Il 7 ottobre è un punto di non ritorno. Non ci può essere giustificazione di alcun tipo, a partire dalle violenze sistematiche compiute dagli israeliani contro i palestinesi
Bethlehem, un murales di Banksy - foto Gettyimage
Non c’è dubbio che, per Israele, il 7 ottobre 2023 è come l’11 settembre 2001 per gli USA. Se allora un’azione di guerra totalmente inaspettata, promossa dal terrorismo fanatico dell’estremismo di origine wahhabita, aveva per la prima volta nella storia colpito in modo drammatico all’interno del territorio statunitense, aprendo una nuova fase nel mondo, ora il 7 ottobre colpisce per la prima volta su larga scala, con una ferocia mai vista, una larga porzione del territorio di Israele.
L’incapacità di proteggere il Paese – come già fu allora per gli americani- è stata clamorosa e sorprendente, e i giornali israeliani imputano al governo e al premier Netanyahu, impegnato da mesi in un tentativo di imbavagliare la giustizia e di modificare gli equilibri costituzionali, la responsabilità di questo fallimento. Ma ciò che davvero cambia tutto, in ogni coscienza democratica, è la furia nazista e stragista – paragonabile a quella del 2001 di Al Qaeda, al Bataclan nel 2015, al sedicente stato islamico di Daesh negli stessi anni – con cui i terroristi di Hamas hanno condotto un’operazione non militare, contro obiettivi militari, ma di sterminio e di ferocia contro i civili, giovani che stavano ballando, bambini e neonati, violentando e sequestrando centinaia di donne e con loro portando via in ostaggio persone indifese di tutte le età.
Per chi come me, da segretario della Fgci ha promosso una campagna di raccolta fondi chiamata «Con la Palestina nel cuore» all’epoca della prima Intifada (1987), per chi ha partecipato, insieme ai giovani democristiani, socialisti, ebrei alla grande manifestazione per la pace a Tel Aviv in quello stesso anno e poi (1990) alla catena umana di pacifisti israeliani, palestinesi e mondiali attorno alle mura di Gerusalemme, le immagini del 7 ottobre sono un punto di non ritorno. Non ci può essere ambiguità né giustificazione di alcun tipo, a partire dalle violenze sistematiche compiute dai governi israeliani contro i palestinesi.
La vera domanda è come mai, di fronte alla
crisi irreversibile dell’Anp, il popolo palestinese è diventato il primo ostaggio di questi feroci tagliagole. Ora che si annuncia un’operazione di terra a Gaza, le vittime saranno probabilmente gli ostaggi israeliani presi da Hamas ma anche, sicuramente, il popolo palestinese soggiogato da un regime dispotico e estremista, e che non può neppure fuggire in Egitto, ora che il varco di Rafah è chiuso.
I palestinesi avevano storicamente un’organizzazione politica e una cultura laica, democratica e socialista. Da un lato i paesi arabi confinanti, finanziando piccoli gruppi terroristi, hanno lavorato per decenni per indebolire l’Olp, e quando si è presentata l’occasione di puntare sul radicalismo religioso (erano gli anni 80 del secolo scorso, quando l’Occidente finanziò l’islamismo radicale in Afghanistan contro l’Urss; e per parte sua la teocrazia sciita di Teheran esportò il proprio modus operandi nel mondo islamico), Hamas è via via diventata l’alternativa a una leadership palestinese autorevole e determinata. Dall’altro lato il faticoso processo di pace, culminato negli accordi di Oslo che di fatto aprivano la strada a «due popoli due stati» con l’istituzione dell’Anp, sono stati travolti dall’assassinio di Yitzhack Rabin, nel 1995, troppo presto liquidato come opera di un isolato estremista israeliano di destra. Da quel momento sia Yasser Arafat, che di quegli accordi era stato protagonista, che Shimon Peres, non sono più stati nelle condizioni di portare avanti gli accordi, hanno commesso errori e la parola è tornata da un lato alle azioni di gruppi terroristici e dall’altro alle violenze sistematiche dell’esercito israeliano contro i civili palestinesi e all’occupazione militare.
La seconda Intifada, nel 2000, e poi la scomparsa di Arafat, hanno lasciato campo aperto ad Hamas. Israele ha puntato su Hamas e non sul rafforzamento dell’Anp. La costruzione del muro in Cisgiordania, il confinamento di Gaza consegnando di fatto la striscia ad Hamas che lì aveva la sua forza, e successivamente l’incentivazione agli insediamenti dei coloni hanno definitivamente chiuso le speranze, perpetrando l’occupazione militare dei territori palestinesi. In Israele ha prevalso, rispetto alla tradizione socialista e democratica del sionismo delle origini, una visione nazionalista, populista, radicale e di estrema destra, speculare a quella dell’estremismo islamico.
E oggi siamo qui. Scioccati da questo 7 ottobre, senza parole per le centinaia di civili palestinesi già uccisi nei bombardamenti di vendetta di queste ore, terrorizzati da quello che succederà. Capisco che dire «due popoli, due stati» oggi appaia difficile, insensato. Ma non ci sono alternative. La speranza è che, come ha detto Edith Bruck, dopo le stragi naziste di Hamas non ci sia la vendetta. E che il mondo arabo, la Cina, la Russia, lo stesso Iran, l’Occidente operino per riaprire una prospettiva politica, con un’iniziativa dell’Onu, come richiesto dalle Ong in queste ore. L’accordo tra Israele e Arabia Saudita – obiettivo dell’azione di Hamas – non poteva funzionare senza un forte coinvolgimento palestinese. Occorrerebbe promuovere una Conferenza di pace in Medio Oriente.
È nei due campi, però e soprattutto, che si deve aprire una prospettiva. In Israele, da mesi impegnato in una mobilitazione senza precedenti contro Nethanyau, dopo aver pianto e sepolto i morti delle stragi, deve nascere un nuovo pensiero: la sicurezza militare e tecnologica totale non esiste, se non è accompagnata dalla politica; la sicurezza viene dalla convivenza coi vicini, non dagli armamenti. Nel campo palestinese, dove deve nascere una rivolta contro Hamas, che oggi delegittima la causa ed espone il popolo a ritorsioni incalcolabili. Ci sono le energie per farlo? Nell’Olp o nel mondo giovanile? Esiste un dissenso in Hamas rispetto alla ferocia del 7 ottobre? Non lo so. Ma l’alternativa è la catastrofe. Israele e la Palestina hanno indissolubilmente, a partire da Gerusalemme, città santa per tutti, anche per i cristiani, un destino comune.