al contrasto dell’immigrazione “clandestina”. Se Salvini ha le prove di una guerra contro l’Italia, deve esibirle, altrimenti
Leggi tutto: L’imbroglio del governo oltre la propaganda - di Fulvio Vassallo Paleologo
Commenta (0 Commenti)Eventi estremi, territori fragili, dighe che non reggono l’urto dell’acqua. Il nuovo clima mediterraneo va in scena in Libia: il ciclone Daniel ha quasi cancellato la città di Derna. «5mila morti e 15mila dispersi, chiediamo aiuto alla comunità internazionale»
ECOTOMBE. L’area geografica di Derna, travolta da una micidiale e «impensabile» alluvione, è stata negli ultimi dieci anni straziata dalle guerre tra i jihadisti e il generale Haftar
Niente a volte è più ingannevole della geografia. Stretta tra Bengasi e Tobruk, negli anni Novanta Derna mi apparve scendendo dall’altopiano verso il mare alla fine di una gola fatta di pareti verticali percorsa dallo uadi che veniva dal Gebel al Akhdar irrigando palmeti, frutteti, agrumeti.
Credo che oggi, dopo il ciclone Daniel e il crollo delle dighe, nulla esista più di tutto questo. Ma anche allora il Gebel, chiamato anche la Montagna Verde, era un’insidia assai temuta dallo stesso colonnello Gheddafi. Qui si annidavano infatti islamisti e jihadisti che più volte avevano provato ad assassinarlo. Per tenere buona la popolazione locale e contenere la predicazione degli imam qui negli anni Duemila Gheddafi lanciò nel mezzo del ginnasio greco la “Dichiarazione della Montagna Verde”, un grande progetto per di ridare splendore alla regione della pentapoli, un piano ambizioso che come molti altri del regime rimase sulla carta.
Anche questo alla fine era un inganno. Con la fine di Gheddafi nell’ottobre del 2011, in un Paese travolto dall’anarchia, a Derna nel 2015 tornarono i jihadisti: erano i combattenti libici dell’Isis protagonisti delle battaglie a Dayr az Zor, in Siria, e poi a Mosul in Iraq.
LA DESTABILIZZAZIONE scatenata sull’onda dalle primavere arabe del Medio Oriente si allargava alla penisola arabica in Yemen e quindi anche in Africa. Finito il rais libico le frontiere della Jamahyria erano sprofondate nel Sahel con la diffusione del jihadismo, seguita successivamente dai colpi di stato militari: storia di questi ultimi tempi, dal Mali al Burkhina Faso al Niger.
A Derna allora fu issata la bandiera nera del Califfato ed ebbe inizio una lunga sequela di omicidi mirati contro tutti gli oppositori, dai miliziani delle altre fazioni compreso il battaglione Abu Salim, affiliato con al Qaeda – fino agli attivisti, ai giudici, agli avvocati.
La stessa tecnica utilizzata da Ansar al Sharia a Bengasi per togliere di mezzo gli avversari. A Derna l’Isis, allora ancora guidato da Abu Bakr, fece insediare un emirato e la città venne trasformata nella triste e cupa capitale del Califfato in Cirenaica.
DERNA E LA REGIONE erano destinate a diventare un campo di battaglia. Prima tra le milizie islamiste con gli affiliati di Al Qaeda che tentarono la rivincita per far fuori il Califfato. Poi del generale Khalifa Haftar contro tutti i jihadisti e quelli che volevano contrastarlo. La città fu il bersaglio dell’aviazione di Haftar sostenuto da Egitto, Emirati, Russia e anche dalla Francia. Senza contare un discreto appoggio americano visto che il generale aveva passato oltre vent’anni in esilio negli Stati Uniti. Derna fu ridotta in alcune zone della città a un colabrodo: distruzione su distruzione.
NEL MAROCCO COLPITO dal terremoto almeno c’è uno “stato”, una monarchia con il sovrano padre padrone del Paese che però tace. Non come in Libia che dopo la caduta di Gheddafi dopo la rivolta di Bengasi e l’intervento occidentale si è spaccata tra Cirenaica e Tripolitania senza più ritrovare l’unità. Ormai sono due anni che si devono tenere elezioni per riunificare i governi di Tripoli e Bengasi ma francamente il traguardo appare ancora distante.
