Dal punto di vista di una guerra nel cui carattere si rispecchia una globale tensione conflittuale, certe opinioni sono semplicemente armi di combattimento
Il Corriere della Sera di domenica scorsa illustrava realisticamente il modo italico di essere cobelligerante. Ci sono molti modi, infatti, oltre quello di mascherarsi dietro l’espressione «operazione speciale», per essere concretamente in guerra pur negandolo. Il giornale in un articolo, sul quale si è discusso molto, ci informa che i nostri servizi segreti compilano liste di «opinionisti» che sono al servizio di Mosca. Contemporaneamente una firma del quotidiano indica i luoghi, la «foresta rossa», dove i servizi possono pescare a piene mani (Severgnini, Il richiamo della foresta rossa). Secondo il commentatore del Corriere gli azzeccagarbugli della «complessità» faticano a separare il regime di Putin dalla storia sovietica. In verità molti di quegli azzeccagarbugli hanno prodotto studi seri e ponderosi proprio sui caratteri di tale distinzione. Ma perché fare lo sforzo di leggerli quando la realtà è squadernata immediatamente davanti ai nostri occhi?
Il secondo volume di Guerra e Pace comincia con
Leggi tutto: Le liste dei putiniani e i segretari dell’opinione dominante - di Paolo Favilli
Commenta (0 Commenti)La riunione del Consiglio direttivo della Bce e la successiva conferenza stampa sono destinati ad entrare nella storia economica e finanziaria europea. Ma non certo in modo glorioso.
Sta di fatto che si chiude un’epoca. Quella cominciata con il whatever it takes e proseguita con il pompaggio di liquidità, con il denaro che praticamente non costava niente, ove la banca centrale acquistava titoli di stato a go-go, mentre i tassi erano negativi. E’ la prima grande conseguenza – che non riguarda solo l’Europa – della guerra sull’economia mondiale.
Sulla stampa economica e negli ambienti finanziari si discute se le decisioni della Bce abbiano seguito le tappe indicate oppure vi sia stata un’accelerazione. In sostanza se le colombe hanno tenuto oppure i falchi abbiano preso nettamente il sopravvento.
Discettare sulle espressioni usate dalla Lagarde è di poco sugo. Conta di più vedere la reazione dei mercati. Ed è negativa, con le borse europee in picchiata e lo spread che sale a 230. Lo è malgrado si trattasse di una svolta annunciata. Già da qualche tempo si sapeva che con l’8 settembre si sarebbe usciti dalla fase caratterizzata da tassi negativi iniziata nel giugno del 2014. Si sapeva che essi avrebbero cominciato a salire sia a luglio che a settembre. Come pure era noto che il programma di acquisti netti sarebbe terminato il primo luglio. L’ordine degli interventi è stato rispettato, prima la stretta sulla liquidità, poi l’incremento dei tassi.
Ma il margine di incertezza lasciato sul secondo aumento dei tassi da realizzarsi a settembre (sarà dello 0,25% o dello 0,50%? ), e la vaghezza delle dichiarazioni di Lagarde rispetto alla individuazione e messa in opera di uno strumento anti-spread, ha prodotto qualcosa che assomiglia di più ad una diffusa paura che a un momento di incertezza. Per nulla temperata dalla possibilità annunciata di reinvestimento dei titoli acquistati con totale flessibilità, per combattere la “frammentazione” (un termine cui probabilmente si ricorrerà spesso) dei costi di finanziamento dei singoli Stati.
L’onda è arrivata da lontano. Anche se la Fed americana procede in modo inverso, prima l’intervento sui tassi e poi quello sulla liquidità, la molla è la stessa: l’aumento dell’inflazione che negli Usa ha sopravanzato le previsioni – per la verità non impossibili – costringendo l’ex presidente della Banca centrale Yanet Hellen ad una pubblica autocritica e che nell’Eurozona ha superato l’8% e non intende fermarsi.
Di fronte a ciò la Bce ha rimesso in campo la priorità che deriva dalla sua scriteriata missione, ovvero la primazia della lotta all’inflazione. Il che, come è noto, contraddice il principio che quando l’economia va male i tassi vanno diminuiti per dare ossigeno al mercato, mentre una stretta può essere opportuna se l’economia si surriscalda troppo. Eppure proprio la Bce ritiene che la crescita nell’anno in corso e nel prossimo sarà scarsa lasciando qualche speranza solo per il 2024. Bankitalia ha rivisto al ribasso, di un punto abbondante, tutte le previsioni di crescita del nostro Pil rispetto a quelle formulate a gennaio.
