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La rivalsa costituzionale targata Meloni

Innanzitutto focalizziamo l’attenzione sull’elemento centrale della “nuova” Costituzione, la sola cosa che interessa alla Presidente del Consiglio: l’elezione diretta (popolare dice la propaganda) del Capo (dell’esecutivo). Nelle promesse elettorali (definire programma qualcosa che è stato finora puntualmente e minuziosamente ignorato nell’azione concreta del Governo di Meloni sarebbe un insulto) FdI parlava di elezione diretta del Presidente della Repubblica ma Meloni si è presto convertita a quella del Presidente del Consiglio raccontandola così: per venire incontro alle “richieste delle opposizioni”. Ma di chi? Fare i nomi per favore, perché di trattative alla luce del sole non si è avuta notizia e l’unico che si è fatto avanti per trattare sembra essere il solito Renzi, porello, che però si lamenta di non essere stato consultato pur essendo disponibile; più che disponibile, pare piuttosto “a disposizione”.

La verità è che da un punto di vista parlamentare ha fatto la scelta più comoda: pochi articoli, apparente riformina puntuale (non è così che la volevate voi “vestali della Costituzione”?), senza toccare, dicono loro, il Presidente della Repubblica. Non certo per sommo rispetto per la più alta carica dello Stato e tanto meno per la persona o la storia politica di Mattarella (quanto di più lontano dal melonismo o dagli aborriti inciuci con i berlusconiani ed i postfascisti), ma solo per la sudditanza che hanno nei confronti dell’unica divinità pagana ancora venerata dalla politica decadente: l’idolo del sondaggismo.

La figura del Presidente della Repubblica, e non solo Mattarella, gode, infatti, da parecchio tempo nei sondaggi di grande favore, (e non sempre per motivi positivi dal punto di vista politico) ed allora diamogli pure una bella fregatura ma senza farcene accorgere, così di soppiatto, “senza toccare nemmeno uno degli articoli della Costituzione che lo riguardano direttamente” come dice la Meloni in persona personalmente (vedi il video iperpopulista diffuso a reti unificate da Palazzo Chigi).

Già, perché stabilire che lo scioglimento delle Camere è obbligatorio dopo il ripetuto voto di sfiducia di una di esse al Presidente del Consiglio acclamato dal corpo elettorale o la singola sfiducia al Presidente del Consiglio di seconda scelta, non significa privare il Presidente della Repubblica della sua prerogativa più importante per gestire i momenti di grave crisi politica e mediare fra Parlamento e Governo del Paese? No? Non basta questo a trasformarlo in un inutile notaio che prende semplicemente atto di quanto, non il popolo, ma il Capo eletto e poi cassato e la vituperata classe politica al potere hanno deciso?

Allora, il punto centrale della riforma è questo: nella forma di governo parlamentare prevista dalla Costituzione democratica

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ISRAELE/PALESTINA. Intervista alla relatrice speciale dell'Onu per la situazione nei Territori occupati palestinesi: «Registriamo un intento eliminatorio molto forte: al cuore sta il legame tra l’intenzione dichiarata dal governo israeliano e la capacità di portare a termine quell’intenzione. Le Nazioni unite vivono il momento peggiore della loro storia: non riescono ad assumere decisioni"

Francesca Albanese EPA/SALVATORE DI NOLFI Francesca Albanese - EPA/SALVATORE DI NOLFI

Francesca Albanese, relatrice speciale Onu sulla situazione dei diritti umani nei Territori palestinesi occupati, nell’ultimo comunicato dei relatori speciali, gli esperti indipendenti e i gruppi di lavoro Onu si parla di crescente incitamento al genocidio nella Striscia di Gaza. Quali elementi dimostrano intenzioni genocidarie da parte di Israele?

