CRISI UCRAINA. L'Italia hub mondiale della produzione bellica. Nel 2021 record dell’export di armi: oltre 4,7 miliardi di euro. In campo la fusione Fincantieri e Leonardo. L’«occasione» ucraìna
Armi statunitensi dirette in Ucraina - Ap
Se c’è ancora qualcuno che si domanda per quale ragione il cosiddetto piano italiano per la pace sia stato accolto dalle parti in causa e nell’ambito internazionale con reazioni oscillanti fra il disinteresse e il rifiuto, può forse trovare una risposta più plausibile in quel che accade in queste ore.
L’artiglieria pesante italiana è entrata in azione del Donbass. Si tratta dei cannoni FH70, esito di un progetto tedesco, inglese e italiano, capaci di sparare tre colpi al minuto centrando obiettivi situati a 25 chilometri di distanza. Fanno parte delle armi letali che il nostro esercito ha consegnato alle forze armate ucraine in attuazione dei tre decreti interministeriali del governo Draghi su cui, essendo secretati, il Parlamento italiano non ha potuto mettere lingua. È evidente che la credibilità di un piano di pace, al di là dei punti in esso contenuti, è minata alle fondamenta dal
Leggi tutto: L’economia di guerra non è più una metafora - di Alfonso Gianni
Commenta (0 Commenti)A gli inizi di maggio (il 6) su questo giornale Filippo Barbera ha introdotto nel lessico politico un’icastica espressione, «sinistra per procura», per indicare la risultante di un’operazione condotta dai margini «coraggiosi» del campo largo onde immettere contenuti di pensiero e azione radicale nel corpo centrale della coalizione. Vorrei aggiungere qualche altra considerazione a quelle, già critiche, di Barbera. Può una «sinistra per simmetria» funzionare davvero come «sinistra per procura»?
Dipende dalle possibili utilità marginali. La «sinistra per simmetria, infatti, proprio come nella teoria economica detta (impropriamente) neoclassica, che è poi il fondamento della sua pratica di politica economica e sociale, ha nei «margini» la possibilità di cercare il profitto della propria azione di imprenditoria politica. Come in tutte le strutture consolidate in processi di lungo periodo, nel nostro caso trent’anni, l’equilibrio del nucleo centrale non è mai in discussione, ciò significherebbe un inconcepibile e radicale mutamento di paradigma. Ai margini, però, possano essere affidate variabili autonome. Naturalmente non fino al punto di risultare contraddittorie con l’impianto sorrettivo della struttura.
È questo il punto dirimente, perché sono le ragioni profonde della struttura politica a determinare le bande di oscillazioni marginali e, dunque, il movimento ai margini non può appartenere altro che alla dimensione della tattica. Della tattica, appunto, è il modo di sollevare un’aura suggestiva che sollecita pensiero desiderante, ma, nello stesso tempo, conserva lineamenti sfumati, rimane avara di indicazioni sui percorsi e rifugge da far ricorso a dati di fatto.
È un dato di fatto che il Pd sia oggi la più seria e motivata forza politica della maggioranza a sostegno del programma di un grand commis del capitale finanziario in ogni ruolo esercitato nella sua lunga e luminosa carriera. Il Pd condivide del tutto un programma e un’azione di governo nei quali politica economico-sociale interna e ordine internazionale sono coniugati e garantiti dalla visione «Occidentale» e dalla forza Usa-Nato. La coppia Draghi-Guerini (quest’ultimo già vicesegretario del Pd) ha ben rappresentato nell’incontro di Ramstein, enclave statunitense in territorio tedesco, la convinta partecipazione italiana a quella concezione dell’ordine internazionale.
«A historic meeting», come ha definito l’incontro il ministro della difesa statunitense che lo ha convocato. Si è trattato, infatti, di un vero e proprio consiglio di guerra le cui decisioni comportano un salto di qualità nel conflitto e trascendono ormai, senza cancellarle ovviamente, le logiche del confronto militare tra aggressore e aggredito. Una guerra in cui l’Italia di Letta e Draghi è cobelligerante.
