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STATO DELL’UNIONE. Sovranità e solidarietà, sicurezza e umanità, gli accordi con Turchia e Tunisia: l’Europa giocoliera scalcia via gli articoli 18 e 19 della sua Carta. Von der Leyen è persino riuscita a ringraziare la Bulgaria per le sue «buone pratiche»

L’ipocrita equilibrismo europeo Ursula von der Leyen in visita a Lampedusa - LaPresse

Vale la pena riprendere il discorso sullo stato dell’Unione letto qualche giorno fa da Ursula von der Leyen, la signora degli equilibri. Ricordando che ci fu una stagione straordinaria, dopo la fine della Seconda guerra mondiale, in cui le persone parvero improvvisamente risvegliarsi alla coscienza della fragilità dell’umano e le potenze vincitrici riuscirono nel miracolo di realizzare una parziale incarnazione normativa della ragione pratica. Nacque allora il costituzionalismo globale, la cui più limpida espressione è l’articolo 1 della Carta dell’Onu (1945), che istituisce il primato del diritto internazionale sulle sovranità nazionali relativamente almeno a due obblighi: l’obbligo di rispettare e implementare i diritti umani, e quello di ripudiare la guerra come mezzo di risoluzione dei conflitti internazionali.

La preoccupazione per un’umanità al bivio reggeva le fila anche dell’annuale discorso all’Assemblea generale dell’Onu che il segretario generale Guterres ha tenuto il 20 settembre scorso. O si riforma, l’Onu, per poter conferire efficacia normativa a quei due obblighi più forti di ogni sovranità, che visti nella loro idealità rivelano il profilo personalistico (diritti umani) e quello cosmopolitico (ripudio della guerra) del costituzionalismo globale, oppure va in pezzi, e quello che ne seguirà per l’umanità sarebbe meglio non doverlo soffrire.

Così dunque fa una strana impressione, sullo sfondo di queste considerazioni, riprendere lo stato dell’Unione della presidente della Commissione europea von der Leyen. Con il suo

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ASSEMBLEA GENERALE ONU. Un discorso, quello di Giorgia Meloni all’Assemblea dell’Onu, tra retorica e propaganda, sprovveduto quanto a storia del ruolo occidentale attuale nel dominio del Continente africano e a storia delle guerre […]

Giorgia Meloni, l’equilibrio incerto sul filo spinato Giorgia Meloni all'assemblea generale dell'Onu - Ap

Un discorso, quello di Giorgia Meloni all’Assemblea dell’Onu, tra retorica e propaganda, sprovveduto quanto a storia del ruolo occidentale attuale nel dominio del Continente africano e a storia delle guerre imperialiste, e in paradossale, incerto e ipocrita equilibrio, su un filo spinato, tra ideologia sovranista e richiesta di multipolarismo.

Il tutto suffragato dallo schierarsi incondizionatamemte a fianco dell’Ucraina aggredita – proprio mentre stava per arrivare la rottura polacca che ha deciso di non inviare più armi a Kiev -; e dalla riproposizione rassicurante del fantasmagorico “Piano Mattei”, l’Araba fenice che non esiste ma tutti ne parlano.

Al centro, naturalmente, la questione delle migrazioni per le quali l’Italia si fa portavoce, dopo avere inventato su questo una emergenza nazionale. Eppure il nodo tragico è da almeno due decenni già multipolare e internazionale e vede, in Africa e in Asia ma non solo, la vita dei migranti relegata da tempo in strutture concentrazionarie che potremmo definire città fantasma di milioni di persone. Come in Kenya, Ruanda, Somalia, Nigeria, Sudafrica, Medio Oriente, Bangladesh…L’Onu che non basta più, che «o cambia o muore», di queste realtà con l’Unhcr si prende cura per quel che può, dopo che i potenti della terra hanno deciso che

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ASSEMBLEA GENERALE. Ma l’Onu serve ancora? Disperata la risposta del segretario generale Guterres: «O si avvia una riforma o è la rottura, le istituzioni rischiano di essere parte del problema»