In comunicati precedenti abbiamo parlato di grave rischio di genocidio, nell’ultimo di un genocidio in divenire. Ai sensi della Convenzione del 1948 per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio, deve essere presente «l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso», attraverso atti come uccisione e lesioni gravi all’integrità fisica o mentale di membri del gruppo e il sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale. L’intento di distruggere un gruppo in tutto o in parte si evince dai comunicati e dalle politiche e dalla connessione tra ciò che dicono i leader e ciò che fanno gli esecutori materiali, ovvero i soldati. Elementi sono le dichiarazioni dei militari sul campo che dicono di avere l’ordine di distruggere, scacciare e colonizzare, dei rappresentanti del governo che dicono che i palestinesi sono tutti terroristi o tutti animali e quindi devono pagare, ma soprattutto l’intenzione dichiarata dello sfollamento da nord a sud e poi da est a ovest. C’è un intento eliminatorio molto forte. Al cuore sta il legame tra l’intenzione dichiarata e la capacità di portare a termine quell’intenzione.

Le violazioni del diritto internazionale in corso a Gaza sono state denunciate a più riprese dalle Nazioni unite e dalle loro agenzie. Per questo l’Onu sta subendo una delegittimazione molto pericolosa. Quali saranno gli effetti di questa campagna di indebolimento del diritto internazionale e delle sue istituzioni?

Credo che le Nazioni unite stiano vivendo il momento peggiore della loro storia, una crisi apocalittica dal punto di vista politico perché l’organizzazione non riesce ad assumere decisioni politiche. Dopo 40 giorni di bombardamenti a tappeto su Gaza ancora non si riesce a chiedere all’unisono un cessate il fuoco. Si parla di pause umanitarie per far respirare un po’ le

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ISRAELE/PALESTINA. «Noi palestinesi e amici della Palestina porgiamo la mano a tutti coloro che hanno detto no alla guerra e che hanno condannato il terrorismo in tutte le sue forme»

Usciamo dalla gabbia. Un appello 

«Noi palestinesi e amici della Palestina porgiamo la mano a tutti coloro che hanno detto no alla guerra e che hanno condannato il terrorismo in tutte le sue forme. In modo particolare la porgiamo ai cittadini israeliani (purtroppo ancora una minoranza) e a tutti gli ebrei nel mondo che non hanno concesso il loro nome ai criminali di guerra.

La carneficina in corso contro il popolo palestinese, la pulizia etnica antica e recente, la colonizzazione e le spedizioni terroristiche dei coloni contro la popolazione autoctona, come lo sradicamento degli alberi, la distruzione delle case e la confisca della terra, oltre ad abbattere ogni ponte di dialogo, ledono gravemente l’immagine e la storia di tutta una comunità e rilanciano di nuovo l’antisemitismo, che offende ogni popolazione di origine semita, quella ebraica come quella palestinese. E, nei fatti, rendono Israele il luogo meno sicuro per la popolazione ebraica e per tutti i suoi cittadini.

La battaglia per la libertà del popolo palestinese è la stessa battaglia per la libertà della popolazione ebraica e della nostra libertà.

Lo Stato può diventare una gabbia. Il nazionalismo è stato il cancro della modernità. La fratellanza è un vasto spazio di umanità libera. Per questo non vogliamo rinunciare al sogno di un unico paese fondato sullo stato di diritto e sull’uguaglianza delle persone a prescindere dalla loro appartenenza e dal loro credo religioso. Siamo ancora in tempo. Iniziamo con il cessate il fuoco e poi cominciamo a guardare alla Mezzaluna fertile del Mediterraneo con altri occhi».

A questi primi cinquanta firmatari seguono le adesioni di oltre 1100 persone.

Per aderire all’appello scrivere a: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

Primi firmatari:

Ali Rashid,
Aida Tuma (deputata del Knesset israeliano),
Issam Makhluf (già deputato del Knesset, presidente del fronte democratico per la pace e eguaglianza in Israele),
Mohammad Bakri (regista arabo israeliano),
Renato Accorinti,
Mario Agostinelli,
Marta Anderle,
Sergio Bellucci,
Gianna Benucci,
Gianfranco Bettin,
Mario Boccia,
Loris Campetti,
padre Nandino Capovilla,
Sergio Caserta,
Beatrice Cioni,
padre Fabio Corazzina,
Mario Cossali,
Fiammetta Cucurnia,
Massimo De Marchi,
Nicoletta Dentico,
Tommaso Di Francesco,
Stefano Disegni,
Patrizio Esposito,
Silvano Falocco,
Rania Hammad,
Adel Jabbar,
Dina Ishneiwer,
Raniero La Valle,
Mimmo Lucano,
Fiorella Mannoia,
Serena Marcenò,
Rino Messina,
Emilio Molinari,
Erica Mondini,
Michele Nardelli,
Mario Natangelo,
Silvia Nejrotti,
Azra Nuhefendic,
Moni Ovadia,
Maurizio Pallante,
Nino Pascale,
Dijana Pavlovic,
Tonino Perna,
Daniele Pulcini,
Gianni Rocco,
Michele Santoro,
Stefano Semenzato,
Vauro Senesi,
Sergio Sinigaglia,
Gianni Tamino