Il nucleo centrale della «sinistra per simmetria» si configura come un insieme coeso, coerente in quei fondamenti che legano la dimensione interna e quella esterna degli equilibri neoliberali così come concepiti dall’ «Occidente». L’«Occidente» delle oligarchie economico-politiche, non quello della grande tradizione critica dei presupposti di tali poteri. Le utilità marginali, quindi, si giocano su uno spazio molto ristretto; sono davvero «marginali» e non nel senso della teoria economica, bensì nel senso che riguardano solo la nebulosa leggerezza delle parole e non la dura pesantezza delle cose.
In fondo abbiamo davanti agli occhi un esempio elettoralmente riuscito del movimento dei «coraggiosi», prima ai margini e poi inserito al centro dell’esercizio del potere politico in una regione importante come l’Emilia-Romagna. Si è verificata una qualche inversione di tendenza sugli aspetti strutturali delle politiche di Bonaccini e del suo partito? Particolarmente indicativa al proposito la questione dell’autonomia differenziata di cui Bonaccini è uno dei principali sostenitori.
Poco più di un mese fa Zaia, che giustamente rivendica al referendum veneto del 2017 l’aver aperto la strada al percorso dell’autonomia differenziata, ha affermato che tale obbiettivo «è sempre più realtà», e che «siamo arrivati all’ultimo miglio». L’autonomia differenziata è, a livello regionale, il rispecchiamento della ragione neoliberista, il cui tratto distintivo consiste nella messa in concorrenza di tutti i fattori che direttamente o indirettamente producono plusvalore: aree geopolitiche ben comprese.
L’Europa di Mastricht, dove uno spazio formalmente unito è in realtà concepito e praticato come luogo di Stati messi in concorrenza, dove le vittorie di alcuni sono sconfitte per altri, ne è un esempio perfetto. Se l’iter andrà a buon fine l’Italia che ne uscirà avrà incorporato Mastricht al suo interno. Si avrà un’inevitabile concorrenza con gli altri sistemi-regione per l’ottimizzazione delle proprie risorse.
Risulta forse che i «coraggiosi» emiliano-romagnoli, detentori della vicepresidenza in regione, abbiano ingaggiato una qualche decisiva battaglia per evitare tali esiti? I subalterni nel nostro paese non hanno bisogno né di una «sinistra per simmetria», né di una «sinistra per procura», ma solo di una sinistra capace di ridare senso alle ragioni di quella lunga storia di antitesi ad uno stato di cose che ribadisce costantemente la loro subalternità.
CRISI UCRAINA. Depositato all’Onu da un poco convinto ministro Di Maio senza spiegarlo, il piano italiano sull’Ucraina è contraddetto e «non letto» a Est come a Ovest. Peccato perché sarebbe una buona cosa da sostenere, in linea con la nostra Costituzione e con l’opinione pubblica del Paese. L’unica in cui non si parla di missili e cannoni
Mario Draghi e Luigi Di Maio - LaPresse/Roberto Monaldo
Che ci sia ognun lo dice ove sia nessun lo sa. L’amore degli amanti del Metastasio è come il piano di pace italiano per l’Ucraina: chi l’ha visto? È stato «depositato» alle Nazioni unite.
Ma come se il Palazzo di Vetro fosse una buca delle lettere, senza spiegarlo a nessuno, quasi scappando via da qualche cosa di cui non dico vergognarsi ma non essere troppo coinvolti, il piano italiano, impallinato da Est e Ovest, sembra che non l’abbia letto nessuno.
Peccato perché sarebbe una buona cosa da sostenere, in linea con la nostra Costituzione e con l’opinione pubblica del Paese. In più è anche l’unica iniziativa, al momento, in cui non si parla di missili e
Leggi tutto: Un «piano di pace» buttato nella buca delle lettere - di Alberto Negri
Commenta (0 Commenti)LEGGI. Il 70% dei lidi è occupato da stabilimenti balneari che pagano canoni irrisori per gestire affari da 15 miliardi di euro all’anno. In questi giorni è braccio di ferro tra governo e maggioranza sulle gare e la trasparenza delle concessioni pubbliche che l’Europa ci impone
Non dovremmo occuparci di spiagge solo perché l’Europa ci ha messo in mora per violazione delle direttive che prevedono di assegnare le concessioni balneari tramite procedure di evidenza pubblica. Il futuro delle aree costiere italiane non è infatti una questione a cui guardare attraverso le lenti deformate di una cronaca che rincorre le proteste dei balneari che si sentono espropriati da spazi che oramai consideravano di loro proprietà. Altrimenti rischiamo di non renderci conto che stiamo parlando di un bene pubblico inalienabile, come stabilisce il codice civile italiano e come stabiliva, già molti secoli fa per i litora maris, il codice di Giustiniano.