 L’Assemblea generale delle Nazioni unite - Ap

Irrilevanza dell’Onu e irrilevanza anche di Biden che tenta di corteggiare il Sud globale con appelli che cadono in un vuoto fragoroso. Così i giornali americani, dal New York Times al Wall Street Journal sintetizzano cosa accade all’Assemblea generale delle Nazioni Unite dove le sedie vuote fanno clamore: da Xi Jinping a Putin, da Macron a Sunak, fino al premier indiano Narendra Modi, reduce da un G20 a Nuova Delhi che ha proiettato l’India nel novero delle grandi potenze internazionali. Sono assenti a New York i leader di quattro dei cinque membri del Consiglio di sicurezza, un segnale non confortante in un clima bellico e di tensioni geopolitiche ai massimi livelli dai tempi della guerra fredda.

Ma l’Onu serve ancora? La risposta dello stesso segretario generale Antonio Guterres è quasi disperata: “o si avvia la riforma delle Nazioni Unite o è la rottura, le istituzioni invece di essere la soluzione rischiano di diventare parte del problema”. Cambiare o scomparire, questo è il messaggio. Da tempo le Nazioni Unite non rispecchiamo più la transizione caotica da un mondo unipolare – dominato da una sola potenza – a uno multipolare con diversi centri di potere. E quando le istituzioni Onu diventano lo specchio della realtà è per squadernare una narrativa assai diversa fa quella del Nord globale. Come sottolinea la rivista francese “Le Grand Continent” negli ultimi trent’anni nelle votazioni all’Assemblea generale soltanto il 14% degli stati ha votato con gli Usa mentre la grande maggioranza dei consensi è stata raccolta da proposte russe e cinesi.

Il fallimento Onu è anche negli obiettivi che si è posta l’organizzazione. L’agenda 2030 sullo sviluppo sostenibile è solo in minima parte in linea con i traguardi prefissati entro la fine del decennio: l’85% dei piani è in ritardo e persino in regresso. Oltre alle guerre in cui l’Onu sembra ormai privo di iniziative e in ritirata diplomatica e militare – dall’Ucraina al Sahel, dall’Africa orientale e al Corno – ci sono sfide come le conseguenze e economiche e sociali della pandemia, l’inflazione alimentare e le ricadute dell’emergenza climatica che moltiplicano il senso di impotenza. Lo stesso Guterres ci dice che nel mondo ci sono 600 milioni di persone in estrema povertà, 80 milioni i bambini che non vedranno mai una scuola elementare e che a questi tassi di sviluppo serviranno all’umanità circa 300 anni per raggiungere la parità di genere tra uomo e donna. Intanto – mentre le concentrazioni di CO2 continuano a salire a livelli mai raggiunti – la temperatura media globale supererà la soglia “sicura” di 1,5°C prevista dagli Accordi di Parigi sul clima: siamo in realtà già arrivati all’epitaffio dell’Agenda 2030.

Riformare l’Onu o morire, dunque? Il Global South chiede, a ragione, di contare di più. L’obiettivo dell’Assemblea quest’anno è evitare che la spaccatura nord-sud si approfondisca e che le tensioni geopolitiche spingano i paesi in via di sviluppo a cercare di soddisfare i propri interessi lontano dall’Occidente. Il mese scorso i Brics avevano accolto l’adesione di una mezza dozzina di paesi, per dare una sterzata a un ordine mondiale che il blocco considera ormai obsoleto.

Nel mirino è la configurazione attuale del Consiglio di Sicurezza Onu che appare l’istantanea, scolorita e assai datata, di una visione consolidata al termine della guerra fredda all’insegna dell’unipolarismo americano e che oggi non rispecchia l’evoluzione della scena internazionale. C’è un punto su cui la stragrande maggioranza degli stati è concorde: modificare e ampliare la rappresentanza nel Consiglio oggi costituito da Cina, Francia, Federazione Russa, Regno Unito e Stati Uniti, stati con potere di veto _ l’organo al quale è attribuito il potere d’azione a tutela della pace e della sicurezza internazionale.