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SINISTRA. Intervista a Nicola Fratoianni, deputato e segretario di Sinistra Italiana

Nicola Fratoianni foto Ansa Nicola Fratoianni - Ansa

Dopo anni di rotture e tentativi di ricomposizione Nicola Fratoianni, segretario di Sinistra italiana, disegna un cambio di atteggiamento: «Si tratta di assumere una discontinuità – dice – Occorre indicare proposte, nuove parole, inventare strumenti invece che operare, come molte volte abbiamo fatto, sul terreno della somma di ciò che c’era prima».

Superare le divisioni non è più una priorità?

Ricucire gli strappi e creare convergenze è sempre importante. Ma l’obiettivo non deve essere ricostruire ciò che c’era e che poi si è rotto, se ti dai quel compito fallisci. La ricostruzione di una proposta politica passa per la capacità di lavorare a uno spazio adatto al quadro che abbiamo di fronte.

Di questo parlerete al congresso di Si a Perugia, dal 24 al 26 novembre?

È uno dei temi. Proveremo a misurarci sulla guerra come rottura di un modello di governance globale, che impedisce di organizzare il proprio punto di vista e che impone l’arruolamento. Intanto il capitalismo schiaccia il pianeta. Con le opposizioni dobbiamo essere in grado di suggerire l’alternativa, per noi questa è l’urgenza, l’orizzonte che ci poniamo per i prossimi mesi.

A partire da quello che avete definito un principio di realtà: contribuire a una coalizione in grado di battere la destra.

Il rapporto col voto deve misurarsi con la realtà. Finché c’è questa destra al governo, sottrarsi alla responsabilità di contribuire all’alternativa è improponibile. Non siamo legati per decreto a uno schema rigido di alleanze anche su scala locale, ma la ricerca della convergenza rappresenta il minimo necessario. Non è un caso che la destra abbia mostrato di faticare quando le opposizioni hanno costruito attorno al salario minimo legale un’iniziativa comune. Ha funzionato per due motivi. Perché era giusta, efficace e semplice da comunicare. E per la sua natura unitaria, ha fatto intravedere un’alternativa praticabile.

La guerra è uno dei fattori di ridefinizione del quadro politico europeo, anche a sinistra?

La guerra ha una dimensione sempre generale. È un dramma per le popolazioni che la subiscono, sposta a destra il quadro e rilancia i nazionalismi, nega le politiche orientate alla transizione ecologica, riduce gli spazi di organizzazione e quindi influisce sui rapporti di forza e su come ci si organizza. Per questo la pace sta al centro della politica, anche quando non si parla direttamente di Ucraina o di Gaza.

Le elezioni europee saranno cruciali, in questo senso…

Pongono una questione rilevante: la possibilità di fare dell’Europa un punto di riferimento della riconversione ecologica, della giustizia sociale, del welfare, di un’idea del mondo orientata alla diplomazia piuttosto che alla guerra come strumento di prosecuzione della politica con altri mezzi. Abbiamo assistito all’implosione dell’ordine mondiale, alla crescita esponenziale dei conflitti e al ritorno di vocazioni imperiali. In questo quadro, l’Ue deve praticare la sua autonomia sulla scena globale. È una condizione necessaria per stare al livello delle contraddizioni che abbiamo avanti.

Meloni lancia la sua riforma per aggirare le difficoltà che incontra in Europa?