IL PROBLEMA E’ CHE DA MOLTO TEMPO abbiamo trascurato e lasciato le aree costiere in una situazione che non ha paragoni al mondo. I dati sono impressionanti, in nessun altro Paese in Europa troviamo una situazione paragonabile a quella italiana di cessione delle spiagge alla gestione privata. Mediamente metà delle spiagge è dato in concessione ma con situazioni incredibili. Per farsi un’idea, nel Comune di Gatteo, in Romagna, non esistono più spiagge libere, ma situazioni simili le troviamo da Rimini a Forte dei Marmi, da Pietrasanta a Laigueglia. Dovrebbero far riflettere i numeri che si trovano in Liguria, Emilia-Romagna e Campania, perché quasi il 70% dei lidi è occupato da stabilimenti balneari e le poche aree senza ombrelloni a pagamento sono quelle intorno a fossi e scarichi in mare, spesso non balneabili.
IN ALCUNE REGIONI SI E’ PROVATO A PORRE dei limiti all’estensione delle concessioni ma continua a mancare, a differenza degli altri Paesi europei, una norma nazionale che fissi regole per garantire il diritto di accedere e fruire liberamente della costa, insieme a criteri per la progettazione e gestione delle strutture, per evitare che si continui a distruggere dune ed ecosistemi attraverso strutture in cemento armato e pavimentazioni. E mentre questi processi procedono inesorabili non ci accorgiamo che le spiagge italiane stanno scomparendo per via dell’erosione costiera, che riguarda oramai circa il 46% delle coste sabbiose, con i tratti di litorale soggetti ad erosione triplicati dal 1970.
CRESCONO LE SPIAGGE IN CONCESSIONE. In Italia le spiagge affidate ai privati continuano ad aumentare. Sono 12.166 le concessioni dai dati dell’ultimo monitoraggio del Sistema informativo demanio marittimo, con un aumento del 12,5% in 3 anni, e un record in Sicilia dove l’aumento è stato del 42%. La ragione è molto semplice, gestire una spiaggia è un ottimo affare, perché a fronte di canoni bassi i guadagni sono sicuri. Il problema è che non solo non esistono limiti nazionali alle spiagge in concessione, ma sono anche scarsi i controlli rispetto alla qualità dell’offerta e al rispetto delle regole. Se infatti si guarda al modo in cui sono gestiti gli stabilimenti a stupire è soprattutto l’incredibile diversità delle situazioni che si incontrano.
DI POSITIVO C’E’ CHE SONO IN CRESCITA le esperienze di gestione virtuosa con attenzione alla sostenibilità e tutela ambientale, con energia da fonti rinnovabili e materiali naturali, che garantiscono l’accessibilità per tutti. Ma il problema è che in tante altre spiagge la situazione è scandalosa. Come a Ostia, dove sono stati alzati muri lunghi chilometri che impediscono di vedere il mare e di accedervi se non paghi, o a Pozzuoli dove sono reti e barriere a impedire l’accesso a un mare di fatto privatizzato, solo per citare due casi.
IL PASSAGGIO ALLE GARE POTREBBE diventare l’occasione per avere informazioni complete sulle concessioni, per verificare il rispetto delle regole, ma prima bisognerebbe scegliere in quale direzione si vuole portare il turismo costiero e da che parte si sta. Perché non è tutto uguale, non si può difendere sia la conduzione familiare degli stabilimenti, chi punta su sostenibilità e tutela dell’ambiente, ma anche coloro che invece hanno asfaltato le dune per costruirci parcheggi abusivi o che costruisce muri per gestire la spiaggia come se fosse proprietà privata.