Ma la situazione di oggi fuoriesce dalla manualistica economica, dal momento che abbiamo avuto due avvenimenti giganteschi in rapida successione e congiunzione tra loro: l’entrata in scena del risparmio accumulato durante il periodo più duro della pandemia appena essa ha segnato una flessione e la guerra che ha dato un ulteriore colpo alle già rinsecchite catene del valore, complicando ogni cosa sul fronte dell’offerta e non solamente dei prodotti energetici.
Questo fa sì che assieme all’inflazione continui il declino dell’economia e quindi, malgrado le contorsioni espressive di Lagarde, il baratro della stagflazione è sempre più vicino. Ma puntare sul contenimento dell’inflazione, anziché su un diverso modello di sviluppo, non potrà che peggiorare la situazione.
La guerra serve per rallentare, se non bloccare, le misure contro il cambiamento climatico. Non illudiamoci troppo sul voto europeo, peraltro così contrastato, sull’auto elettrica. Allo stesso modo, malgrado gli orientamenti europei sul salario minimo, l’insistenza sull’inflazione è funzionale a contenere anche la più timida spinta all’aumento dei salari.
Ritorna il tormentone modello anni Settanta sulla spirale prezzi-salari. Da un lato si affermano giusti principi, dall’altro si adottano misure economico-finanziarie opposte. Senza l’entrata in scena di un movimento di classe e di massa è facile prevedere chi prevarrà.
Commenta (0 Commenti)ELEZIONI. Non è una novità, ma colpisce l’accanimento con cui la cosiddetta “grande stampa” si dedica alla denigrazione del M5S. Ed emerge è anche una forte pressione sul Pd e su Letta perché abbandonino l’idea di un’alleanza con Conte
Non è una novità, ma colpisce l’accanimento con cui la cosiddetta “grande stampa” si dedica alla denigrazione del M5s; ora però ciò che emerge è anche una forte pressione sul Pd e su Letta perché abbandonino l’idea di un’alleanza elettorale con Conte. Qualcuno si è spinto finanche ad attribuire un fantasioso 15% all’area calendian-renziana, in modo che il Pd possa fare a meno del M5s. O persino a ipotizzare per il futuro governo un asse Meloni-Letta. Segni dell’impazzimento della politica, e dello scadimento del dibattito giornalistico. Indubbiamente Conte e il suo “partito” sono in difficoltà: il movimento grillino sconta il suo peccato originario, il fatto cioè di aver teorizzato la natura di non-partito, l’affidamento plebiscitario al “garante”, la casualità della selezione del personale politico, l’assenza di una vera identità politico-culturale condivisa, e l’assenza di reali procedure democratiche interne. E tuttavia, intonare il de profundis appare alquanto strumentale.
I sondaggi continuano a dare al M5S una quota elettorale del tutto rispettabile, tra il 12 e il 15%. Sarà poco, sarà tanto, fatto sta che un partito ben altrimenti “strutturato” (si fa per dire) come il Pd, non è che goda di tanta migliore salute, inchiodato oramai da anni ad una percentuale che oscilla tra il 20 e il 22%. Peraltro, le valutazioni sul “declino” del M5s ignorano il fatto che una grossa fetta degli elettori che contribuirono al 33% del 2018, quella che proveniva da una storia elettorale di destra, è tornata alle origini già nel 2019; e che gli attuali potenziali elettori del M5s sono in gran parte ex-elettori di sinistra, che non mi pare possano trovare molte valide ragioni per tornare a votare il Pd.
Naturalmente il prossimo 12 giugno, nelle elezioni di molti capoluoghi di provincia, saranno messe alla prova numerose alleanze Pd-M5s, per la prima volta presenti in modo diffuso. Sarà importante valutare l’esito di queste coalizioni larghe. Ma è del tutto scontato, comunque, che il risultato delle liste del M5S potrà essere, in vari casi, deludente rispetto alle vette toccate nel 2018, e si può già scommettere che sarà enfatizzato con malcelata soddisfazione. Non sarebbero tuttavia una gran novità le deboli prestazioni del M5s nelle elezioni locali: con alcune eccezioni, è sempre accaduto, anche nei tempi migliori.
Ma ci sono ragioni di fondo che spingono a sperare che Letta resista alle “sirene” di una rottura con il M5s: poiché sembra oramai improbabile che si riesca a fare una riforma elettorale in senso autenticamente proporzionale, incitare il Pd a “rompere” con Conte equivale a suggerire che il Pd e lo schieramento progressista semplicemente abbandonino il campo, senza nemmeno iniziare la partita. Beninteso, se il centrodestra esprime una maggioranza nel paese, è giusto che governi; ma non è scritto da nessuna parte che questo accada con una super-maggioranza parlamentare.
