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I bassi salari del Belpaese che affoga nella rendita Frank Hoermann /dpa/Ap

Si dice che i bassi salari siano conseguenza della bassa produttività. Ma, pur considerando una minore crescita del Pil e un differente livello di produttività, non si spiega comunque una forbice salariale che, a partire dagli anni ’90, rispetto a Francia e Germania si è allargata di oltre 30 punti.

Non sarà che da noi la maggiore produttività si sia tradotta, più che altrove, in crescita dei profitti, lasciando al palo i salari? Non sarà che i maggiori profitti siano stati impiegati non per accrescere la competitività aziendale ma per investimenti nella finanza e nel mattone? Non esiste, forse, una correlazione tra il crescente peso della rendita e il ridimensionamento dei settori produttivi?

Il livello della rendita annua in Italia supera l’ammontare complessivo delle retribuzioni dei lavoratori dipendenti (si aggira sopra i 400 miliardi di euro). Si tratta di un dato sorprendente, su cui però, quando si parla di produttività, non si focalizza mai l’attenzione. Si volge lo sguardo al costo del lavoro e si sorvola invece sulle distorsioni e sulle arretratezze che caratterizzano il nostro capitalismo.

Si dovrebbe invece coltivare un po’ la memoria e ritornare con la mente all’epoca della «finanza creativa» del ministro Tremonti (governo Berlusconi) quando avvenne una massiccia dismissione e privatizzazione del patrimonio pubblico. Lo scopo dichiarato era ridurre il debito dello Stato e incamerare risorse da destinare a investimenti per migliorare, appunto, la produttività del sistema economico.

Un totale fallimento su tutti e due i versanti. L’unico risultato è stato il trasferimento in mani private di uno straordinario portafoglio di assets pubblici.

Le amministrazioni delle grandi città, nello stesso periodo, hanno stretto accordi di programma con proprietari e costruttori, avviando programmi di rigenerazione urbana, di riutilizzo delle aree dismesse, di espansione edilizia. Il mercato immobiliare ha vissuto il suo periodo d’oro. La rendita trova nelle aree urbane nuovo alimento e occasioni di guadagno. Ebbene, di tutta questa ricchezza circolante sul territorio nelle casse statali entrano poche briciole, proprio a causa di un Catasto vetusto, non al passo con i tempi.

Nel frattempo, la qualità della vita, soprattutto dei cittadini meno abbienti, è peggiorata: abbandono delle periferie, degrado dell’ambiente, insicurezza, carenza di servizi.

Non c’entra niente tutto questo con la crescita dell’astensionismo? Non ha niente a che fare con la crisi italiana il fatto che gli alti rendimenti degli investimenti nel mattone abbiano spiazzato gli investimenti produttivi e modificato a favore della rendita gli equilibri economici, finanziari e sociali?

La vicenda dei Benetton, che disinvestono nell’industria tessile per rifugiarsi prima negli autogrill e poi nelle concessioni autostradali segna un passaggio d’epoca: dalla produzione alla rendita. Personaggi come Caltagirone, Berlusconi, Ligresti e altri, dopo aver fatto fortuna con il boom immobiliare, compiono il salto nel mondo della finanza e dell’editoria. Chi non ricorda i «furbetti del quartierino» (Coppola, Ricucci, Statuto), celebrati come «nuovi imprenditori» da esponenti di sinistra in piena ubriacatura liberista?

Per tornare a noi, il centrodestra ha vinto la partita sul Catasto perché, con la parola d’ordine «no alle tasse sulla casa», ha sfruttato abilmente la paura degli italiani. Ha legato, in un unico blocco sociale, gli interessi dei piccoli e dei grandi proprietari. Ha saldato il 75 per cento delle famiglie, che abitano nella casa in proprietà (generalmente l’unica) con il 5 per cento degli italiani più ricchi, che posseggono il 25 per cento di tutto il patrimonio immobiliare (dati Banca d’Italia). E ha bloccato la riforma, sine die, sulla base di un accordo inaudito, secondo il quale il Catasto può funzionare unicamente su dati vecchi.