Le proposte di riforma che si sono succedute negli anni spaziano da quelle che suggeriscono l’attribuzione del diritto di veto a nuovi membri permanenti (in particolare i cosiddetti G4: Brasile, Germania, Giappone e India), a progetti incentrati su un aumento più o meno consistente di membri non permanenti. In questo secondo gruppo si annoverano 54 stati africani che hanno proposto l’allargamento del Consiglio a 26 membri, il raggruppamento L.69 di cui fanno parte stati africani, latinoamericani, asiatici, caraibici, favorevole alla rotazione e a includere i piccoli stati insulari (20% dei membri Onu). C’è il gruppo degli stati arabi contrario al diritto di veto dei Cinque del Consiglio «visti i danni sperimentati in 80 anni dalla geografia araba».

Si segnala infine il gruppo Uniting for Consensus (posizione anche italiana), che prevede un Consiglio di 26 seggi, con 9 seggi permanenti a lungo termine distribuiti tra i gruppi regionali e i restanti seggi con mandato biennale rinnovabile. In questa proposta rientra la dibattuta questione della partecipazione dell’Unione europea: se è vero che questo darebbe ben altro peso ai 27, l’ipotesi si scontra con il fatto che l’Ue soffre cronicamente della mancanza di un’unica e riconoscibile politica estera comune, con Bruxelles sempre più appiattita sulle posizioni della Nato, ovvero di un’alleanza militare dominata dagli Usa.

Ma al di là delle ipotesi di riforma c’è un’altra materia ineludibile e concreta, quella economica e finanziaria che non aspetta di fronte ai bisogni dei popoli. Biden giocherella adombrando possibili riforme di Banca Mondiale e Fondo monetario ma dall’Asia all’Africa, dal Medio Oriente all’America Latina nessuno dei Brics e dei loro clienti si fa incantare – anzi, cominciano a parlare di de-dollarizzazione. I sauditi hanno appena appaltato a un banca cinese, la Icbc, un prestito sindacato da 11 miliardi di dollari, settore tradizionalmente dominato da banche di investimento Usa. Vedremo adesso se la premier Meloni incanterà gli africani con il suo “piano Mattei”. C’è da dubitarne

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INTERVISTA. Il governo avvia la Piattaforma nazionale per produrre energia dall'uranio. Il presidente nazionale di Legambiente: «Il Forum internazionale sui reattori di quarta generazione è partito vent’anni fa, se una ricerca in due decenni non produce risultati una riflessione andrebbe fatta»

 

L’appuntamento è per oggi al ministero dell’Ambiente e della Sicurezza energetica dove si terrà la prima riunione della Piattaforma nazionale per un nucleare sostenibile. È il sogno del centrodestra riportare in vita un programma che gli italiani hanno bocciato con due referendum (1987 e 2011). L’esecutivo punta «allo sviluppo di tecnologie a basso impatto ambientale e a elevati 

standard di sicurezza e sostenibilità». Gli studenti hanno indetto per oggi un flash mob davanti al Mase. Legambiente, WWF, Greenpeace e Kyoto Club hanno bocciato il piano: «Il governo sta sbagliando strada» spiega Stefano Ciafani, presidente nazionale di Legambiente.

Il nucleare sostenibile esiste?
Ad oggi è un ossimoro. Il reattore di terza generazione avanzata in costruzione a Flamanville in Francia e quello di Olkiluoto in Finlandia sono sicuramente più sicuri delle generazioni precedenti e ci mancherebbe altro visti gli incidenti di Chernobyl, Fukushima o Three Mile Aland negli Usa. Ma restano tutti i problemi relativi alle scorie radioattive. Poi c’è il tema degli investimenti: Flamanville e Olkiluoto sono costati il quadruplo rispetto alle stime e i tempi di realizzazione sono stati molto più lunghi. Ad esempio la fine dei lavori in Francia era prevista per il 2014, la nuova data è il 2024; doveva costare 5 miliardi, ha superato i 19.

