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CRISI UCRAINA. Depositato all’Onu da un poco convinto ministro Di Maio senza spiegarlo, il piano italiano sull’Ucraina è contraddetto e «non letto» a Est come a Ovest. Peccato perché sarebbe una buona cosa da sostenere, in linea con la nostra Costituzione e con l’opinione pubblica del Paese. L’unica in cui non si parla di missili e cannoni

Un «piano di pace» buttato nella buca delle lettereMario Draghi e Luigi Di Maio - LaPresse/Roberto Monaldo

Che ci sia ognun lo dice ove sia nessun lo sa. L’amore degli amanti del Metastasio è come il piano di pace italiano per l’Ucraina: chi l’ha visto? È stato «depositato» alle Nazioni unite.

Ma come se il Palazzo di Vetro fosse una buca delle lettere, senza spiegarlo a nessuno, quasi scappando via da qualche cosa di cui non dico vergognarsi ma non essere troppo coinvolti, il piano italiano, impallinato da Est e Ovest, sembra che non l’abbia letto nessuno.

Peccato perché sarebbe una buona cosa da sostenere, in linea con la nostra Costituzione e con l’opinione pubblica del Paese. In più è anche l’unica iniziativa, al momento, in cui non si parla di missili e

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LEGGI. Il 70% dei lidi è occupato da stabilimenti balneari che pagano canoni irrisori per gestire affari da 15 miliardi di euro all’anno. In questi giorni è braccio di ferro tra governo e maggioranza sulle gare e la trasparenza delle concessioni pubbliche che l’Europa ci impone

Intesa sotto l’ombrellone. Il ddl concorrenza in aula il 30

Non dovremmo occuparci di spiagge solo perché l’Europa ci ha messo in mora per violazione delle direttive che prevedono di assegnare le concessioni balneari tramite procedure di evidenza pubblica. Il futuro delle aree costiere italiane non è infatti una questione a cui guardare attraverso le lenti deformate di una cronaca che rincorre le proteste dei balneari che si sentono espropriati da spazi che oramai consideravano di loro proprietà. Altrimenti rischiamo di non renderci conto che stiamo parlando di un bene pubblico inalienabile, come stabilisce il codice civile italiano e come stabiliva, già molti secoli fa per i litora maris, il codice di Giustiniano.

IL PROBLEMA E’ CHE DA MOLTO TEMPO abbiamo trascurato e lasciato le aree costiere in una situazione che non ha paragoni al mondo. I dati sono impressionanti, in nessun altro Paese in Europa troviamo una situazione paragonabile a quella italiana di cessione delle spiagge alla gestione privata. Mediamente metà delle spiagge è dato in concessione ma con situazioni incredibili. Per farsi un’idea, nel Comune di Gatteo, in Romagna, non esistono più spiagge libere, ma situazioni simili le troviamo da Rimini a Forte dei Marmi, da Pietrasanta a Laigueglia. Dovrebbero far riflettere i numeri che si trovano in Liguria, Emilia-Romagna e Campania, perché quasi il 70% dei lidi è occupato da stabilimenti balneari e le poche aree senza ombrelloni a pagamento sono quelle intorno a fossi e scarichi in mare, spesso non balneabili.

IN ALCUNE REGIONI SI E’ PROVATO A PORRE dei limiti all’estensione delle concessioni ma continua a mancare, a differenza degli altri Paesi europei, una norma nazionale che fissi regole per garantire il diritto di accedere e fruire liberamente della costa, insieme a criteri per la progettazione e gestione delle strutture, per evitare che si continui a distruggere dune ed ecosistemi attraverso strutture in cemento armato e pavimentazioni. E mentre questi processi procedono inesorabili non ci accorgiamo che le spiagge italiane stanno scomparendo per via dell’erosione costiera, che riguarda oramai circa il 46% delle coste sabbiose, con i tratti di litorale soggetti ad erosione triplicati dal 1970.

CRESCONO LE SPIAGGE IN CONCESSIONE. In Italia le spiagge affidate ai privati continuano ad aumentare. Sono 12.166 le concessioni dai dati dell’ultimo monitoraggio del Sistema informativo demanio marittimo, con un aumento del 12,5% in 3 anni, e un record in Sicilia dove l’aumento è stato del 42%. La ragione è molto semplice, gestire una spiaggia è un ottimo affare, perché a fronte di canoni bassi i guadagni sono sicuri. Il problema è che non solo non esistono limiti nazionali alle spiagge in concessione, ma sono anche scarsi i controlli rispetto alla qualità dell’offerta e al rispetto delle regole. Se infatti si guarda al modo in cui sono gestiti gli stabilimenti a stupire è soprattutto l’incredibile diversità delle situazioni che si incontrano.

DI POSITIVO C’E’ CHE SONO IN CRESCITA le esperienze di gestione virtuosa con attenzione alla sostenibilità e tutela ambientale, con energia da fonti rinnovabili e materiali naturali, che garantiscono l’accessibilità per tutti. Ma il problema è che in tante altre spiagge la situazione è scandalosa. Come a Ostia, dove sono stati alzati muri lunghi chilometri che impediscono di vedere il mare e di accedervi se non paghi, o a Pozzuoli dove sono reti e barriere a impedire l’accesso a un mare di fatto privatizzato, solo per citare due casi.