Assistiamo al paradosso giuridico che la ricchezza immobiliare italiana, pur in presenza di valori catastali aggiornati, continua a nascondersi dietro estimi superati.

Che dire, infine, del grande business generato dallo sfruttamento delle spiagge? Circa 14 mila tra stabilimenti balneari, campeggi, complessi turistici, circoli sportivi occupano 3500 degli 8300 km di costa che circondano l’Italia. Il 43 per cento dell’accesso al nostro mare (i punti di maggiore pregio) è di fatto privatizzato.

I titolari delle concessioni pagano canoni irrisori e dichiarano redditi improbabili (la cui affidabilità è messa in discussione dalla stessa Agenzia delle entrate). Ebbene, la maggioranza di governo decide di concedere indennizzi ai concessionari di demanio marittimo qualora dovessero perdere le gare pubbliche. Un danno per le finanze pubbliche e un vulnus allo Stato di diritto.

Nel paese dei bassi salari le leggi sul Catasto e sulla concorrenza non servono a spostare la pressione fiscale dal lavoro alla rendita. Ricchi proprietari, rendite di posizione e privilegi corporativi non si toccano. Tout va, nonostante l’elevato debito pubblico e la crisi economica e sociale che avanza.

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Referendum, fallimento annunciato. Ma ora la giustizia va riformata foto di Aleandro Biagianti

Il fallimento era largamente previsto. Il record negativo di partecipazione permette di guardare direttamente ad alcune questioni di fondo sino ad ora sottovalutate. In questo caso, non ci si può giustificare dando la colpa al quorum strutturale di validità.

Previsto in Costituzione all’articolo 75, ritenuto troppo elevato: se l’80% circa degli aventi diritto al voto non hanno risposto al quesito, evidentemente, la ragione è da ricercare nel «tipo» di domande formulate e nella distanza tra queste e la realtà percepita dal corpo elettorale. In fondo basta pensare al fatto che il referendum, così come ogni appello al popolo, necessariamente comporta una semplificazione: la risposta non può che essere univoca, sì o no. Questo è accettabile a condizione che la portata politica e culturale del quesito sia di immediata evidenza.

COSÌ È STATO O POTREBBE essere – al netto dell’ammissibilità – in molti casi (divorzio, aborto, nucleare, ergastolo, beni comuni, liberalizzazione delle droghe leggere, eutanasia). Nei casi in cui, invece, il quesito diventa tecnicamente complesso e assolutamente specifico, l’unica possibilità di successo è affidata alla demagogia, che è spesso figlia dell’inganno.
Questo è avvenuto per i cinque quesiti sulla giustizia. Non solo di difficile comprensione, ma anche per nulla idonei a perseguire gli scopi dichiarati.

Come si fa in effetti a pensare che una questione tanto particolare com’è la possibilità di attribuire il diritto di voto agli avvocati e ai professori nei Consigli giudiziari e nel Consiglio direttivo della Corte di Cassazione possa garantire un più equo processo? In realtà, è questo un tema che riguarda principalmente i rapporti tra magistratura e avvocatura, non le più immediate preoccupazioni dei cittadini. Così anche gli altri quesiti proposti, nessuno dei quali tale da porre fine alle reali difficoltà che sono alla base del cattivo funzionamento della giustizia.

ABBANDONATI i referendum al loro inglorioso destino, dovremmo adesso cominciare ad affrontare le vere questioni, che sono sotto gli occhi di tutti.
La sfida è già in corso, il «pacchetto» Cartabia non comprende solo la riforma del CSM, ma ha già posto le basi per la trasformazione dei processi civile e penale. L’ambizione è alta: ci si è impegnati con l’Europa a ridurre del 40% i tempi dei processi civili e del 25 % quelli del penale. Se questi sono gli auspicabili obbiettivi come conseguirli?
Se si vuole superare la prospettiva aziendalistica, che troppo spesso inquina la discussione, dovremmo rivendicare una riforma «costituzionalmente orientata», ovvero in grado di garantire autonomia e indipendenza dell’ordine della magistratura (art. 104 Cost.); assicurare una «ragionevole durata» dei processi che però non contraddica il principio del “giusto processo” (art. 111 Cost.), né pregiudichi la tutela dei diritti e le garanzie di difesa (art. 24 Cost).

