Il Def nasconde le vere intenzioni del governo. Ferrari, Cgil: “È un vulnus democratico. Serve un fisco giusto per un welfare pubblico e universale”
In arrivo da tutta Italia per la manifestazione organizzata da Cgil e Uil per rivendicare la difesa e il rilancio della sanità pubblica e universale, in grado di garantire il diritto alla salute, zero morti sul lavoro, una riforma fiscale equa e giusta, salari dignitosi per un lavoro dignitoso. A leggere il Documento di economia e finanza appena varato dal governo Meloni c’è davvero poco da star tranquilli. Una sorta di cornice quasi vuota, che rinvia a dopo le elezioni europee il disvelamento sia delle reali condizioni dell’economia del Paese, sia le scelte che l’esecutivo – per convinzione o per costrizione – si appresta a prendere con la prossima manovra finanziaria. Ma quello che si legge in chiaroscuro aumenta le ragioni della mobilitazione delle due confederazioni. Tagli e tagli al sociale, mancanza di politica industriale e salariale, un’idea di fisco contraria alla Costituzione e negativa per il Paese. Ne parliamo con Christian Ferrari, segretario confederale della Cgil.
Il fisco è uno dei quattro punti della manifestazione del 20 aprile. Nel Def appena approvato non c’è nemmeno il taglio al cuneo fiscale rivendicato dal sindacato, varato da Draghi e poi rifinanziato da Meloni.
Questa è la prima incognita di un Def che nasconde le reali intenzioni del governo, con l'unico obiettivo di scavallare indenne le elezioni europee. Non sappiamo nulla delle scelte di politica economica che l'esecutivo intende mettere in campo. Consideriamo questo modo di elaborare il Def un vero e proprio vulnus democratico, perché i cittadini dovrebbero essere messi nelle condizioni di votare a ragion veduta e non essere lasciati all’oscuro sulle decisioni che li riguarderanno nell’immediato futuro. Invece la sensazione è che le pessime notizie arriveranno solo a urne chiuse. Senza quadro programmatico, il Def si riduce a una mera fotografia della realtà in essere. E tuttavia non mancano elementi di grande preoccupazione. Il primo: la previsione di Pil per il 2024 è stata ridimensionata dall’1,2% della Nadef all’1%, che però rimane una stima ottimistica rispetto alle analisi dei principali istituti, che fissano la crescita italiana tra lo 0,6 e lo 0,7%. Inoltre, di questo 1%, ben lo 0,9% dovrebbe derivare da un’attuazione tempestiva ed efficace del Pnrr. Due domande sorgono spontanee: dov'è il Pnrr, visto che il ministro Fitto lo ha congelato e “sequestrato” ormai da mesi? Ammesso e non concesso che il 90% della crescita dell'Italia deriverà dal Pnrr, a cosa serve la politica economica e sociale del governo? La verità è che per la prossima manovra di bilancio – tra le misure temporanee che scadono il prossimo 31 dicembre, che richiedono 19 miliardi; la procedura di infrazione per deficit eccessivo che certamente scatterà subito dopo le elezioni europee a carico dell'Italia; il nuovo patto di stabilità che imporrà una stretta alla finanza pubblica – mancano all'appello, a essere ottimisti, almeno 25 miliardi di euro, solo per confermare l’esistente e non cambiare nulla. Ad esempio, che fine faranno i 100 euro netti al mese nella busta paga di 17 milioni di lavoratrici e lavoratori, che derivano dalla decontribuzione e dall'intervento sull'Irpef?
E tutto il resto?
Cosa si intende fare di fronte a una sanità pubblica, già definanziata, che sta implodendo? E per sostenere l’istruzione? E il rinnovo del Ccnl per tre milioni di lavoratrici e lavoratori pubblici, su cui sono state stanziate risorse assolutamente insufficienti nell’ultima legge di bilancio? E sulla previdenza, non si fa nulla per superare la legge Monti-Fornero? Sulle politiche industriali e gli investimenti pubblici extra Pnrr? Continuiamo ad assistere passivamente al processo avanzato di deindustralizzazione che è in corso da tempo? Su tutto questo nel Def non c’è uno straccio di risposta.