Oltre il 91% dell’uranio arriva in Europa da Kazakhstan, Niger, Canada e Russia.
Non sono reattori auto fertilizzanti, hanno cioè bisogno di nuove barre di combustibile e l’uranio deve essere preso in giro per il mondo. Servono poi le acque di raffreddamento quando in Italia abbiamo i fiumi in secca. Inoltre è un sistema che si basa sulla centralizzazione della produzione, un modello da cui ci stiamo finalmente liberando. Avevamo poche centrali termoelettriche, oggi possiamo contare 1.200.000 impianti distribuiti per la penisola con circa 1,3 milioni di produttori. Tornare alla centralizzazione non conviene al paese e neppure alle imprese.

Il Mase vuole investire nella formazione universitaria e nella ricerca sul nucleare.
Il Forum internazionale sui reattori di quarta generazione è partito vent’anni fa raggruppando aziende e Paesi che hanno investito sul nucleare. Abbiamo impiegato solo sette anni per arrivare sulla luna, se una ricerca in due decenni non ha prodotto risultati concreti qualche riflessione andrebbe fatta.

Dopo un anno di governo, dove siamo rispetto alle politiche energetiche?
Meloni ha iniziato il suo percorso da premier affermando che il Centro Sud sarebbero diventati l’hub delle rinnovabili del paese. Poi è intervenuto qualcuno e la narrazione è cambiata: l’Italia doveva diventare l’hub dell’Europa attraverso il Piano Mattei così dalle rinnovabili, sole e vento, siamo tornati al gas, in continuità con l’esecutivo Draghi. Ci stiamo legando ad Algeria, Libia, Qatar, Azerbaigian, Usa, Canada ed Egitto, con buona pace della memoria di Giulio Regeni. Il Nordafrica non è molto più stabile o democratico del continente asiatico o della Russia.

È realistico puntare sulle rinnovabili?
La Germania si è posta l’obiettivo di produrre il 100% di elettricità da fonti rinnovabili entro il 2035 avendo lo stesso vento che abbiamo noi ma con molto meno sole. Il Piano nazionale integrato Energia e Clima dice che al 2030 dobbiamo produrre due terzi da rinnovabili e un terzo da fossili. Oggi siamo a un terzo da rinnovabili e due terzi da fossili. L’obiettivo che abbiamo è quindi modesto. C’è anche una certa preoccupazione sul decreto relativo alle aree idonee, in discussione in Conferenza Stato-Regioni, perché limita troppo l’eolico e l’agrivoltaico.

E poi c’è il piano di adattamento climatico.
Fermo per tre governi di fila, il ministro Pichetto Fratin almeno ha fatto ripartire l’iter dopo la tragedia di Ischia ma non l’ha chiuso. Ci sono 361 azioni in quel piano ma nell’ultima manovra sono stati previsti zero euro e credo che avverrà lo stesso nella prossima. Eppure stiamo spendendo alcuni miliardi per ricucire le ferite dell’alluvione in Emilia Romagna.

Come siamo messi sulla transizione ecologica?
Ci sono tanti luoghi in cui stanno avvenendo fatti concreti e noi li stiamo visitando con la campagna Cantieri della transizione ecologica. Le cose vanno avanti su rinnovabili, economia circolare, mobilità sostenibile, sulla riconversione industriale. A Roma a inizio dicembre ci sarà il dodicesimo congresso di Legambiente, titolo L’Italia in cantiere: vogliamo parlare dei cantieri da aprire e chiudere nei prossimi quattro anni per concretizzare la transizione ecologica, con buona pace di chi dice che la transizione va fatta ma lentamente

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COMMENTI. Riprende, domani, il giudizio d’appello contro la condanna in primo grado, il 30 settembre 2021, a 13 anni e due mesi di reclusione per l'ex sindaco di Riace
Mimmo Lucano, il reato di solidarietà alla sbarra Mimmo Lucano - ANSA

C’è una nuova figura penalistica creata in questi anni dalla demagogia populista: quella dei reati di solidarietà. Le persone che salvano migranti in mare, coloro che danno lavoro a un clandestino, oppure una casa in locazione dove poter vivere umanamente, sono i nuovi delinquenti creati dalla legislazione d’emergenza.

