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Post ideologico e post identitario, il Pd è ancora nella scia blairiana che regala alle destre populiste i temi propri della sinistra, come il lavoro e la classe operaia

Tony Blair - Wikipedia Tony Blair

E una questione salariale che ha perduto centralità nel dibattito politico. In realtà la questione è più grave e generale perché riguarda l’intera problematica del lavoro, da decenni gravata da un “oscuramento teorico” che è causa ed effetto della sua crescente “invisibilità politica”. La mancata illuminazione teorica della problematica del lavoro è all’origine dell’omissione, anche da parte della sinistra, di un compito cruciale – rappresentare e mediare i conflitti sociali –, a sua volta alla base della perdita di autorevolezza e autorità della politica italiana, anche quella di sinistra. Tutto ciò è importante in sé e spinge a chiedersi: perché i processi di svalutazione del lavoro sono stati così poco contrastati anche sul piano teorico e culturale? Perché ci si è attardati nella puerile esaltazione della “fine del lavoro”? Perché, anche a sinistra, si è stati così frettolosi nell’archiviare il Novecento, “secolo del lavoro”?

Ma tutto ciò è importante anche perché è parte integrante di quella riflessione sul “neocentrismo” (le elezioni si vincono solo al centro e per questo bisogna rassegnarsi al moderatismo, “disintermediando” e abbandonando una volta di più i riferimenti sociali tradizionali) che si è riaperta nella politica italiana e che chiama in causa soprattutto il Partito Democratico, il quale si propone come promotore di un “campo largo” di centro-sinistra.

Ora ci sarebbe finalmente l’occasione di chiarire alcuni equivoci di fondo, mai adeguatamente discussi, che hanno presieduto alla stessa nascita del Pd: a) la presupposizione tacita che il partito democratico dovesse essere sostanzialmente un partito “moderato” (per questo travalicante l’asse destra/sinistra); b) l’idea che il partito democratico, in quanto “post-ideologico”, dovesse anche essere “post-identitario” (per questo privo di referenti sociali primari).

È Habermas che, nel commentare la “mobilitazione del risentimento” operata dai dilaganti populismi e la capacità di un seduttivo “populismo di destra” di “rubare” temi propri della sinistra (compresa l’attenzione al lavoro e alla classe operaia), denunzia la mancanza di “ogni tempra politica” nella sinistra stessa, desertificata dalla sua interminabile soggezione alla Terza Via di Blair, e indica nella riscoperta di un autentico discrimine destra/sinistra e in una “polarizzazione democratica” – l’opposto della convergenza al “centro” – la via per la rinascita. La sinistra è chiamata a una più perspicua rappresentazione di ciò che ha provocato l’avvento del neoliberismo, facendo fino in fondo i conti con esso e disperdendo quell’alone di “inspiegato” che persiste attorno a narrazioni deterministiche della globalizzazione sregolata, dell’ondata di privatizzazioni, della ipertrofia finanziaria, della precarizzazione del lavoro, come se fossero stati fenomeni ineluttabili, naturalisticamente necessitati e non veicolati da una precisa intenzionalità politica.

Ne discenderebbe anche una più puntuale identificazione, e ammissione, degli errori compiuti dalle sinistre nel traumatico passaggio dai “trent’anni gloriosi” al neoliberismo. Se il lavoro e il “senso di responsabilità collettiva” affidato alle istituzioni pubbliche sono state le grandi vittime del neoliberismo, il drastico indebolimento della sfera lavorativa e delle forze sociali che di essa vivono e ad essa si ispirano a cui abbiamo assistito negli ultimi trent’anni ha certamente qualcosa a che fare con le Terze Vie à la Tony Blair, di cui non ci si può limitare a segnalare che volevano cambiare il neoliberismo “dall’interno”. Ma gli va chiaramente imputata la fallacia delle convinzioni secondo cui i rischi del mercato del lavoro non esistevano più, i ceti medi erano corposamente entrati nella categoria dei detentori di asset patrimoniali e finanziari, non c’era più bisogno del welfare state. Anche l’ostilità allo Stato è stata alimentata da anni di nefasta teorizzazione di matrice blairiana della superiorità delle pratiche di governance su quelle di government, esplicitamente indicate, e auspicate (si pensi in Italia ai numerosissimi scritti di Sabino Cassese), come metodi di “amministrativizzazione” mediante “depoliticizzazione”.

Qui siamo al punto cruciale, perché qui – sul lavoro e sul senso di “responsabilità collettiva” espresso dalle istituzioni pubbliche, che non possono essere privatizzate, né depoliticizzate – passa nuovamente la discriminante destra/sinistra. Si impone un grande investimento culturale, la necessità di un largo sforzo di discussione e elaborazione collettiva che da una parte incorpori ricerca e analisi, dall’altra si cimenti con la produzione di nuovo pensiero e di nuova teoria. I compiti immani di fronte a noi sono affrontabili solo attraverso la collegialità, la condivisione, la partecipazione, il concorso di molte intelligenze, l’attivazione di tutte le passioni.