Come si lega tutto questo con la riforma fiscale del governo?
Il governo – attraverso la flat tax, il concordato o condono preventivo, non facendo nulla per combattere l'evasione fiscale, anzi premiando settori economici che, a detta dello stesso Mef, hanno una propensione all'evasione del 70% – non fa altro che scaricare interamente sui redditi fissi di lavoratori e pensionati tutte le contraddizioni dell'attuale fase economica. Oltretutto, questo Def fa emergere un ulteriore elemento critico, che riassume tutti gli altri e rappresenta la cifra di fondo dell’azione dell’esecutivo: è scritto nero su bianco che il contributo dei profitti alla crescita inflattiva, che già nel 2022 era del 60%, nel 2023 è ulteriormente aumentato al 70%. Tradotto: il governo sta programmando e assecondando il brutale impoverimento di milioni di lavoratori e pensionati, che ormai sono costretti a utilizzare quote crescenti di risparmio per far fronte alle spese essenziali non comprimibili.
Aumenta l’inflazione a causa dei profitti, ma non si tassano gli extra-profitti…
Non solo non si tassano gli extra-profitti, soprattutto non si interviene nei confronti di un sistema delle imprese che, oltre a scaricare sistematicamente a valle l'aumento dei costi di produzione, oltre a comprimere il costo del lavoro non rinnovando tempestivamente i Ccnl, continua a incrementare i margini, per giunta riducendo pure gli investimenti. Tutto questo, profondamente ingiusto, non fa altro che deprimere ancora di più una domanda interna che, nell'attuale contesto internazionale, rappresenta una leva decisiva per rilanciare la crescita del Paese. La questione che noi poniamo è molto semplice e diretta: di fronte a questa situazione, l'esecutivo intende proseguire con i tagli alla spesa pubblica, in particolare a sanità, scuola, sociale, come ha fatto fin qui e come sembrano confermare le dichiarazioni della presidente Meloni e del ministro Giorgetti? Oppure intende andare a prendere i soldi dove sono, e cioè da extra-profitti, rendite, grandi patrimoni ed evasione, come chiediamo noi? Questo è il nodo politico di fondo.
C’è un’altra questione che il governo sembra non considerare. Se la situazione macroeconomica mondiale è quella descritta dal Def, l'unica possibilità di tenuta del Paese è nel mercato interno. Se i salari continuano a diminuire invece di crescere il mercato interno rimane asfittico.
Affrontare la questione salariale non è soltanto un’esigenza di giustizia sociale, ma un interesse generale del Paese. Aumentare i salari farebbe bene all’intera economia nazionale.
C'è una responsabilità del governo, ma c'è anche una responsabilità delle imprese che rifiutano o ritardano il rinnovo dei contratti.
Con la nostra mobilitazione, infatti, vogliamo contrastare non solo le politiche del governo, ma rivendichiamo anche un cambiamento da parte del sistema delle imprese. Noi diciamo una cosa molto chiara: i contratti vanno rinnovati tempestivamente e adeguatamente. Le imprese non possono pensare di scaricare solo sulla politica e sul fisco la questione salariale, che è innanzitutto e soprattutto una loro responsabilità.
Guardiamo per un momento oltre l'immediato. Un Paese che ha un sistema fiscale, una dinamica salariale come quelli descritti, un’incapacità del sistema delle imprese di pensare a investimenti, un governo incapace di fare politiche industriali, che destino ha?
Ha un destino di declino. Il cuore della strategia del governo è esattamente questo: “Non disturbare chi vuole fare”, come ama ripetere la presidente del Consiglio. Oltretutto, puntando sulla parte più arretrata e meno innovativa del nostro sistema produttivo, come se da lì potesse arrivare la spinta per rilanciare le prospettive dell'Italia. Così il Paese va a sbattere e diventa sempre più marginale anche nella dimensione internazionale, a partire da quella europea. Altro che autonomia differenziata, dovremmo rivendicare politiche industriali ed energetiche comuni a livello di Unione europea, per affrontare le sfide epocali che abbiamo di fronte.
Il 20 aprile in piazza, e poi?