È un capovolgimento della logica del vecchio populismo penale: non più gli inasprimenti di pena, inutili e tuttavia giuridicamente legittimi, nei confronti di reati di sussistenza provocati dalla povertà e tuttavia pur sempre illeciti. Il nuovo populismo penalizza comportamenti virtuosi con misure insensate, quando non esse stesse illegittime, come la chiusura dei porti, l’omissione di soccorso e i respingimenti collettivi.

L’imputato simbolo di questa nuova figura penalistica è Mimmo Lucano, contro il quale riprende, domani, il giudizio d’appello contro la condanna in primo grado, il 30 settembre 2021, a 13 anni e due mesi di reclusione. Le colpe imputategli, come è noto, consistono nel fatto che Lucano, come sindaco di Riace, ha ridato vita a questo piccolo comune, ha costruito un frantoio pubblico e una scuola, ha trasformato due orrende discariche in un teatro all’aperto, in un giardino di giochi per bambini e in una serie di piccole fattorie e, soprattutto, ha realizzato – questa la colpa più grave – un modello di integrazione e di accoglienza di centinaia di migranti.

Ma questa incredibile processo è molto più di un processo alla solidarietà. Con esso si è voluto processare, fino all’assurda condanna a oltre 13 anni di reclusione, non soltanto l’accoglienza e l’umana solidarietà, ma più in generale una politica e un’azione amministrativa informate ai valori costituzionali dell’uguaglianza e della dignità delle persone e, proprio per questo, stigmatizzate come false e non credibili.
C’è una frase rivelatrice nella motivazione della condanna, che si aggiunge alla massa di insulti in essa contenuti contro l’imputato: la mancanza di prove dell’indebito arricchimento di Lucano seguito alla sua politica di accoglienza, scrivono i giudici, dipende dalla «sua furbizia, travestita da falsa innocenza» e attestata dalla sua casa, «volutamente lasciata in umili condizioni per mascherare in modo più convincente l’attività illecita posta in essere».

Qui non siamo in presenza soltanto di una petizione di principio, che è il tratto caratteristico di ogni processo inquisitorio: assunto come postulato l’ipotesi accusatoria, è credibile tutto e solo ciò che la conferma, mentre è frutto di inganni preordinati o di simulazioni tutto ciò che la smentisce. Non ci troviamo soltanto di fronte a un tipico caso di quello che Cesare Beccaria stigmatizzò come «processo of­fensivo» nel quale, egli scrisse, «il giudi­ce diviene ne­mico del reo» e «non cerca la veri­tà del fatto, ma cerca nel pri­gioniero il delitto». Qui s’intende screditare come impensabili e non credibili le virtù civili e morali dell’ospitalità, del disinteresse e della generosità.

È lo stesso pregiudizio che è alle spalle delle norme che penalizzano coloro che salvano i migranti in mare. Non è pensabile che essi dedichino tempo e denaro soltanto per generosità, che non abbiano degli sporchi interessi, che non siano in qualche modo collusi con quanti organizzano le fughe di questi disperati dai loro paesi. Perché l’egoismo, l’imbroglio è la regola. Perché c’è sempre un secondo scopo. È insomma necessario diffamare e screditare l’accoglienza di Riace, perché Riace ha mostrato che è possibile un’alternativa alle politiche crudeli e disumane messe in atto dai nostri governi e dalle nostre amministrazioni. Giacché il modello Riace, per il solo fatto di essere stato praticato con successo, è un severo atto d’accusa contro quelle politiche. Chiunque si sia recato a Riace è in grado di testimoniarlo. E i giudici per primi, prima di giudicare, dovrebbero conoscere: dovrebbero andare a Riace e vedere, con i loro occhi, ciò che nel suo comune Lucano è stato capace di fare.