CANONI E GUADAGNI. I DATI SU QUANTO pagano gli stabilimenti sono da sempre ragione di polemica. Gli ultimi disponibili raccontano di 115 milioni di euro all’anno, ma risultano ancora da versare 235 milioni di canoni non pagati dal 2007. L’attenzione mediatica si concentra quasi sempre sulla distanza tra questa cifra e il giro di affari degli stabilimenti balneari, che è stato stimato da Nomisma in almeno 15 miliardi di euro annui. Ma è da sottolineare anche l’enorme differenza tra gli stabilimenti di Forte dei Marmi o della Sardegna, mete di turismo internazionale e con prezzi esorbitanti, ed invece stabilimenti di realtà in particolare del sud dove gli ombrelloni si affittano per poche settimane all’anno e con prezzi non paragonabili. Anche qui, ridefinire il quadro delle regole può essere l’occasione per fare trasparenza e garantire controlli rispetto ai tanti contratti di subaffitto.
DI SICURO E’ URGENTE AGGIORNARE I CANONI e legarli ai guadagni, ampliando le differenze in funzione delle caratteristiche delle località con premialità legate alle modalità di gestione e agli interventi di riqualificazione ambientale messi in atto dal concessionario. Una novità da introdurre, su cui sono d’accordo anche i balneari, è che una parte del canone rimanga ai Comuni e che si crei un fondo nazionale per interventi di riqualificazione e valorizzazione ambientale dell’area costiera, in modo da finanziare interventi di ripascimento delle spiagge per combattere l’erosione costiera, demolizione di edifici abusivi, tutela delle dune, accessibilità pedonale e ciclabile.
LO SCONTRO IN CORSO. I PROSSIMI GIORNI saranno decisivi per capire come si concluderà il braccio di ferro in corso tra governo e maggioranza sulle gare e la trasparenza delle regole per le concessioni balneari. Al centro del confronto è il disegno di legge sulla concorrenza, tenuto in ostaggio dai partiti per ottenere modifiche ad un testo approvato in Consiglio dei Ministri a febbraio che prevede dal 2024 procedure di evidenza pubblica per l’assegnazione delle spiagge, dando così seguito a innumerevoli sentenze europee e italiane.
PER IL GOVERNO IL TESTO VA APPROVATO entro maggio, altrimenti salta una delle riforme tra gli impegni presi dal nostro paese con il recovery plan, e potrebbe esserci uno stop ai trasferimenti di risorse. I partiti, con in prima fila la Lega, chiedono invece una proroga dei termini con la promessa ai balneari che, dopo le elezioni, la situazione con Bruxelles verrà in qualche modo risolta e le gare cancellate, al limite con cessioni di proprietà demaniali. Ci sarà da seguire con attenzione la decisione finale, perché se si mettono in fila le questioni si comprende come lungo gli ottomila chilometri di aree costiere italiane si stia giocando una partita che va molto oltre le concessioni ma che riguarda il futuro del Paese. Perché si parla di ambiente e di diritti, di lavoro e di turismo per ampliare, qualificare e diversificare l’offerta. Di rilancio di tante aree costiere degradate da abusivismo e mancata depurazione.
GLI OLTRE SEIMILA E QUATTROCENTO chilometri di coste sabbiose e rocciose, inframezzate da porti, borghi e infrastrutture sono uno straordinario patrimonio del nostro Paese che ha bisogno di un progetto di tutela e valorizzazione. Che ad esempio punti a tutelare e rendere fruibili i tratti di costa di maggior pregio, allargando il patrimonio di aree naturali di proprietà pubblica, come sta facendo da tempo la Francia con il Conservatoire du Littoral e come sta avvenendo in diverse regioni spagnole. E che, in parallelo, consenta di portare avanti progetti di adattamento climatico e riqualificazione di tante aree che rischiano in questo secolo di subire enormi cambiamenti per l’innalzamento del livello dei mari, per l’impatto di trombe d’aria, alluvioni, ondate di calore.