Andiamo in piazza con la Uil su sanità, salute e sicurezza, fisco e salari. Il 25 aprile e il Primo Maggio per difendere e ribadire i valori fondamentali della nostra Costituzione nata dalla Resistenza e fondata sul lavoro. Il 25 maggio saremo a Napoli con la Via Maestra contro il premierato e l’autonomia differenziata, ma soprattutto per un’idea alternativa di Paese e di società: una Repubblica democratica in cui il lavoro torni a essere strumento di trasformazione, di emancipazione e di progresso; in cui il welfare è pubblico e universale; in cui il fisco è equo e progressivo.
I quattro quesiti referendari e poi la legge di iniziativa popolare stanno dentro questo quadro e in che termini?
Assolutamente sì, stanno dentro questo quadro a partire dalla centralità del lavoro. I quesiti referendari che abbiamo depositato in Cassazione, per i quali cominceremo la raccolta di firme il prossimo 25 aprile, partono da un'idea di fondo: sono una grande battaglia di libertà del lavoro e di contrasto a qualsiasi condizione di ricatto, di subalternità e di sfruttamento. O si mette al centro il lavoro come fondamento ultimo della nostra Repubblica e della nostra Costituzione, oppure quella prospettiva di declino di cui parlavo non riusciremo a evitarla
Commenta (0 Commenti)“Lo attesero sottocasa in cinque, tutti squadristi venuti da Milano, professionisti della violenza assoldati dai più stretti collaboratori di Benito Mussolini. L’onorevole Matteotti, il segretario del Partito Socialista Unitario, l’ultimo che in Parlamento ancora si opponeva a viso aperto alla dittatura fascista, fu sequestrato in pieno centro di Roma, in pieno giorno, alla luce del sole. Si batté fino all’ultimo, come lottato aveva per tutta la vita. Lo pugnalarono a morte, poi ne scempiarono il cadavere. Lo piegarono su se stesso per poterlo ficcare dentro una fossa scavata malamente con una lima da fabbro.
Mussolini fu immediatamente informato. Oltre che del delitto, si macchiò dell’infamia di giurare alla vedova che avrebbe fatto tutto il possibile per riportarle il marito. Mentre giurava, il Duce del fascismo teneva i documenti insanguinati della vittima nel cassetto della sua scrivania.
In questa nostra falsa primavera, però, non si commemora soltanto l’omicidio politico di Matteotti; si commemorano anche le stragi nazifasciste perpetrate dalle SS tedesche, con la complicità e la collaborazione dei fascisti italiani, nel 1944.
Fosse Ardeatine, Sant’Anna di Stazzema, Marzabotto. Sono soltanto alcuni dei luoghi nei quali i demoniaci alleati di Mussolini massacrarono a sangue freddo migliaia di inermi civili italiani. Tra di essi centinaia di bambini e perfino di infanti. Molti furono addirittura arsi vivi, alcuni decapitati.
Queste due concomitanti ricorrenze luttuose – primavera del ’24, primavera del ’44 – proclamano che il fascismo è stato lungo tutta la sua esistenza storica – non soltanto alla fine o occasionalmente – un irredimibile fenomeno di sistematica violenza politica omicida e stragista. Lo riconosceranno, una buona volta, gli eredi di quella storia?
Tutto, purtroppo, lascia pensare che non sarà così. Il gruppo dirigente post-fascista, vinte le elezioni nell’ottobre del 2022, aveva davanti a sé due strade: ripudiare il suo passato neo-fascista oppure cercare di riscrivere la storia. Ha indubbiamente imboccato la seconda via.
Dopo aver evitato l’argomento in campagna elettorale, la Presidente del Consiglio, quando costretta ad affrontarlo dagli anniversari storici, si è pervicacemente attenuta alla linea ideologica della sua cultura neofascista di provenienza: ha preso le distanze dalle efferatezze indifendibili perpetrate dal regime (la persecuzione degli ebrei) senza mai ripudiare nel suo insieme l’esperienza fascista, ha scaricato sui soli nazisti le stragi compiute con la complicità dei fascisti repubblichini, infine ha disconosciuto il ruolo fondamentale della Resistenza nella rinascita italiana (fino al punto di non nominare mai la parola “antifascismo” in occasione del 25 aprile 2023).