E’ questo il rischio concreto a cui ci espone una legge assurda come il Rosatellum, che introduce pericolosi elementi di aleatorietà nella competizione. E qui occorre ricordare alcuni dati. Nel 2018, lo squilibrio tra percentuale dei voti e percentuale dei seggi dei tre maggiori schieramenti risultò alla fine piuttosto contenuto: una leggera sovrarappresentazione per il Centrodestra e il M5s, una leggera sottorappresentazione per il Pd, una netta penalizzazione per Leu. Ma tutto questo accadde per puro caso, per un meccanismo di compensazione territoriale: la destra vinse nei collegi del Nord, il M5s stravinse in tutti quelli del Sud, il Pd “si salvò” solo, parzialmente, in Toscana ed in Emilia.
Ma cosa può accadere se ai nastri di partenza si presenta, da un lato, uno schieramento che, nella peggiore delle ipotesi, parte dal 40% e, dall’altro lato abbiamo solo spezzoni divisi, il principale dei quali forse a stento potrà raggiungere, nella migliore delle ipotesi, il 30% dei voti? E cosa accadrà se questi rapporti di forza si riproducessero in modo omogeneo in tutti i nuovi abnormi 146 collegi cosiddetti uninominali (un’assurdità definirli tali: alla Camera la media degli abitanti si aggira intorno ai 400 mila, al Senato oltre i 900 mila!)?
Ciascuno può fare facilmente i conti, considerando anche i 245 seggi proporzionali: lo schieramento che vincesse in tutti o quasi i collegi e che ottenesse il 45% dei voti al proporzionale, non solo otterrebbe una super-maggioranza di governo, ma potrebbe estenderla fino a toccare quella quota 252, che costituisce la soglia dei due terzi per possibili modifiche costituzionali che non passino dal referendum.
Ecco perché è folle ed irresponsabile questa campagna per demolire il M5S e mettere in difficoltà la linea di Letta sul “campo largo”: qualcuno non capisce, o meglio finge di non capire. Se gli italiani vorranno che governi Giorgia Meloni, non se ne potrà che prenderne atto: ma perché arrendersi in partenza, prima ancora di aprire uno scontro politico che, con l’attuale volatilità elettorale, potrebbe anche dare esiti imprevedibili?
La verità è che, in cuor loro e a denti stretti, molti ammettono di essere atterriti dall’idea di votare con questa legge, che costringe a coalizioni pre-elettorali insostenibili e ingestibili, destinate subito ad infrangersi dopo il voto, (si pensi solo alla sarabanda che si aprirà per concordare le candidature comuni nei collegi, con il 37% dei posti in meno da distribuire); ma spesso non hanno il coraggio di dirlo apertamente, in questo anche frenati dalla sconcertante pigrizia intellettuale con cui sulla stampa si continua a discettare di “proporzionale” e di “maggioritario”.
L’unica veramente interessata a mantenere lo status quo è Meloni, e lo si capisce: ma tutti gli altri, compresa la Lega, non avrebbero tutto l’interesse a presentarsi agli elettori con un proprio profilo autonomo? Insomma, c’è poco da sperare, ma dopo le prossime elezioni forse si aprirà l’ultima finestra di opportunità per una legge elettorale quanto meno più sensata di quella attuale.
Commenta (0 Commenti)SALARI E PRODUTTIVITÀ. Il sindacato e quel che resta a sinistra partano dal lavoro precario. E’ difficile rappresentarlo, organizzarlo, farne la leva per un rilancio, ma è la via maestra
Dopo l’attacco al reddito di cittadinanza si è aperta la seconda fase. Le imprese non sono in grado, se vogliono stare sul mercato, di offrire lavori di migliore qualità e meglio remunerati perché l’economia italiana risente di un basso livello di produttività del lavoro.
Insomma sempre colpa di chi lavora, si potrebbe dire. Non è così, però.
Questa volta l’argomento ha una sua solidità e va fatto lo sforzo di approfondirlo. Perché è vero che la produttività nel nostro paese è bassa, che questo spiega i tassi di crescita bassi di un ventennio della nostra economia, ed è anche chiaro che questo handicap rende più difficile la crescita delle retribuzioni dei lavoratori. Quindi giusto non negare il problema ed affrontarlo con rigore.