Le elezioni politiche spagnole hanno rappresentato una battuta di arresto per Meloni. L’onda di destra sembrava inarrestabile e lei stessa partecipando a quella campagna elettorale aveva annunciato il primo tassello della modifica del rapporti forza europei. Tuttavia io non considero quasi mai le scelte di questa destra come operazione di distrazione di massa. Fanno parte di un impianto ideologico con il quale dobbiamo fare i conti. Dalla parte delle forze alternative alla destra, negli anni scorsi l’ideologia era stata considerata superata, un fardello del passato. E invece a destra hanno lavorato proprio sull’ideologia: una parte della loro forza egemonica sta lì. Alla crisi della globalizzazione la destra ha risposto con cose semplici che sembrano offrire qualche appiglio, come Dio-patria-famiglia. Modelli che danno l’illusione di rendere riconoscibile la catena di comando. L’impianto autoritario del premierato va in questa direzione, aderisce a questo impianto culturale

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Voglio essere chiaro. Continuare a fornire armamenti a Israele da parte degli Stati Uniti e dei Paesi dell’Unione europea costituisce un esplicito sostegno all’indiscriminata e criminale operazione militare “Spade di […]

Armi italiane a Israele, contro legge e trattati Un edificio distrutto da un attacco israeliano a Deir al-Balah, nella Striscia di Gaza - Getty Images

Voglio essere chiaro. Continuare a fornire armamenti a Israele da parte degli Stati Uniti e dei Paesi dell’Unione europea costituisce un esplicito sostegno all’indiscriminata e criminale operazione militare “Spade di ferro” condotta dalle forze armate israeliane nella Striscia di Gaza. Come evidenziano diverse associazioni per i diritti umani, a fronte delle gravi violazioni del diritto internazionale e delle leggi di guerra, continuare ad inviare materiali militari a Israele rischia di rendere i Paesi fornitori complici di questi abusi contribuendone consapevolmente e in modo significativo. Questo è inaccettabile per i Paesi dell’Unione sia ai sensi delle normative nazionali, degli impegni assunti in sede comunitaria in materia di controllo delle esportazioni di armamenti, sia soprattutto delle norme del “Trattato internazionale sul commercio di armi” che è stato ratificato dai principali Paesi dell’Unione nell’aprile del 2014 ed è entrato in vigore il 24 dicembre dello stesso anno. Le istituzioni europee hanno pertanto il dovere non solo di richiamare lo Stato di Israele al rispetto delle Convenzioni internazionali, ma di sospendere, se non revocare, le forniture di armamenti e sistemi militari.

La posizione dell’Unione europea

Finora, invece l’Unione europea si è limitata ad esprimere posizioni di principio senza assumere alcuna iniziativa nei confronti dello Stato di Israele. Lo scorso 15 ottobre, il Consiglio europeo con una dichiarazione ha condannato “con la massima fermezza” Hamas per i suoi attacchi terroristici brutali e indiscriminati in Israele ed ha sottolineato con forza il diritto di Israele di difendersi “in linea con il diritto umanitario e internazionale”. La posizione è stata ribadita nelle Conclusioni del Consiglio del 26 ottobre scorso solo aggiungendo “l’importanza di garantire, in ogni momento, la protezione di tutti i civili in linea con il diritto internazionale umanitario” e deplorando “ogni perdita di vita umana tra la popolazione civile”.

Il Parlamento europeo con la Risoluzione P9_TA(2023)0373 (Gli spregevoli attacchi terroristici di Hamas contro Israele, il diritto di Israele di difendersi in linea con il diritto umanitario e internazionale e la situazione umanitaria a Gaza”) approvata giovedì 19 ottobre con 500 voti a favore, 21 contrari e 24 astensioni, ha condannato “con la massima fermezza gli spregevoli attacchi terroristici del gruppo terroristico Hamas contro Israele” e ha riconosciuto “il diritto di Israele all’autodifesa, quale sancito e limitato dal diritto internazionale” evidenziando che “le azioni di Israele devono pertanto rispettare rigorosamente il diritto internazionale umanitario”. Ma, anche in questo caso, nessuna presa di posizione riguardo all’operazione militare israeliana nella Striscia di Gaza.