Mentre vi parlo, siamo di nuovo alla vigilia dell’anniversario della Liberazione dal nazifascismo. La parola che la Presidente del Consiglio si rifiutò di pronunciare palpiterà ancora sulle labbra riconoscenti di tutti i sinceri democratici, siano essi di sinistra, di centro o di destra. Finché quella parola – antifascismo – non sarà pronunciata da chi ci governa, lo spettro del fascismo continuerà a infestare la casa della democrazia italiana”
Antonio Scurati
Commenta (0 Commenti)SCENARI. Con il passare degli anni, sono stati sempre meno gli incentivi ad un’adesione motivata sul piano ideale e politico, e sempre più forti invece quelli legati ad una pratica di potere o comunque alle reti di relazioni personali, e al «controllo» dei circoli
«La moneta cattiva scaccia quella buona», così recita la cosiddetta legge di Gresham: vale anche per la politica. E da qui possiamo partire per cercare di capire cosa mai possa voler dire «riformare il Pd», dopo i recenti episodi di malaffare che hanno coinvolto alcuni suoi esponenti locali.
È possibile parlarne concretamente e seriamente, senza le consuete chiacchiere a vuoto, fatte di luoghi comuni? Se la questione si riducesse solo ai fenomeni di rilevanza penale, la nomina di qualche commissario o alcune espulsioni potrebbero risolvere la faccenda. Ma la teoria delle mele marce non funziona: l’interrogativo di fondo riguarda le radici strutturali di una «cattiva» politica, il modo di essere ordinario del partito, le ragioni che lo rendono permeabile alle scorrerie di un ceto politico poco raccomandabile. Non basta nemmeno invocare la «piazza pulita» che la segreteria dovrebbe fare, per cacciare i cacicchi e i loro manutengoli. Discorsi che lasciano il tempo che trovano, va detto: se anche questi fossero cacciati, ne nascerebbero altri, come la gramigna. È il terreno che deve essere dissodato e risanato, per impedire che ricresca.
Il vero tema è capire come mai il Pd, in gran parte, con le dovute eccezioni, nelle sue espressioni locali e regionali, è organizzato come un reticolo di potentati e di notabilati, che vivono di una rendita di posizione legata all’occupazione delle cariche elettive (anche laddove il partito è all’opposizione). Il cosiddetto pluralismo interno non è legato ad una dialettica di posizioni politiche, ma alla ricerca di un equilibrio tra gruppi di potere spesso ferocemente concorrenti (con tutto ciò che ne può derivare).
La corsa al riarmo dell’Europa prepara l’austerità
Da dove nasce tutto questo? Dalle origini: dall’idea di costruire un partito in cui si combinava un modello plebiscitario (il segretario eletto dal «popolo delle primarie»: espressione tipicamente populista) e un modello di balcanizzazione delle strutture periferiche. Non è vero che gli iscritti non contino nel Pd: non contano nella scelta del segretario e soprattutto nella definizione della linea politica; contano moltissimo invece quando si tratta di eleggere gli organismi dirigenti locali (dove si decidono le candidature). E qui entra in gioco la legge di Gresham: i «cattivi» iscritti tendono a scacciare quelli «buoni».
Fuor di metafora: con il passare degli anni, sono stati sempre meno gli incentivi ad un’adesione motivata sul piano ideale e politico, e sempre più forti invece quelli legati ad una pratica di potere o comunque alle reti di relazioni personali, e al «controllo» dei circoli, in molti casi trasformati nel quartier generale di un capocorrente (come accertò, già dieci anni fa, l’indagine di Fabrizio Barca sul Pd romano). Da qui germinano i cosiddetti signori delle tessere: ma questi signori hanno avuto la vita facile, in tutti questi anni, per il modo stesso con cui è stata concepita la pratica del tesseramento.