ABBREVIARE DUNQUE i tempi, ma senza compromettere le garanzie. Non è una sintesi semplice da raggiungere e c’è un doppio rischio da evitare. Quello di avere una sentenza rapidamente, però sbagliata oppure di avere una sentenza giusta, ma dopo troppo tempo. Un’alternativa diabolica cui si sfugge solo se si riuscirà ad ottenere una sentenza argomentata in tempi ragionevoli.
Ma per ottenere questo risultato non basta intervenire sulle regole dei processi è necessario operare su più piani. Quello del «diritto penale minimo» in grado di ridurre l’incidenza della repressione penale a favore di altre forme di tutela sociale, prevedendo un’ampia depenalizzazione di tutte quelle fattispecie ritenute ormai di scarsa pericolosità sociale, riqualificando l’azione penale con riferimento ai reati di maggiore impatto e disvalore sociale.

Ridurre la litigiosità nel processo civile incentivando misure e forme alternative, ma evitando la degenerazione della giustizia privata ovvero ostacoli eccessivamente punitivi all’esercizio dell’azione civile, garantendo comunque nel corso del processo il contraddittorio tra le parti in condizione di parità (art. 111 Cost.).

SI DOVREBBE, INOLTRE, intervenire sulle carceri per ridurre il sovraffollamento, incentivando il reinserimento sociale e assicurare la rieducazione del condannato (art. 27 Cost).
Si dovrebbe infine prestare maggiore attenzione alla formazione dei magistrati, senza limitarsi ad estendere il ruolo della Scuola Superiore della Magistratura, ma utilizzando anche altri canali formativi.
In questo contesto non deve essere sottovalutata la responsabilità anche della formazione universitaria che si caratterizza sempre meno in chiave problematica e sempre più si accontenta di una preparazione puramente nozionistica, che non regge alla prova dei fatti. I dati dell’ultimo concorso in magistratura sono inquietanti: il 95 % dei candidati non ha superato la prova.

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Francia, Mélenchon è il vero vincitore: chapeau. Ecco come replicare il suo successo in Italia

La Nuova Unione Popolare Ecologista e Sociale guidata da Mélenchon è la vera vincitrice del primo turno delle elezioni francesi. Con il 25,7% dei voti, a pari merito del Presidente in carica e lasciando Marine Le Pen poco sopra il 18%, il risultato è straordinario. Con questa spinta è sicuro che il raggruppamento di sinistra sarà il gruppo più grande dell’opposizione ed è molto probabile che Macron non riesca a conquistare la maggioranza assoluta del parlamento, aprendo la strada ad una dialettica politica assai positiva. Non oso immaginare di più, ma certo questi due risultati costituiscono già un grande risultato, perché uno dei paesi più importanti d’Europa si troverà ad avere un condizionamento sociale importantissimo e per certi decisivo per mettere sabbia nei meccanismi dell’Europa liberista arruolata nella Nato.

Quindi innanzitutto un grande applauso a Jean Luc Mélenchon e alle compagne e compagni francesi.

LEGGI TUTTO L'ARTICOLO su Il Fatto Quotidiano

 

 

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INDIETRO DI 50 ANNI. Se continuerà su questa strada la Bce contribuirà a farci entrare più velocemente del previsto nel tunnel della recessione, ovvero nella stagflazione

Il governo dell’inflazione è una scelta politica

 

Esattamente cinquanta anni fa si accendeva la spirale inflazionistica in Occidente dopo un lungo periodo di stabilità dei prezzi. In pochi anni divenne la bestia nera dei governi e degli economisti che inutilmente cercarono di controllarla per tutti gli anni ’70 del secolo scorso.