* vicepresidente nazionale di Legambiente
Commenta (0 Commenti)Post ideologico e post identitario, il Pd è ancora nella scia blairiana che regala alle destre populiste i temi propri della sinistra, come il lavoro e la classe operaia
E una questione salariale che ha perduto centralità nel dibattito politico. In realtà la questione è più grave e generale perché riguarda l’intera problematica del lavoro, da decenni gravata da un “oscuramento teorico” che è causa ed effetto della sua crescente “invisibilità politica”. La mancata illuminazione teorica della problematica del lavoro è all’origine dell’omissione, anche da parte della sinistra, di un compito cruciale – rappresentare e mediare i conflitti sociali –, a sua volta alla base della perdita di autorevolezza e autorità della politica italiana, anche quella di sinistra. Tutto ciò è importante in sé e spinge a chiedersi: perché i processi di svalutazione del lavoro sono stati così poco contrastati anche sul piano teorico e culturale? Perché ci si è attardati nella puerile esaltazione della “fine del lavoro”? Perché, anche a sinistra, si è stati così frettolosi nell’archiviare il Novecento, “secolo del lavoro”?
Ma tutto ciò è importante anche perché è parte integrante di quella riflessione sul “neocentrismo” (le elezioni si vincono solo al centro e per questo bisogna rassegnarsi al moderatismo, “disintermediando” e abbandonando una volta di più i riferimenti sociali tradizionali) che si è riaperta nella politica italiana e che chiama in causa soprattutto il Partito Democratico, il quale si propone come promotore di un “campo largo” di centro-sinistra.
Ora ci sarebbe finalmente l’occasione di chiarire alcuni equivoci di fondo, mai adeguatamente discussi, che hanno presieduto alla stessa nascita del Pd: a) la presupposizione tacita che il partito democratico dovesse essere sostanzialmente un partito “moderato” (per questo travalicante l’asse destra/sinistra); b) l’idea che il partito democratico, in quanto “post-ideologico”, dovesse anche essere “post-identitario” (per questo privo di referenti sociali primari).
È Habermas che, nel commentare la “mobilitazione del risentimento” operata dai dilaganti populismi e la capacità di un seduttivo “populismo di destra” di “rubare” temi propri della sinistra (compresa l’attenzione al lavoro e alla classe operaia), denunzia la mancanza di “ogni tempra politica” nella sinistra stessa, desertificata dalla sua interminabile soggezione alla Terza Via di Blair, e indica nella riscoperta di un autentico discrimine destra/sinistra e in una “polarizzazione democratica” – l’opposto della convergenza al “centro” – la via per la rinascita. La sinistra è chiamata a una più perspicua rappresentazione di ciò che ha provocato l’avvento del neoliberismo, facendo fino in fondo i conti con esso e disperdendo quell’alone di “inspiegato” che persiste attorno a narrazioni deterministiche della globalizzazione sregolata, dell’ondata di privatizzazioni, della ipertrofia finanziaria, della precarizzazione del lavoro, come se fossero stati fenomeni ineluttabili, naturalisticamente necessitati e non veicolati da una precisa intenzionalità politica.
Ne discenderebbe anche una più puntuale identificazione, e ammissione, degli errori compiuti dalle sinistre nel traumatico passaggio dai “trent’anni gloriosi” al neoliberismo. Se il lavoro e il “senso di responsabilità collettiva” affidato alle istituzioni pubbliche sono state le grandi vittime del neoliberismo, il drastico indebolimento della sfera lavorativa e delle forze sociali che di essa vivono e ad essa si ispirano a cui abbiamo assistito negli ultimi trent’anni ha certamente qualcosa a che fare con le Terze Vie à la Tony Blair, di cui non ci si può limitare a segnalare che volevano cambiare il neoliberismo “dall’interno”. Ma gli va chiaramente imputata la fallacia delle convinzioni secondo cui i rischi del mercato del lavoro non esistevano più, i ceti medi erano corposamente entrati nella categoria dei detentori di asset patrimoniali e finanziari, non c’era più bisogno del welfare state. Anche l’ostilità allo Stato è stata alimentata da anni di nefasta teorizzazione di matrice blairiana della superiorità delle pratiche di governance su quelle di government, esplicitamente indicate, e auspicate (si pensi in Italia ai numerosissimi scritti di Sabino Cassese), come metodi di “amministrativizzazione” mediante “depoliticizzazione”.