Nulla impedisce oggi, in termini statutari, che chiunque possa iscriversi senza alcun controllo e soprattutto, nulla ha impedito che, in molti casi, si sviluppasse il fenomeno dei pacchetti delle tessere: un collettore che ne «compra» in blocco un certo numero, in bianco, e poi le distribuisce ai suoi amici. Il tutto ancor più facilitato dall’idea, persino teorizzata a suo tempo, che il costo delle tessere debba essere «fisso e basso» (come nella pubblicità di una nota catena di supermercati), con conseguenti ricadute negative anche sulle casse del partito. A catena, da tutto ciò, nasce l’ipertrofia del partito degli eletti: altro che apparato di funzionari e burocrati (magari ce ne fossero, verrebbe da dire), a lavorare sono gli staff pagati dalle istituzioni.
Che fare, dunque? Tantissime cose, ovviamente, che dovrebbero trovare la sanzione in un nuovo statuto. Qui se ne possono indicare solo alcune. Intanto, bisogna partire dall’alto, tornando a fare dei veri congressi ed eleggendo organismi (non pletorici, come sono quelli attuali) che siano rappresentativi degli orientamenti politici del partito (costruire delle vere e sane correnti). Congressi fatti sulla base di documenti politici e programmatici, discussi, emendati e votati. E poi, altre misure concrete: ad esempio, è davvero così vintage immaginare che la tessera debba essere consegnata solo individualmente, concordando una quota variabile; o che delle commissioni di circolo vaglino preventivamente le domande di iscrizione? Solo se un partito ha una propria vita collettiva, i fenomeni degenerativi possono essere fermati in tempo.
Tutto ciò non si fa dall’oggi al domani: ma occorre avviare subito la discussione (puntando ad una vera conferenza di organizzazione). È un processo complesso di riconversione, che però deve partire oggi. Più passa il tempo, più appare evidente, per dirla con il Manzoni, che questo partito «non s’aveva proprio da fare»: mal concepito, e peggio vissuto (anzi, deperito). Ma ora c’è, e pensare di disfarsene è difficile, oltre che ingiusto, per le molte energie positive che ancora ci sono al suo interno. Per provare a salvarlo, però, i tempi stringono
Commenta (0 Commenti)LA UE CONTRO IL WELFARE. Si usa dire che stiamo precipitando verso una guerra mondiale “a pezzi”. Possiamo anche aggiungere che stiamo scivolando verso una “economia di guerra”? Alcuni prodromi, in effetti, si intravedono. Due […]
Si usa dire che stiamo precipitando verso una guerra mondiale “a pezzi”. Possiamo anche aggiungere che stiamo scivolando verso una “economia di guerra”? Alcuni prodromi, in effetti, si intravedono.
Due caratteristiche sono tipiche di un’economia che tende verso la guerra: l’aumento del deficit pubblico per finanziare il riarmo e la spinta inflazionistica a danno dei salari.
La mobilitazione delle finanze pubbliche per il rilancio della spesa militare è già in corso. I dati World Bank indicano che nell’ultimo decennio l’Unione europea ha accresciuto la spesa per armamenti di quasi un quarto. L’Italia è andata oltre, con aumenti superiori al 25 percento. Se accettiamo la tesi di un recente manifesto pubblicato dall’istituto Bruegel e dagli altri think-tank europei, siamo ormai nel mezzo di una “nuova guerra fredda”. Considerato che negli anni della “vecchia guerra fredda” l’Italia e il resto d’Europa spendevano per armi oltre il doppio di oggi, c’è da temere che l’incremento della spesa militare sia solo iniziato.
Ma come finanziare una tale corsa al riarmo? Ancora più tagli e privatizzazioni nei servizi pubblici, dalla sanità alla scuola, sarebbe la risposta ideale degli economisti ortodossi. Sarebbe tale anche per i capi di governo che vanno oggi di moda, i quali però sanno pure che la guerra richiede un minimo di consenso popolare. Bisogna allora drenare risorse dalla classe lavoratrice a favore dell’industria delle armi in modo meno plateale, più surrettizio. Il deficit pubblico è la soluzione ottimale. La banca centrale deve favorire questa opzione, abbassando i tassi d’interesse e contrastando i tentativi di liquidazione dei titoli pubblici da parte della finanza privata. In tal modo il disavanzo aumenta senza rischi di crisi finanziaria né di spread ai massimi. Così i banchieri centrali hanno agito fino a qualche tempo fa, ed è il motivo per cui negli ultimi anni abbiamo sentito parlar poco dei cosiddetti “mercati che puniscono gli spendaccioni”. Finché c’è guerra c’è speranza di fare debito.