Le violazioni di Hamas e di Israele

Sin dai primi giorni dell’operazione “Spade di ferro,  in risposta all’attacco terroristico di Hamas e di altri gruppi armati palestinesi del 7 ottobre in Israele, gli Esperti indipendenti delle Nazioni Unite, dopo aver condannato inequivocabilmente la violenza mortale di Hamas contro i civili in Israele, hanno denunciato gli attacchi violenti di Israele contro i civili palestinesi a Gaza. “Ciò equivale a una punizione collettiva”, scrivono gli esperti. “Non vi è alcuna giustificazione per la violenza che prende di mira indiscriminatamente civili innocenti, sia da parte di Hamas che delle forze israeliane. E’ assolutamente proibito dal diritto internazionale e costituisce un crimine di guerra”.

Anche Amnesty International, in uno specifico rapporto titolato “Schiaccianti prove di crimini di guerra a Gaza” ha documentato “attacchi illegali israeliani – compresi attacchi indiscriminati – che hanno causato massicce perdite civili e che devono essere indagati come crimini di guerra”. “È fondamentale – ha commentato Agnés Callamard, segretaria generale di Amnesty International – che l’Ufficio del procuratore della Corte penale internazionale velocizzi urgentemente le indagini sulle prove di crimini di guerra e di altri crimini di diritto internazionale commessi da tutte le parti in conflitto”. Nel chiedere alle forze militari israeliane di porre immediatamente fine agli attacchi illegali Amnesty ha invitato gli alleati di Israele a “imporre immediatamente un embargo sulle armi, date le gravi violazioni del diritto umanitario in corso”.

Nei giorni scorsi, anche l’associazione Human Rights Watch dopo aver evidenziato che “i gruppi armati israeliani e palestinesi hanno commesso gravi abusi, equivalenti a crimini di guerra” ha chiesto agli alleati di Israele e ai sostenitori dei gruppi armati palestinesi di sospendere il trasferimento di armi alle parti in guerra in Israele e Gaza. “Fornire armi che consapevolmente e in modo significativo contribuirebbero ad attacchi illegali può rendere coloro che le forniscono complici di crimini di guerra”, riporta Human Rights Watch.

Le normative sul commercio di armi

Le normative parlano chiaro ed è bene citarle in modo preciso. Per quanto riguarda l’Italia, la normativa nazionale – la legge n. 185 del 1990 “Nuove norme sul controllo dell’esportazione, importazione e transito dei materiali di armamento” – vieta esplicitamente l’esportazione di materiale di armamento “verso Paesi la cui politica contrasti con i principi dell’articolo 11 della Costituzione” (Art. 1.6 b) e “verso i Paesi i cui governi sono responsabili di gravi violazioni delle convenzioni internazionali in materia di diritti umani, accertate dai competenti organi delle Nazioni Unite, dell’UE o del Consiglio d’Europa” (Art, 1.6 d).

A livello europeo, la Posizione Comune 2008/944/PESC del Consiglio dell’8 dicembre 2008 che ha definito “Norme comuni per il controllo delle esportazioni di tecnologia e attrezzature militari” stabilisce che gli Stati Membri “rifiutano le licenze di esportazione qualora esista un rischio evidente che la tecnologia o le attrezzature militari da esportare possono essere utilizzate per commettere gravi violazioni del diritto umanitario internazionale” (Art. 2.2 c). E, in aggiunta, la Decisione (PESC) 2019/1560 del Consiglio del 16 settembre 2019 prevede che “Qualora emergano nuove informazioni pertinenti, ciascuno Stato membro è incoraggiato a riesaminare le licenze d’esportazione riguardanti i prodotti di cui all’elenco comune delle attrezzature militari dell’UE dopo la loro concessione”.

Ancor più esplicito è il “Trattato internazionale sul commercio di armi” (Arms Trade Treaty), ratificato dall’Italia nel 2014 dopo il voto unanime di Camera e Senato: stabilisce non solo il divieto ad esportare materiali militari a Paesi sottoposti a misure di embargo internazionale (Art. 6) ma prevede anche di valutare se le armi convenzionali o gli oggetti militari “possono contribuire a minacciare la pace e la sicurezza; possono essere utilizzati per commettere o agevolare una grave violazione del diritto internazionale umanitario e commettere o agevolare una grave violazione del diritto internazionale dei diritti umani”. “Se, dopo aver condotto tale valutazione e aver esaminato eventuali misure di mitigazione, lo Stato Parte esportatore ritiene che vi sia un forte rischio di ricadere in una delle conseguenze negative previste, lo Stato Parte esportatore non autorizzerà l’esportazione”, conclude il Trattato (Art. 7).