Senza addentrarci in un approfondimento teorico sulla produttività dei fattori, lavoro e capitale, e sulla produttività totale che discende dalla loro combinazione, è necessario, però, che il confronto venga riportato su pochi ed elementari fattori che lo rendano possibile ed utile.
Semplificando molto, i principali fattori che spiegano la bassa produttività in Italia si possono riassumere intorno a tre questioni.
Quindi, per fermarci per il momento qui, il problema della bassa produttività esiste ma andrebbe affrontato prendendo il toro per le corna ed affrontando i problemi elencati. È su questo livello alto della discussione che si dovrebbe sviluppare un confronto anche tra le principali rappresentanze del lavoro e delle imprese. Senza trucchi e senza inganni. A cominciare da patti sociali o comunque li si voglia chiamare che dietro belle parole nascondono visioni miopi come quella di concordare un sostanziale blocco dei salari per bloccare la spinta crescente ad un loro aumento.
Su questo terreno abbiamo già dato e sarebbe ora di prendere atto, tutti, di errori e limiti già scontati.
Mi riferisco agli accordi famosi del luglio 1993 sulla cosiddetta politica dei redditi: contenimento dei salari per frenare l’inflazione a due cifre e aggancio alla produttività che avrebbe, quindi, dovuto fare un balzo in avanti. Ma niente è stato fatto per affrontare i tre problemi citati all’inizio, la produttività è rimasta al palo ed i salari pure. E dopo trenta anni c’è chi ripropone le stesse ricette?
Quando si capirà che i salari non sono solo in reddito per chi lavora, ma hanno una funziona di leva nell’economia di un paese? Che solo se sono spinte da salari decenti le imprese sono sollecitate ad investire, innovare, fare la loro parte nell’aumento della produttività? Perché salari bassi e lavoro precario vanno a braccetto con la bassa produttività.
Sarebbe ora di prenderne atto, e di parlare di un nuovo patto per il futuro. Certo se si riconosce che quello del 1993 è stato illusorio perché il sindacato lo ha rispettato, ma la classe imprenditoriale prevalente è rimasta miope ed egoistica, se ne potrebbe pure riparlare.
Ma, lo abbiamo scritto su queste pagine, con una classe imprenditoriale che bussa sempre a cassa, proponendo solo nuovo deficit a proprio favore è molto difficile progettare e concordare un futuro.
Meglio allora, oggi, che sindacato e quel che resta a sinistra partano da un altro punto di vista. Ormai viviamo in un mondo di lavoro precario. E’ difficile rappresentarlo, organizzarlo, farlo diventare la leva per un rilancio.
Ma ci sono momenti della storia in cui bisogna proprio ripartire dagli ultimi. Sono tanti e saranno di più e senza di essi ci sono solo rischi di avventure. E’ ora di farlo.
Commenta (0 Commenti)Maurizio Landini, segretario generale della Cgil, ha denunciato con forza le ragioni di un grave malessere sociale del mondo del lavoro, destinato a crescere nei prossimi mesi. L’occupazione cresce poco ed è precaria. I salari italiani sono surgelati. l’Ocse fotografa un -2,9 % in 30 anni, ultimi in Europa e unici ad averli in diminuzione. L’inflazione è in crescita (6,9 %), riduce drammaticamente il potere d’acquisto dei redditi da lavoro e da pensione. Quasi 6 milioni di poveri. Lavorare non garantisce più di non essere poveri.
Una denuncia forte. Una situazione insopportabile. I sindacati provano a reagire, come con lo sciopero generale proclamato da Cgil e Uil nel dicembre scorso. Cresce un disagio sociale profondo, potenzialmente esplosivo. Non tenerne conto può portare ad una crisi democratica, a una verticale caduta della capacità di risolvere i conflitti, ad una sfiducia dilagante.
La continuazione e la ferocia della guerra in Ucraina, il forte riarmo che ha innescato nel mondo, il rischio dell’estensione del conflitto contribuiscono a creare angoscia sul futuro, in particolare del mondo del lavoro.
Rischio di frattura democratica, cioè incapacità di risolvere i conflitti con gli strumenti della democrazia, pericolo che la guerra sfugga di mano, fino a diventare l’innesco di un conflitto mondiale, perfino nucleare, richiedono scelte nette e consapevolezza dei pericoli. Nascondere la testa sotto la sabbia è pericoloso.