Dalla pronuncia della sentenza di secondo grado in questo incredibile processo dipende ovviamente la libertà di Lucano. Ma certamente non dipende da essa la sua reputazione, essendo Lucano diventato un simbolo indiscusso, a livello internazionale, non solo delle buone politiche di accoglienza ma anche della buona amministrazione. Ne dipendono invece la reputazione e la credibilità della nostra giustizia. Al di là degli aspetti giuridici dell’infondatezza delle imputazioni mosse a Lucano – primo tra tutti la mancanza del dolo, attestata dalle intercettazioni riportate nella stessa sentenza di condanna che ci dicono tutte della convinzione di Lucano di aver sempre agito a fin di bene – si misurerà, da ciò che i giudici decideranno, la loro volontà o meno di unirsi a quest’opera nazionale di diseducazione civile e morale, consistente nella diffusione dell’idea che il bene e la virtù non sono credibili né possibili, ma sono solo delle ipocrite simulazioni, e che la disumanità delle istituzioni è giusta e inevitabile e possiamo tutti continuare a tollerarla, o meglio a sostenerla e a praticarla, con la dovuta indifferenza

 
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INTERVISTA. L'ex ministro del Lavoro: nel Pse molti partiti più radicali di noi. Con Conte e Calenda intesa possibile. Sul nuovo patto di stabilità disposti a collaborare con Meloni per non tornare all'austerità. Schillaci? Deve chiarire in modo serio i dubbi sulle sue ricerche. Migranti, la narrazione della destra è andata in pezzi, l’uso dell’esercito nei centri per i rimpatri è incostituzionale

Orlando:  «Giusta la svolta a sinistra del Pd. Ma non basta una leader» Andrea Orlando - Ansa

Andrea Orlando, deputato Pd, ex ministro del Lavoro. La destra al governo litiga sul tasso di durezza da usare contro gli immigrati. Ma appare in difficoltà.

Si sta rompendo una narrazione che dura da vent’anni: parlavano di sostituzione etnica e sostenevano che i flussi fossero più o meno ampi in base al tasso di buonismo di chi stava al governo in Italia. Ora che al governo ci sono i “cattivi” il loro racconto si mostra per quello che è sempre stato: propaganda. Viene colpito il cuore dell’identità di questa destra. Vedo che tra le opposizioni c’è chi accusa Meloni di non essere abbastanza cattiva: è un errore. Temo invece che dal loro spiazzamento emergano risposte ancor meno efficaci nel governo dei flussi, come l’uso delle forze armate nei centri per il rimpatrio. Sarebbe la prima volta dal 1945 che in luoghi di restrizione delle libertà non operano forze di polizia ma l’esercito. Credo che ci siano forti dubbi sulla costituzionalità di simili provvedimenti. Sarebbe sicuramente una scelta di fortissimo impatto simbolico.

La premier chiede che non ritornino le regole di stabilità europee pre- Covid e vi accusa di non collaborare con il governo contro gli euroburocrati.

E invece noi come Pd siamo disponibili a fare una battaglia comune per evitare che torni il vecchio patto di stabilità, per escludere gli investimenti sulla transizione ecologica, le infrastrutture e il sociale dalla morsa del deficit. Mi pare però che il governo preferisca abbaiare a distanza, piuttosto che giocare la partita a Bruxelles. Forse perché Meloni è distratta dal gravoso impegno di difendere Dio, come ha detto Budapest.

Queste uscite scomposte mostrano una maggioranza che inizia a scricchiolare?

Fino a qui la loro è stata una navigazione relativamente tranquilla, condita da qualche misura propagandistica, inerziale, sulla scia di quanto fatto da Draghi. Ora stanno arrivando le prime vere difficoltà, e le risposte sono sempre dei diversivi di tipo identitario. La competizione col Salvini sovranista può spingere Meloni a una sorta di richiamo della foresta, aumentando il tasso di scontro con l’Ue, come è parso nel viaggio a Budapest.

Il Pd ripeterà lo schema dei difensori dell’Europa del rigore?

Come ho detto, proponiamo una battaglia comune contro l’austerità, un patto alla luce del sole. Schlein a Ravenna ha mandato questo messaggio al governo, ma la riposta della premier è stata desolante: non ha alcuna capacità di unire il paese nel nome dell’interesse nazionale. E se la prende ingiustamente con il commissario Gentiloni.

L’opposizione divisa e litigiosa in questo anno è stata un vantaggio per il governo.