C’è poi la tendenza inflazionistica. I nessi con l’economia di guerra sono molti, a partire dall’aumento del costo delle materie prime. Ma c’è un legame più insidioso, che si riferisce alle peculiari caratteristiche dell’attuale fase bellica. Abbiamo più volte spiegato che gli attuali venti di guerra sono alimentati dalla svolta degli Stati Uniti – con l’Unione europea al traino – verso una politica protezionista aggressiva, di divisione dell’economia mondiale in due blocchi: gli “amici” occidentali e i loro sodali con cui proseguire gli affari e i “nemici” cinesi, russi e orientali da tenere alla larga. Ebbene, una conseguenza di questo nuovo ordine protezionista è la riduzione dell’efficienza produttiva e l’aumento dei costi e dei prezzi. Naturalmente a scapito della classe lavoratrice: l’Ocse stima che negli ultimi due anni i salari reali orari sono caduti in quasi tutti i paesi occidentali, con un crollo superiore ai sette punti e mezzo in Italia. Il protezionismo bellico spiega una parte rilevante di questo impoverimento di massa.
È importante notare che questi caratteri tipici di un’economia di guerra entrano in contraddizione con il nuovo patto di stabilità e in generale con le regole europee. In base a queste, con la scusa della lotta all’inflazione la Bce è tornata a rialzare i tassi d’interesse, per la felicità dei creditori privati e l’ansia dei debitori. Inoltre, il patto in vigore impone controllo della spesa pubblica e contenimento del deficit. Certo, esiste una clausola richiesta proprio dal governo italiano, che fino al 2027 crea un po’ di tolleranza sull’aumento delle spese militari nell’aggiustamento del disavanzo. Ma è evidente che l’assetto generale delle norme europee è incompatibile con la tendenza verso un’economia di conflitti. Bisogna scegliere: o austerity recessiva o guerra inflazionista.
A Bruxelles c’è chi ritiene che il nuovo patto sia nato già vecchio, poiché non tiene conto della necessità di adeguare il sistema produttivo alle montanti esigenze belliche. Un inasprimento dei fronti di guerra potrebbe rendere inevitabili clausole più generose per favorire il deficit e l’inflazione. Meloni e Giorgetti un po’ ci sperano
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Per rimanere al potere la strategia «iraniana» del premier israeliano è una pistola puntata contro il mondo, Biden compreso. Cancellando la Palestina e il massacro in corso a Gaza
Benjamin Netanyahu durante un sopraluogo nel nord di Gaza - Ap
La trappola è scattata. Netanyahu continuerà a tenere il dito sul grilletto con il mirino puntato contro nemici e alleati, riluttanti o meno. Con l’attacco all’ambasciata iraniana a Damasco il primo aprile (in cui è morto anche un generale dei pasdaran) e la conseguente rappresaglia iraniana, in gran parte fermata nei cieli israeliani, ha ottenuto quello che voleva: allargare la guerra e oscurare Gaza dai titoli di prima pagina dei media. La questione palestinese va in secondo piano se deciderà di colpire duramente la repubblica islamica con un conflitto che si potrebbe espandere al Libano, alla Siria, all’Iraq e alla penisola arabica.
Nessuno potrà tenersi fuori, questo è l’obiettivo del premier che vuole coinvolgere tutti per tenersi in sella al potere _ questi sono i suoi calcoli – almeno fino alle elezioni americane di novembre. Ha ottenuto immediatamente con il suo spericolato cinismo la solidarietà militare degli Stati Uniti e di quei governi europei che hanno partecipato all’operazione contro droni e missili iraniani. E ora si parla insistentemente di una coalizione internazionale anti-Iran.