Landini ha posto una grande questione democratica. Non può continuare a crescere la frattura tra ciò che si aspettano settori fondamentali del Paese e le (non) decisioni politiche che vengono prese. Due esempi. È dimostrato che sull’Ucraina almeno la metà del nostro paese è preoccupato dalla scelta di mettere l’accento sulla guerra anziché sulla ricerca della pace, come dimostra l’invio crescente di armamenti, più potenti, in Ucraina, mentre per trovare una soluzione al conflitto c’è troppa rassegnazione. Lo sblocco del grano ucraino può esserci senza trarne le conseguenze di una trattativa che deve affrontare altri aspetti del problema? Dal blocco dell’invasione russa all’invio delle armi e alle sanzioni.
Il parlamento non riesce a decidere sul fisco, se non a patto di sancire ancora una volta che i cittadini sono soggetti a due sistemi fiscali diversi, uno progressivo per i redditi da lavoro e pensione (come afferma la Costituzione) e uno ad aliquota proporzionale per le rendite e i redditi da capitale, non previsto dalla Costituzione. Per non parlare dell’evasione e del prelievo sui ricchi. È la conferma che il paese reale non trova ascolto nella rappresentanza politica. A meno di un anno dalla scadenza naturale delle elezioni non c’è un credibile tentativo di arrivare ad una nuova legge elettorale. Così la prossima legislatura può essere un’occasione perduta per ristabilire una sintonia tra il paese reale e la rappresentanza politica che ha il compito di prendere decisioni.
Questo impedirebbe di affrontare i problemi drammatici di cui parla Landini, con il rischio che il futuro assomigli al presente. La legge elettorale consente ai capi partito di scegliere chi fare eleggere. Questo avviene da alcune legislature e ha provocato uno scadimento progressivo della qualità dei parlamentari (scelti per fedeltà) e la perdita di ruolo del parlamento, che già ora potrebbe chiedere di conoscere gli armamenti che il Governo sta inviando in Ucraina e perfino decidere di interromperne l’invio.
La scelta diretta dei parlamentari da parte degli elettori potrebbe portare ad un orientamento del parlamento sulla guerra vicino a come la pensano gli elettori. Se elettrici ed elettori scegliessero direttamente i loro rappresentanti l’occupazione, la sua qualità, i salari, il potere d’acquisto diventerebbero ragioni per scegliere o bocciare un/a candidato/a. Altrimenti la denuncia drammatica della situazione del mondo del lavoro rischia di non avere sbocco. Siamo vicini ad un punto di rottura.
La prossima legislatura dovrà difendere i principi costituzionali. I confini della lotta politica non dovrebbero essere valicati, per tornare ad un confronto tra opzioni politiche diverse, che non sono riducibili a due schieramenti ma appartengono a più partiti, che dopo il voto dovranno aggregarsi per governare, sottratti all’obbligo/convenienza di riunirsi in coalizione prima del voto. Solo il proporzionale può rappresentare il paese reale.
Le maggioranze «coatte» non hanno portato fortuna né al centro sinistra né al centro destra. In poco tempo i governi della «stabilità» sono andati in crisi. La parabola del M5Stelle non ha colmato il vuoto da cui era balzato ad un terzo del parlamento. La frattura tra elettori e rappresentanti può alimentare allontanamento, indifferenza, restrizione della democrazia.
Crisi sociale e guerra fanno temere per il futuro della democrazia disegnata dalla nostra Costituzione.
John Elkington * Il pioniere del movimento per la sostenibilità globale è moderatamente ottimista: l'industria dei combustibili fossili ha svolto un ruolo fondamentale, ma ormai il percorso verso un modello sostenibile non è più eludibile.
Il Video
* John Elkington (1949) è un pioniere del movimento per la sostenibilità globale. È autore di 19 libri, tra i quali i bestseller The Green Consumer Guide (1988), che ha portato l’attenzione sugli impatti ambientali di prodotti e marchi di uso quotidiano, e Cannibals with Forks (1997), che ha reso popolare il suo concetto di “Triple Bottom Line” e ha gettato le basi per una strategia aziendale sostenibile. Nel 2008 ha co-fondato l’azienda Volans. È presidente onorario di Environmental Data Services (ENDS, fondata nel 1978), consulente senior del Centro risorse per le imprese e i diritti umani, membro del Consiglio degli ambasciatori del WWF e professore alla Cranfield University School of Management e all'Imperial College e all'University College di Londra. Nel 2004 fu definito da Business Week come «un decano del movimento del responsabilità sociale per tre decenni». Nel 2008, la rivista “Evening Standard” lo classificò fra le "1.000 persone più influenti" di Londra, descrivendolo come "un vero guru degli affari verdi" e come «un evangelista della responsabilità sociale e ambientale delle imprese, molto tempo prima che diventasse di moda».
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