Il ciclone Daniel con il crollo di due dighe nella regione di Derna ha spazzato via migliaia di vite che da anni vivono in un ambiente tossico: ma chi in questi decenni ha fatto più manutenzione in Libia, se non
Leggi tutto: Il martirio degli ultimi nella Cirenaica dimenticata - di Alberto Negri
Commenta (0 Commenti)INTERVISTA. Il professore di Bologna: «Maggioritario il Pd non lo è mai stato, dunque l’accusa a Schlein di volerlo rimpicciolire è senza senso. Il partito nasce per ingentilire il dominio liberista, se vuole recuperare voti tra chi subisce ingiustizie deve sconfessare il suo passato»
Carlo Galli, già docente di Storia delle dottrine politiche all’università di Bologna. Schlein sta portando il Pd troppo a sinistra rischiando così di avere un partito più radicale e con meno voti?
In realtà la cosiddetta vocazione maggioritaria altro non era che un modo di coprire una linea più moderata ma anch’essa minoritaria. Il Pd, che è sempre stato moderato, da anni non supera il 20% e, per andare al governo, dovrà fare delle alleanze, con il M5S e con formazioni centriste che, però, si muovono spesso anche verso la destra che governa. L’idea di fare del Pd una nuova Dc, interclassista e capace di parlare ad ampi settori della società, non ha funzionato. Dunque l’accusa che Schlein, spostando il baricentro a sinistra, possa far perdere al partito una presunta funzione maggioritaria, è priva di fondamento. Semmai bisogna intendersi su cosa significhi spostare il Pd a sinistra.
Ecco, appunto. Questo movimento è davvero in corso?
Sinistra non vuol dire alzare la voce e avere un atteggiamento poco garbato nei confronti del governo Meloni. Significa accorgersi che ci sono larghi strati della popolazione che vivono una sofferenza economica ma anche civile e democratica. Se Schlein fa questo, e fa mettere al Pd il naso fuori dalle ztl, è senza dubbio un passo avanti. Ma non basta andare incontro a questi “sventurati” con un atteggiamento caritatevole: serve un’analisi critica dei meccanismi che generano l’ingiustizia sociale. E cioè riflettere sul paradigma economica dominante, seppur in crisi, del neoliberismo. Se non si riporta la politica in una condizione di superiorità rispetto all’economia, è impossibile pensare di fermare la crescita delle diseguaglianze. Fare questo non è settarismo.
Partito democratico, opposizione al passato. Il proprio
Schlein parla spesso di correggere l’attuale modello di sviluppo.
Il Pd è nato come un partito che si propone di ingentilire il dominio neoliberista. Credevano, anche in buona fede, che quella fase di sviluppo potesse produrre un po’ di benessere per un grande numero di persone. Non è avvenuto: la qualità della vita e i legami sociali sono andati in crisi. E in una situazione come quella attuale non si può essere il partito dei padroni e dei lavoratori sempre più sfruttati, ed è giusto mettere in cima all’agenda la lotta alle diseguaglianze. Però gli slogan non bastano se si punta a costruire un discorso egemonico: servono proposte di modifica delle strutture delle società, dalla sanità alla scuola al ruolo dello stato in economia. Proposte radicali e al tempo stesso concrete, e facilmente comprensibili. L’insicurezza esistenziale va presa per le corna, non basta nominarla.
La svolta di Schlein non è sufficiente? Eppure subisce già grandi attacchi dai moderati…
L’uscita di un pezzo ceto politico moderato non sarebbe una tragedia, anzi. Al Pd serve un’immagine completamente nuova: da partito pro-establishment a forza critica verso il sistema dominante. E per farlo serve una chiara sconfessione delle scelte passate: un passaggio indispensabile per rivolgersi a chi subisce ingiustizie. Questo, e non genericamente «ceti deboli», è il modo migliore per definire chi vive una condizione di difficoltà. Questo non vuole affatto dire passare da partito grande a piccolo. E Schlein non si può accusare di essere troppo radicale, semmai troppo aerea, poco concreta.
L’anti-Lingotto di Schlein: «Il Pd parli a chi sta in basso»
La segretaria è in grado di fare questo percorso?