All’origine del fenomeno inflazionistico c’erano più fattori: lo shock del prezzo del petrolio che nel 1973 aumentò in pochi mesi di quattro volte, l’aumento del prezzo di alcune materie prime essenziali per l’industria, e soprattutto la conflittualità della classe operaia. Quest’ultimo divenne nel tempo la causa più rilevante della crescita generalizzata dei prezzi. In breve, alla forza della classe operaia, ai miglioramenti contrattuali e salariali, il capitale rispose nel solo modo che conosceva per ricostruire i margini di profitto, alzando i prezzi delle merci.

In Italia, come è noto, la rincorsa prezzi-salari si interruppe nel 1985 con l’eliminazione della scala mobile che faceva recuperare, seppure in ritardo, il potere d’acquisto dei salari e degli stipendi.

Ma, proprio la fine della scala mobile produsse l’effetto di ridurre progressivamente la domanda di beni di consumo nel mercato interno per cui le imprese italiane spinsero ancora di più l’acceleratore verso i mercato esteri, con l’appoggio dei vari governi che in quegli anni svalutarono più volte la lira.

A sua volta le svalutazioni che favorivano le imprese esportatrici importavano inflazione, in quanto i beni e servizi esteri costavano di più, e riducevano ulteriormente il salario reale dei lavoratori dipendenti e di una parte del ceto medio.

Da quel momento iniziò una redistribuzione della ricchezza nazionale a favore di profitto e rendita, a danno dei lavoratori che progressivamente hanno perso in quarant’anni 15 punti percentuali a favore del capitale, in particolare della rendita finanziaria.

Con la caduta del muro di Berlino nell’89 e l’apertura della Cina al mercato mondiale abbiamo assistito per trent’anni ad una crescita dell’economia mondiale in un clima di stabilità dei prezzi a fronte di una valanga di liquidità monetaria immessa dalle banche centrali, a partire dagli Usa il cui debito pubblico è andato alle stelle. Malgrado questa valanga di dollari immessa dalla Fed, malgrado una bilancia commerciale perennemente e pesantemente passiva, negli States i prezzi restavano stabili.

Questo fenomeno contraddiceva la teoria quantitativa della moneta, per gli addetti ai lavori la famosa equazione di Fisher, ma era facilmente spiegabile con globalizzazione del mercato capitalistico che aveva messo in concorrenza i lavoratori di tutto il mondo, facendo sì che molti beni di largo consumo venissero importati in Occidente con una curva dei prezzi in discesa (basti pensare agli elettrodomestici, abbigliamento, ecc). Così per decenni ne hanno beneficiato i consumatori occidentali, ma sono stati progressivamente colpiti i lavoratori dipendenti nel settore privato dell’economia (disoccupazione e blocco/ riduzione salari reali).

Le imprese europee e nordamericane hanno spostato il conflitto di classe, che le aveva viste in grande difficoltà negli anni ’70, dal mercato interno a quello globale, ponendo le basi per un conflitto tra lavoratori sia a livello locale (scontro con gli immigrati) che internazionale ( il cosiddetto “sovranismo” ha questa base materiale).

Con le sanzioni alla Cina, i danni della pandemia, la crisi del mercato globale, gli Usa sperimentano oggi un tasso di inflazione vicino al 10 per cento che non vedevano dal 1981! E la guerra in Ucraina c’entra poco o nulla. Anzi, da questa guerra per adesso l’economia nordamericana ne beneficia, con l’export di gas, cereali ed armi, al contrario dell ’Unione europea che ne subisce proprio in questi settori un forte contraccolpo. L’inflazione che colpisce gli Usa ha una base strutturale che è correlata alla de-globalizzazione, ben messa in evidenza da Bertorello e Corradi su questo giornale, che non verrà facilmente superata nel breve periodo.