E’ vero che gli Usa e il G-7 hanno detto che non parteciperanno a un’eventuale attacco israeliano diretto contro Teheran. Ma si tratta di una posizione che potrebbe repentinamente cambiare: basta immaginare cosa potrebbe accadere se l’eventuale contro-rappresaglia verso l’Iran fosse seguita da un altro attacco di Teheran contro Israele. Netanyahu e il suo gabinetto di guerra infatti non hanno per niente rinunciato ad attaccare di nuovo gli ayatollah. E dopo avere detto che gli Usa sono al fianco di Tel Aviv in maniera “ferrea” diventerebbe assai sottile la differenza tra una guerra di attacco e una di difesa.
I capi delle potenze occidentali si sono già ampiamente sbilanciati a favore del premier e delle sue iniziative militari dissennate. Nessuno, tranne il segretario dell’Onu Guterres, ha condannato l’attacco israeliano del primo aprile all’ambasciata dell’Iran a Damasco che ha violato il diritto internazionale, la sovranità iraniana e anche quella siriana. In poche parole hanno applicato il solito doppio standard che è il vero e radicato motivo delle guerre in Medio Oriente. Del resto c’era da aspettarselo in una regione dove gli occidentali hanno invaso l’Iraq di Saddam Hussein nel 2003, attaccato la Libia di Gheddafi nel 2011 e fatto di tutto pur di sbalzare dal potere il siriano Assad. Ogni occasione è buona per eliminare qualche potenza mediorientale e fare di Israele l’unico guardiano (e potenza atomica) della regione. Con l’Iran la via diplomatica è stata abbandonata presto: nel 2015 Obama firmò l’accordo sul nucleare con Teheran – al quale per altro non si diede quasi seguito – mentre Trump ebbe gioco facile a uscire dall’intesa nel 2018 e a riconoscere Gerusalemme occupata capitale dello Stato ebraico contro tutte le risoluzioni Onu.
Indovinate un po’ chi è il candidato preferito da Netanyahu alla presidenza Usa? La verità è che qui ci facciamo beffe del diritto internazionale e Trump può essere l’uomo giusto per il premier ebraico. Il tycoon è disponibile ad arrivare a un accordo con Putin, che ha invaso un altro Paese, riconoscendone la sfera di influenza, ma non con l’Iran degli ayatollah e vuole mettere sotto il tappeto con il Patto di Abramo la questione di uno Stato palestinese, cosa che per altro ha fatto anche Biden. Ecco perché Netanyahu tiene la pistola puntata anche contro l’attuale presidente Usa e allo stesso tempo si prepara a fare pressioni sul Congresso Usa per ottenere oltre 17 miliardi di dollari di aiuti militari. Forse solo questo potrebbe trattenerlo da uno “strike” contro Teheran, che per altro troverebbe il modo di giustificare in qualche maniera. Il ricatto alla Casa Bianca è evidente.
La realtà è che quando ci si mette nelle mani di un governo estremista d’estrema destra come quello attuale di Israele può accadere qualunque cosa. Ma soprattutto possono verificarsi gli eventi più prevedibili. In primo luogo non finiranno i raid israeliani in Siria dove si è combattuto un conflitto con l’Iran definito in questi anni la guerra “invisibile”: ora può diventare un conflitto sempre più aperto in un territorio dove Israele occupa dal 1967 il Golan e dove di trovano le basi russe, quelle americane, della Turchia, oltre alle milizie di pasdaran, Hezbollah e alle formazioni jihadiste, Isis compreso. Una polveriera. Ma soprattutto gli israeliani vogliono punire il Libano degli Hezbollah, alleato cardine di Teheran. Qui il casus belli, come avvenne già nel 2006, non serve neppure crearlo, c’è già.