Al netto degli slogan, mi pare che sotto il profilo pratico si sia molto legata al sindacato, che pure è parte del problema, perché ha perso il contatto con una larga fetta del mondo del lavoro, quella dei non garantiti. L’esempio del salario minimo è chiaro: prima la Cgil era contraria, poi ha fatto marcia indietro, consapevole che la contrattazione nazionale da sola non basta a garantire salari dignitosi. La linea di Schlein dunque mi pare corretta in astratto, ma non vedo l’apparato teorico e le forza politica necessari perché abbia successo.
Il banco di prova saranno le europee?
Per acquistare credibilità verso i settori sociali più in sofferenza serve tempo. Il Pd non è un partito vergine, non può vantare grandi conquiste o riforme, poi rase al suolo da una destra malvagia. Semmai è vero che un pezzo del popolo ha scelto la destra perché non sapeva più a che santo votarsi. Sulle macerie del neoliberismo la destra prospera. E non basta certo evocare il soccorso verso i poveri per invertire questo trend. Fino a pochi anni in quel partito le parole «liberismo» e «capitalismo» non si potevano neppure pronunciare…
Ci sarà una scissione dei riformisti?
Quel poco di sostanza che resta del Pd, e cioè il blocco emiliano vicino a Bonaccini, non spaccherà il partito. Ricordo però che il termine «riformista» nasce per indicare chi voleva superare il capitalismo con metodi non violenti, in contrapposizione, di metodo ma non di finalità, ai rivoluzionari. Non come oggi per indicare chi vuole smantellare lo stato sociale per lasciare campo libero al mercato.
Schlein riuscirà a recuperare voti nel bacino dell’astensione?
Gli italiani hanno bisogno di esser rassicurati: serve una proposta moderata nei toni e radicale nei contenuti. In fasi come queste eccitare la rabbia sociale non fa gioco alla sinistra ma ad una destra sempre più radicale
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SINISTRA. Contraddizioni di una forza politica che ha scelto di chiamarsi democratica mettendo molto tra parentesi quella parola sinistra che al suo interno viene declinata con tutte le sfumature possibili fino a non avere più colore e senso
Lavoro, scuola, sanità pubblica, diritti, ambiente, accoglienza, pace. Lotta al precariato, all’ingiustizia sociale, al patriarcato. Pensieri lunghi. Tornare vicino alle persone, in basso. Elly Schlein chiudendo la festa dell’Unità di Ravenna disegna il suo partito nuovo e declama la sua linea. Indica una direzione diversa, un altro indirizzo, salvo però aver risposto ai dem liguri usciti dal Pd perché non si sentono più a casa con una leadership che giudicano troppo radicale, di averlo sbagliato loro, l’indirizzo, quando entrarono in casa.
Contraddizioni di una forza politica che ha scelto di chiamarsi democratica mettendo molto tra parentesi quella parola sinistra che al suo interno, fin dalla nascita, viene declinata con tutte le sfumature possibili fino a non avere più colore e senso, quando non provoca un certo disagio.
Da qui deve ripartire la segretaria nella sua opera di ristrutturazione ed è un lavoro magari non impossibile, ma difficilissimo. Non basta recuperare le parole d’ordine della
Leggi tutto: Partito democratico, opposizione al passato. Il proprio - di Micaela Bongi
Commenta (0 Commenti)Educare. Non punire. Se l’abbandono scolastico fosse solo una questione di legalità e ordine pubblico, come sembra voler suggerire il governo, sarebbe addirittura una buona notizia. E invece è una questione di povertà materiale e culturale, di salute mentale, di vite al margine e di disagio. È, spesso, una questione legata a vite dolorose e sofferenti.
Mandare in carcere i genitori i cui figli non vanno a scuola non affronta il problema. È uno slogan facile, tradizionalmente caro alle destre, per alzare la voce, creare nuove e ulteriori esclusioni e non risolvere niente. Una risposta ideologica ed inefficace.
Con il decreto Caivano il governo pensa di inasprire le pene, fino a recludere chi non manda i figli a scuola? A queste ragazze e ragazzi ci penseranno le mafie. Ed ecco come con questa scorciatoia ideologica non si risolve il problema ma lo si aggrava: aumenta lo spazio di agibilità della criminalità organizzata che speculerà ancor di più sulla povertà e rafforzerà il