I consumatori e le imprese statunitensi non beneficiano più di una parte di beni importati dalla Cina a prezzi stracciati rispetto allo standard a stelle e strisce. E mentre per la Cina esiste un potenziale allargamento del mercato interno per sostituire i flussi di export, non altrettanto può avvenire negli Usa.

Diversamente nella Ue l’inflazione è dovuta soprattutto all’aumento delle materie prime (non solo petrolio, gas e cereali) ed è dunque una inflazione da costi mentre negli anni ’70 era soprattutto un’inflazione da domanda. Per questo la decisione di aumentare il tasso d’interesse da parte della Bce è un brutto segnale, male accolto dagli operatori di borsa e dalle imprese dell’economia reale. Se continuerà su questa strada la Bce contribuirà a farci entrare più velocemente del previsto nel tunnel della recessione, ovvero nella stagflazione delle cui avvisaglie su questo giornale avevamo scritto un anno e mezzo fa.

Morale della storia: il governo dell’inflazione, su come ridurla e a chi farla pagare, è una scelta politica prima che economica. Non si può avere la botte piena e la moglie ubriaca, tenere insieme il diavolo e l’acqua santa (ammesso che sia rappresentata da qualcuno!), e quindi non ci si può nascondere dietro le quinte di un governo “tecnico”, e pensare ad un futuro governo delle larghe intese.

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POST VOTO . Se il crollo al 20 per cento di votanti referendari fa spavento, non dispone all’ottimismo il calo, quasi il 6 per cento, dell’affluenza per le comunali, che dal 60,12 per cento delle precedenti amministrative sono finite al 54,72 di questo 12 giugno 2022.

Campo stretto e boomerang sul referendum Urne elettorali - LaPresse

Salvini nel centrodestra e Conte nel centrosinistra escono dalle urne piuttosto malconci. Più ammaccato il leader leghista (per la doppia batosta: referendum e comunali), meno Conte perché i 5Stelle alle amministrative hanno sempre sofferto. Le percentuali pentastellate sono molto basse, e prestano il fianco a chi, come Renzi, Calenda e parte del Pd, spinge per prenderne il posto nell’esperimento del “campo largo” a trazione centrista (contro il salario minimo, contro il reddito di cittadinanza… ).

Ma se nel caso delle amministrative, si tratta tuttavia di un test parziale, il flop referendario, sì atteso ma non per questo meno scioccante, somiglia invece a una sorta di de profundis politico di questo strumento di democrazia diretta. Chi oserà domani rischiare di riproporlo?

Lasciamo da parte gli incomprensibili tecnicismi dei quesiti, che in larga parte vi hanno contribuito, ma il colpo micidiale lo ha inferto soprattutto

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ITALIA AL VOTO. 
Oggi la Francia va al voto per le legislative dopo la riconferma di Macron all’Eliseo,
mentre in Italia si aprono i seggi delle amministrative e dei referendum.
Rituali di una libertà politica mai abbastanza apprezzati
Illustrazione - Pedro Scassa
 

Mentre nelle autoproclamate repubbliche del Donbass si decide se fucilare o impiccare i prigionieri di guerra e a Mosca la lucida follia imperiale di Putin continua a insanguinare e distruggere l’Ucraina, nei paesi europei la vita politica e parlamentare, per fortuna, continua con i suoi appuntamenti democratici. Oggi la Francia va al voto per le legislative dopo la riconferma di Macron all’Eliseo, mentre in Italia si aprono i seggi delle amministrative e dei referendum. Rituali di una libertà politica mai abbastanza apprezzati.

Le elezioni amministrative e i referendum nulla hanno in comune, ma su richiesta delle nove regioni di centrodestra e dei radicali, i cinque referendum sulla giustizia sono abbinati ai rinnovi dei consigli comunali nella speranza di agguantare il quorum, trainati dall’affluenza del voto locale.

Obiettivo difficile per due motivi: la crescita dell’astensionismo in

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