Qui siamo al punto cruciale, perché qui – sul lavoro e sul senso di “responsabilità collettiva” espresso dalle istituzioni pubbliche, che non possono essere privatizzate, né depoliticizzate – passa nuovamente la discriminante destra/sinistra. Si impone un grande investimento culturale, la necessità di un largo sforzo di discussione e elaborazione collettiva che da una parte incorpori ricerca e analisi, dall’altra si cimenti con la produzione di nuovo pensiero e di nuova teoria. I compiti immani di fronte a noi sono affrontabili solo attraverso la collegialità, la condivisione, la partecipazione, il concorso di molte intelligenze, l’attivazione di tutte le passioni.
Commenta (0 Commenti)L'INTERVENTO. Le disuguaglianze aumentano, ma non possiamo arrenderci
È tempo di smetterla di mantenere, anche senza volerlo, l’idea che la disuguaglianza, rispetto ai diritti alla vita, in particolare la povertà, sia un fenomeno «naturale», inevitabile, insolubile, se non localmente e per certe categorie sociali. Dobbiamo riaffermare che la povertà è un processo, una costruzione sociale, il risultato dei processi d’impoverimento, provocati e mantenuti dai gruppi sociali dominanti, per l’appunto gli «impoveritori».
Il più sovente, la dovizia di dati che fanno pensare, le cifre intollerabili, i rapporti annuali sulla povertà estrema, sui miliardari in continua crescita e gli impoveriti in condizioni di vita sempre più estreme, terminano con petizioni ai potenti di diminuire le ingiustizie, appelli ai governi e agli arricchiti di essere un po’ meno egoisti, inviti generali alla solidarietà ed alla compassione.
Sono più di 50 anni che la litania si ripete, esempio: i rapporti di Oxfam, per non menzionare la moltitudine dei rapporti delle varie agenzie dell’Onu, della Banca Mondiale e, persino, del grande tempio, il World Economic Forum, dove s’incontrano annualmente i principali impoveritori (ed arricchiti) del mondo. Nel frattempo, da due anni tutti sanno che da quando è scoppiata la pandemia Covid- 19, i miliardari sono aumentati di numero (573 ) mentre le persone in condizioni di povertà estrema sono state 263 milioni.
E cosa sta succedendo, al di là delle meritevoli denunce di Papa Francesco e di migliaia di piccole associazioni nei vari angoli della Terra? Niente, di significativo. Proprio ciò che sarebbe dovuto «logicamente» accadere (cambiamenti di sistema) non è accaduto.
Ma dobbiamo essere riconoscenti ai milioni di semplici cittadini che con passione, volontari o remunerati, in tutti i campi (dalla salute, all’assistenza dei più deboli, degli esclusi, dei migranti; dall’infanzia all’educazione, all’alloggio, ai diritti umani e sociali…) fanno in modo che, con le loro azioni, le immense città predatrici del mondo possano essere ancora un po’ vivibili…
Gli impoveritori del mondo, però, continuano le guerre e le devastazioni della vita della Terra unicamente per conservare ed accrescere la loro potenza e continuare il loro furto della vita degli altri e della natura.
Da anni, il grido planetario, «cambiamo il sistema», risuona su tutti i continenti ma anch’esso non sembra smuovere di un centimetro la piccola minoranza degli impoveritori e dei predatori.
Arrendersi? Abbandonare? Cercare di salvarsi? Anche queste soluzioni, oggi predominanti, non sembrano dare buoni risultati, anzi, la paura dell’estinzione di massa cresce così come aumenta la mancanza dii fiducia negli altri.
Non si deve abbandonare, non dobbiamo arrenderci. Dobbiamo denunciare sempre, con forza, senza compromessi, le opere degli impoveritori e dei seminatori di razzismo, classismo, xenofobia, supremazie, in tutti i luoghi, in tutti i momenti.
Dobbiamo imprecare contro il cinismo, l’ipocrisia e la vigliaccheria dei potenti, degli impoveritori e dei predatori, compresa la meschineria degli opportunisti. Dobbiamo infine allearci su scala mondiale perché la storia mostra che i deboli, gli esclusi, gli impoveriti possono sconfiggere le disuguaglianze solo quando sono uniti. Sono invece sconfitti quando, come negli ultimi quaranta anni, si sono divisi e hanno perso la fiducia nella loro capacità di cambiare il corso della storia. Vedi il caso degli operai e degli «intellettuali progressisti».
La storia dell’Umanità e della vita della Terra resta da scrivere. In piedi.
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