Le armi europee a Israele

Israele è una delle maggiori potenze militari del mondo: con una spesa militare di oltre 23 miliardi di dollari all’anno (all’incirca il 5 percento del proprio Prodotto interno lordo) secondo il SIPRI nel 2022 ricopriva la quindicesima posizione mondiale. Israele è anche uno dei principali Paesi esportatori di armamenti: nell’ultimo quinquennio con oltre 3,2 miliardi di dollari di esportazioni militari occupa la decima posizione nel commercio mondiale di armamenti, riporta sempre il SIPRI.  Il principale fornitore di sistemi militari a Israele sono gli Stati Uniti, ma i Paesi dell’Unione europea, nel loro insieme, costituiscono il secondo fornitore mondiale: i rapporti ufficiali europei certificano che dal 2001 al 2020 i Paesi dell’Unione hanno autorizzato esportazioni di sistemi militari a Israele per oltre 7,7 miliardi di euro, con oltre 636 milioni  nel 2020. Tra gli armamenti esportati nel suddetto ventennio figurano soprattutto navi da guerra (1,6 miliardi), aerei da combattimento (1,2 miliardi), carri armati e veicoli terrestri (1 miliardo) e apparecchiature elettroniche (oltre 520 milioni di euro). Sempre nel ventennio dal 2001 al 2020 i maggiori fornitori europei di armamenti a Israele sono stati la Germania (3 miliardi di euro), la Francia (2,6 miliardi), il Regno Unito (653 milioni) e l’Italia (578 milioni).

Le armi Italiane a Israele

Per tutto il periodo fino al 2012 l’Italia, pur avendo rapporti commerciali con Israele, ha mantenuto un atteggiamento estremamente cauto e restrittivo nelle forniture di armi e sistemi militari a Tel Aviv: le Relazioni ufficiali della Presidenza del Consiglio al Parlamento riportano tra il 1990 e il 2011 un ammontare complessivo di solo poco più di 11 milioni di euro. Un atteggiamento dettato non solo dalla politica estera italiana, ma anche in considerazione delle numerose risoluzioni dell’Assemblea Generale dell’Onu che, già dal 1975, hanno condannato “la continua occupazione dei territori arabi da parte di Israele in violazione della Carta delle Nazioni Unite e dei principi del diritto internazionale” e hanno chiesto a “tutti gli Stati di desistere dal fornire a Israele qualsiasi aiuto militare o economico fintanto che continua ad occupare territori arabi e nega i diritti nazionali inalienabili del popolo palestinese” (si veda la Risoluzione 3414 del 5 dicembre 1975, la risoluzione 31/61 del 9 dicembre 1976 e successive).

Tutto cambia con il governo Berlusconi che nel giugno del 2003 sigla a Parigi il “Memorandum d’intesa con Israele in materia di cooperazione nel settore militare e della difesa”, memorandum entrato in vigore l’8 giugno 2005 che prevede, tra l’altro, l’interscambio di materiali d’armamento tra i due Paesi. Il “salto di qualità” avviene però nell’aprile del 2012 quando, l’allora presidente del Consiglio, Mario Monti, in visita in Israele annunciò l’intenzione del governo di finalizzare al più presto il contratto per la fornitura all’Aeronautica militare israeliana di 30 velivoli d’addestramento M-346 prodotti dalla Alenia-Aermacchi e relativi simulatori di volo. Sono gli aerei e i simulatori su cui si sono esercitati i piloti dei caccia F-16 e F-35 che in questi giorni stanno bombardando Gaza.

Negli anni successivi le forniture di sistemi militari dall’Italia a Israele sono aumentate rispetto agli anni Novanta, ma non hanno segnato valori rilevanti fino al febbraio 2019, quando i ministeri della Difesa dei due Paesi hanno firmato un accordo per l’acquisto di sette di elicotteri AW119Kx d’addestramento avanzato della Agusta-Westland (gruppo Leonardo) per le forze aeree israeliane, del valore di 350 milioni di dollari, ancora una volta in cambio dell’acquisto da parte dell’Italia di un valore equivalente di tecnologia militare israeliana. Nel settembre del 2020 ne sono stati aggiunti altri cinque, per un totale di dodici elicotteri e due simulatori destinati alla Air Force Flight School.