Il paesaggio dopo le elezioni del 2022 era effettivamente questo. Con la proposta comune sul salario minimo qualcosa è cambiato, e non a caso il governo è andato in difficoltà. Questo esempio deve fare scuola anche su altri temi.

La ricostruzione di una coalizione di centrosinistra procede a passo lentissimo. La crisi economica e sociale non richiede tempi più rapidi?

C’è una vulgata che dice che prima delle europee non si potrà fare quasi nulla. Non condivido. In primo luogo occorre preparare un turno amministrativo che prevede le coalizioni. E poi non possiamo prevedere come evolverà la situazione della maggioranza. Le difficoltà economiche potrebbero accelerare la loro crisi. E non è detto che, di fronte una destra che alza i toni in modo pericoloso, il popolo di centrosinistra non obblighi i gruppi dirigenti a darsi una mossa. Per questo penso che le opposizioni debbano subito elaborare proposte comuni sulla manovra e sul no a una deriva presidenzialista, contrapponendo però un’ipotesi alternativa di riforma istituzionale.

Mettere insieme Conte e Calenda pare quasi impossibile.

La proposta sul salario minimo dice che le distanze sono più il frutto di pregiudizi o di divisioni del passato che non di reali divergenze sulle scelte di oggi. Vedo in Calenda una sincera preoccupazione sul rischio di involuzione del quadro italiano. E continuare ad associare il M5S alle battaglie di dieci anni fa mi pare un esercizio strumentale. Le difficoltà ci sono, ma ci sono anche delle potenzialità.

Il Pd dell’era Schlein è un partito di estrema sinistra, che rischia di diventare più piccolo?

Col Pd a vocazione centrista nel 2018 ci siamo fermati al 18%. Dunque mi pare singolare e sospetto che un riposizionamento a sinistra possa essere interpretato di per sé come una riduzione delle nostre ambizioni. Molte forze socialiste in Europa e nel mondo hanno piattaforme ben più radicali, in particolare sui temi della transizione ecologica, del rapporto tra stato e mercato e dei diritti civili.

Per il Pd è possibile un reale riposizionamento a sinistra, al di là delle intenzioni della segretaria?

Uno spostamento di questo tipo non è mai frutto solo di una leadership, ma è nell’ordine delle cose: la crisi della globalizzazione e l’aumento delle disuguaglianze hanno spinto quasi tutte le forze socialiste in questa direzione. È vero però che il Pd è stato pensato più per competere nella democrazia dell’alternanza che per immaginare un nuovo assetto della società. Per fare questo salto serve un grosso lavoro organizzativo e culturale, non basta un leader.

Percepisce nel partito un malessere per la nuova linea? Teme nuove uscite di cosiddetti riformisti?

In una fase di trasformazione ci può essere disagio, che non deve essere sottovalutato. Non si risolve però rimanendo fermi, ma con più occasioni di confronto. Non si può pensare che le primarie siano l’unico momento in cui si costruiscono il progetto e l’identità del partito. Il malessere non nasce da uno spostamento a sinistra, ma dal rischio di solitudine che deriva da una modalità di funzionamento distorta. Che viene da ben prima di Schlein e che va affrontato.

Che critiche muoverebbe alla leader?

La sua è una sfida improba, ha trovato un Pd in condizioni difficilissime. La spinta di novità delle primarie ha impedito l’implosione. Tra gli osservatori leggo alcuni giudizi sprezzanti e irriguardosi per una leader che si è affermata sul campo con il sostegno di centinaia di migliaia di persone. Guardo ai cambi repentini di valutazione con sospetto: gli anni scorsi ci hanno insegnato che dietro questi scarti ci sono disegni politici, e non solo, che abbiamo compreso solo strada facendo.

Dopo l’inchiesta del manifesto sulle anomalie di alcune sue ricerche scientifiche, cosa dovrebbe fare il ministro della Salute Schillaci?

Le risposte che ha fornito finora non sono soddisfacenti. Deve spiegare nel merito rispetto ai dubbi che sono stati sollevati. Sono state poste questioni serie, non certo bufale o attacchi pretestuosi: il ministro ha il dovere di fornire una risposta altrettanto seria

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