E cosa faranno gli iraniani? Il lancio di centinaia di droni e missili – colpiti dai sistemi di difesa anti-missilistica – era diretto al “pubblico” vero degli ayatollah, non tanto l’opinione interna, ignorata o manovrata dalla propaganda, quanto agli alleati di Teheran nella regione (Hezbollah, Houthi yemeniti, milizie sciite irachene) e agli avversari arabi dell’Iran nella regione, soprattutto verso quel Golfo che Teheran vuole assolutamente “Persico” dove è di stanza la sesta flotta Usa. Ma gli iraniani, al contrario dell’iracheno Saddam, non hanno nessuna intenzione di combattere contro Israele e i suoi alleati la “madre di tutte le battaglie”. Il loro obiettivo è la sopravvivenza al potere, come del resto Netanyahu, che non ha nessuna intenzione di togliere il dito dal grilletto. Con lui lo scontro finale continuerà ad aleggiare come un incubo sul Medio Oriente. L’unica alternativa sarebbe la diplomazia ma passa inevitabilmente da una soluzione al dramma palestinese e alla guerra in corso a Gaza. Netanyahu non la vuole e noi siamo sicuri di volerlo?
Commenta (0 Commenti)ISRAELE/PALESTINA. L’attuale quadro di scontri sinora a bassa intensità con Teheran si collega al «grande gioco» globale per l’egemonia regionale in Medio Oriente
La nave sequestrata nello Stretto di Hormuz
«Chiediamo all’Iran di non attaccare Israele», questo il mantra distopico che l’amministrazione Biden continua a recitare nella ben mediatizzata, spasmodica attesa d’una qualche risposta armata del governo dittatoriale degli ayatollah all’attacco israeliano contro il consolato iraniano a Damasco del primo aprile 2024.
L’ultimo e il più grave della serie di attacchi militari che negli ultimi mesi Israele ha compiuto contro la presenza militare dell’Iran (e dei suoi alleati dell’«Asse della resistenza») nei territori teoricamente sovrani di Siria, Libano, Iraq e Yemen. Dopo il massiccio e brutale attacco di Hamas del 7 ottobre nel sud di Israele, l’Iran e Hezbollah, il suo principale alleato regionale, si sono presto preoccupati di dichiararsi ignari ed estranei all’attacco, per evitare di essere coinvolti in un scontro diretto e generalizzato con le forze armate israeliani e i presidi militari nella regione del loro alleato americano.
DA ALLORA IN POI e nei sei mesi seguenti si è sviluppato un conflitto a bassa intensità, in cui l’Iran e i movimenti sciiti suoi alleati in Iraq, Libano, Siria e Yemen hanno condotto attacchi contro Israele, gli Usa e i loro interessi in Medio Oriente. (Ricordiamo en passant che gli Houthi, che non sono dei “ribelli”, bensì un movimento politico sciita d’opposizione alla dittatura sorto negli anni ’90, che dal 2014 controlla la capitale e due terzi del territorio dello Yemen, nonostante una feroce campagna militare condotta contro di loro da una coalizione internazionale a guida saudita, tesa a restaurare gli interessi minati dalle rivolte della Primavera araba).
Questo attuale quadro di scontri sinora a bassa intensità con l’Iran si collega al «grande gioco» globale per l’egemonia regionale in Medio Oriente, che dallo scoppio della guerra civile in Siria nel 2011 ha visto il ritorno della presenza militare russa, il progressivo spostamento dell’asse degli interessi economici e strategici del paesi petroliferi del Golfo – Iran incluso – verso la Cina. Specie dopo il disimpegno della politica Usa dal Medio Oriente iniziato già con Obama. E non a caso è stata proprio la Cina a portare Iran e sauditi a firmare un accordo nel marzo 2023 che ha (per il momento) frenato la loro sfida per l’egemonia regionale (e non dimentichiamo che entrambi i paesi si stanno dotando di armi nucleari…).
DUNQUE, UNO DEGLI OBIETTIVI attuali della strategia Usa nella regione (sempre che ne esista davvero una) è quello di riconquistare i paesi del Golfo, riportandoli sotto il proprio «ombrello di sicurezza», di cui Israele è un pilastro nella regione e altrove.
Alla luce di tutto questo sembra chiaro quale sia l’intento dell’Israele genocidaria di Netanyahu: alzare il livello dello scontro con l’Iran per provocare una risposta militare iraniana che giustifichi gli Usa a non abbandonarne la difesa ad oltranza, nonostante la (relativa) disobbedienza nella condotta della sua guerra contro i palestinesi a Gaza e in tutti i Territori palestinesi occupati
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