Non solo. Come riporta il Bilancio d’esercizio della RWM Italia, l’anno scorso l’azienda ha firmato un”accordo strategico” con la società israeliana UVision Air Ldt “per la commercializzazione, produzione e sviluppo in esclusiva per l’Europa delle Loitering Munition. Si tratta di munizioni circuitanti, meglio conosciute come “droni kamikaze”, in cui  la munizione è un drone armato che sorvola una zona, attendendo, in cerca dell’obiettivo, per poi attaccare solo una volta che quest’ultimo è stato localizzato.

Urgente un’azione del Parlamento

A fine ottobre Amnesty International Italia insieme alla Rete Italiana Pace e Disarmo hanno promosso una serie di manifestazioni che hanno visto un’ampia partecipazione in numerose città italiane. Con uno specifico appello hanno chiesto alle istituzioni azioni concrete per la pace in Palestina e Israele e al Governo italiano di “astenersi dal fornire armi a tutti gli attori del conflitto e chiedere agli altri Stati di fare altrettanto”. A fronte della carneficina in corso – più di 10mila morti tra cui oltre 4mila bambini nella Striscia di Gaza –è fondamentale che il Parlamento italiano si faccia portavoce di queste istanze e chieda al governo di sospendere tutte le forniture di armamenti a tutte le parti in conflitto, compreso Israele

 

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ISRAELE/PALESTINA. Vertice dei leader arabi e musulmani a Riyadh: condanna del doppio standard occidentale, ma nessuno rinuncia alle relazioni con Israele. A parole tutti credono ancora alla formula «due popoli due stati». Com’è possibile dopo il 7 ottobre? Con un ruolo forte degli Stati uniti e leadership nuove a Tel Aviv e Ramallah

La «prudenza» araba: embargo sì, boicottaggio no L’arrivo del presidente iraniano Ebrahim Raisi a Riyadh - Ansa

Il vertice di Riad in contemporanea della Lega Araba e dell’Organizzazione per la Cooperazione Islamica (OIC) doveva dimostrare l’unità del mondo arabo-islamico di fronte al massacro di Gaza. Tutti uniti in effetti nel chiedere un cessate il fuoco immediato, dal palestinese Abu Mazen al principe saudita Mohammed bin Salman, dall’iraniano Ebrahim Raisi a Erdogan, ma da questo summit non è venuto nulla sul fronte del boicottaggio delle relazioni economiche con Israele, delle basi americane in Medio Oriente o di eventuali sanzioni in campo petrolifero ed energetico. La guerra per ora fa male soprattutto ai palestinesi di Gaza e della Cisgiordania.

Nella dichiarazione finale i leader del mondo arabo e musulmano chiedono l’embargo militare verso Israele, armi «usate per uccidere il popolo palestinese» e il prosieguo delle indagini della Corte penale internazionale sui crimini di guerra israeliani, anche attraverso la creazione di «due unità legali di monitoraggio».

DELUDENTE? Non si può definire così perché i vari leader sciiti e sunniti hanno pronunciato parole molto simili di condanna verso Israele, Stati uniti e Occidente in generale accusato di applicare il famigerato «doppio standard» sulla questione palestinese. Si conferma con l’incontro bilaterale di oggi tra il presidente iraniano Raisi e i vertici sauditi l’avvicinamento, avviato con la mediazione della Cina, tra Riad e Teheran a discapito dell’accordo in pectore tra Israele e monarchia wahabita.

Ma è evidente che l’Arabia saudita, storico alleato Usa, cammina sul filo del rasoio, così come molti stati del Golfo tra cui il Qatar che ospita e finanzia Hamas e allo stesso tempo il quartier generale americano in Medio Oriente. Un paradosso? Non tanto visto che proprio a Doha gli Stati uniti hanno firmato gli accordi che hanno restituito l’Afghanistan ai Talebani.

A parole, come avvenuto a Riad, tutti dimostrano ancora di credere alla formula «due popoli due stati». Ma come è possibile la pace di fronte a quello che stiamo vedendo dal 7 ottobre? Su Al Quds al Arabi, quotidiano fondato negli anni ’80 a Londra da rifugiati della Striscia di Gaza, è comparso in questi giorni un lungo articolo di Marwan Muasher ex ministro degli esteri che nel 1994, dopo il trattato di pace tra Amman e Tel Aviv, fu anche il primo ambasciatore giordano in Israele (poi anche negli Usa).

Muasher, di origini cristiane, si chiede quali fattori devono essere presenti per rendere credibile la soluzione due popoli due stati. Il primo fattore, scrive Muasher, è la disponibilità di una ferma volontà internazionale, guidata dagli Stati uniti, per avviare un percorso politico che definisca fin dall’inizio l’obiettivo finale del percorso, porre fine all’occupazione israeliana e creare uno stato palestinese indipendente su tutte le terre occupate da Israele nel 1967, inclusa Gerusalemme est, consentendo un equo scambio di terre e di confini.

Uno degli errori più gravi del processo di Oslo e di quelli successivi è stato non avere definito l’obiettivo finale. Il che ha spinto Israele a manovrare per avviare inconcludenti negoziati a tempo indeterminato inghiottendo più territori possibile.

GLI STATI UNITI devono anche mostrare, contrariamente a quanto fanno in questi giorni, la volontà e la capacità di esercitare una seria pressione su Israele – come chiesto ieri dai partecipanti al vertice di Riad – che da anni non accenna la minima intenzione di voler avviare un percorso politico con i palestinesi. Biden deve fare tutto questo nel bel mezzo di un’elezione presidenziale in cui i due partiti, democratico e repubblicano, competono per mostrare sostegno a Israele.

Quali sono le possibilità che gli Usa facciano a tutto questo? Muasher, un sorta di riformatore pessimista, non si sbilancia: «Lascio a voi giudicare», dice in questa intervista l’ex ministro attualmente vicepresidente del Carnegie Endowment for International Peace, think tank con base a Washington e uffici in quasi tutto il Medio Oriente.

Il secondo fattore necessario è un nuovo governo israeliano che abbia come obiettivo quello di porre fine all’occupazione e fondare uno stato palestinese. Il terzo fattore è un’autorità palestinese che emerga da nuove elezioni e sia in grado di parlare a nome dei palestinesi: è ormai chiaro che l’Anp nella sua forma attuale non può pretendere questo. Ma nessuno vuole le elezioni perché gli Stati uniti temono l’ascesa di Hamas, e anche Israele lo teme, ma allo stesso tempo lo auspica come giustificazione alla persistente riluttanza ad avviare negoziati seri per porre fine all’occupazione.

L’Autorità nazionale palestinese a sua volta è consapevole che nuove elezioni la rimuoverebbero dal potere. Abu Mazen e la sua amministrazione sono uno schermo utile per Israele e Usa a giustificare lo stallo e all’impotenza. Come scriveva recentemente l’ex premier palestinese Al Fayyad su Foreign Affairs un governo legittimo a Ramallah deve includere anche Hamas, altrimenti, dice, avremo centinaia di altri terroristi: lo afferma non un pericoloso estremista ma quello che fu un ex economista della Banca mondiale.

SE LA SOLUZIONE dei due stati è ancora teoricamente possibile, il suo rilancio da parte della comunità internazionale richiede condizioni che sembrano impossibili. Tuttavia, afferma Muasher, la stessa comunità internazionale deve rendersi conto che la sua incapacità di affrontare seriamente la fine del conflitto israelo-palestinese significa soltanto la continuazione del ciclo inarrestabile della violenza.

Una nuova realtà imposta dal 7 ottobre è stata la trasformazione del conflitto in uno scontro feroce contro uno stato israeliano a capo di un regime di apartheid. Questo è il risultato diretto del disprezzo della comunità internazionale per l’occupazione israeliana.

C’è poco da piangere, se non ipocritamente, sui massacri delle ultime settimane perché questo regime di apartheid è insostenibile per i palestinesi ma anche per gli israeliani. E per la stessa comunità internazionale che, sottolinea Muasher, mise sanzioni al Sudafrica ma è incapace di imporle a Israele perpetuando un doppio standard della giustizia internazionale che non è più accettabile. Per nessuno,

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