IL PASSAGGIO ALLE GARE POTREBBE diventare l’occasione per avere informazioni complete sulle concessioni, per verificare il rispetto delle regole, ma prima bisognerebbe scegliere in quale direzione si vuole portare il turismo costiero e da che parte si sta. Perché non è tutto uguale, non si può difendere sia la conduzione familiare degli stabilimenti, chi punta su sostenibilità e tutela dell’ambiente, ma anche coloro che invece hanno asfaltato le dune per costruirci parcheggi abusivi o che costruisce muri per gestire la spiaggia come se fosse proprietà privata.

CANONI E GUADAGNI. I DATI SU QUANTO pagano gli stabilimenti sono da sempre ragione di polemica. Gli ultimi disponibili raccontano di 115 milioni di euro all’anno, ma risultano ancora da versare 235 milioni di canoni non pagati dal 2007. L’attenzione mediatica si concentra quasi sempre sulla distanza tra questa cifra e il giro di affari degli stabilimenti balneari, che è stato stimato da Nomisma in almeno 15 miliardi di euro annui. Ma è da sottolineare anche l’enorme differenza tra gli stabilimenti di Forte dei Marmi o della Sardegna, mete di turismo internazionale e con prezzi esorbitanti, ed invece stabilimenti di realtà in particolare del sud dove gli ombrelloni si affittano per poche settimane all’anno e con prezzi non paragonabili. Anche qui, ridefinire il quadro delle regole può essere l’occasione per fare trasparenza e garantire controlli rispetto ai tanti contratti di subaffitto.

DI SICURO E’ URGENTE AGGIORNARE I CANONI e legarli ai guadagni, ampliando le differenze in funzione delle caratteristiche delle località con premialità legate alle modalità di gestione e agli interventi di riqualificazione ambientale messi in atto dal concessionario. Una novità da introdurre, su cui sono d’accordo anche i balneari, è che una parte del canone rimanga ai Comuni e che si crei un fondo nazionale per interventi di riqualificazione e valorizzazione ambientale dell’area costiera, in modo da finanziare interventi di ripascimento delle spiagge per combattere l’erosione costiera, demolizione di edifici abusivi, tutela delle dune, accessibilità pedonale e ciclabile.

LO SCONTRO IN CORSO. I PROSSIMI GIORNI saranno decisivi per capire come si concluderà il braccio di ferro in corso tra governo e maggioranza sulle gare e la trasparenza delle regole per le concessioni balneari. Al centro del confronto è il disegno di legge sulla concorrenza, tenuto in ostaggio dai partiti per ottenere modifiche ad un testo approvato in Consiglio dei Ministri a febbraio che prevede dal 2024 procedure di evidenza pubblica per l’assegnazione delle spiagge, dando così seguito a innumerevoli sentenze europee e italiane.

PER IL GOVERNO IL TESTO VA APPROVATO entro maggio, altrimenti salta una delle riforme tra gli impegni presi dal nostro paese con il recovery plan, e potrebbe esserci uno stop ai trasferimenti di risorse. I partiti, con in prima fila la Lega, chiedono invece una proroga dei termini con la promessa ai balneari che, dopo le elezioni, la situazione con Bruxelles verrà in qualche modo risolta e le gare cancellate, al limite con cessioni di proprietà demaniali. Ci sarà da seguire con attenzione la decisione finale, perché se si mettono in fila le questioni si comprende come lungo gli ottomila chilometri di aree costiere italiane si stia giocando una partita che va molto oltre le concessioni ma che riguarda il futuro del Paese. Perché si parla di ambiente e di diritti, di lavoro e di turismo per ampliare, qualificare e diversificare l’offerta. Di rilancio di tante aree costiere degradate da abusivismo e mancata depurazione.

GLI OLTRE SEIMILA E QUATTROCENTO chilometri di coste sabbiose e rocciose, inframezzate da porti, borghi e infrastrutture sono uno straordinario patrimonio del nostro Paese che ha bisogno di un progetto di tutela e valorizzazione. Che ad esempio punti a tutelare e rendere fruibili i tratti di costa di maggior pregio, allargando il patrimonio di aree naturali di proprietà pubblica, come sta facendo da tempo la Francia con il Conservatoire du Littoral e come sta avvenendo in diverse regioni spagnole. E che, in parallelo, consenta di portare avanti progetti di adattamento climatico e riqualificazione di tante aree che rischiano in questo secolo di subire enormi cambiamenti per l’innalzamento del livello dei mari, per l’impatto di trombe d’aria, alluvioni, ondate di calore.

* vicepresidente nazionale di Legambiente

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Post ideologico e post identitario, il Pd è ancora nella scia blairiana che regala alle destre populiste i temi propri della sinistra, come il lavoro e la classe operaia

Tony Blair - Wikipedia Tony Blair

E una questione salariale che ha perduto centralità nel dibattito politico. In realtà la questione è più grave e generale perché riguarda l’intera problematica del lavoro, da decenni gravata da un “oscuramento teorico” che è causa ed effetto della sua crescente “invisibilità politica”. La mancata illuminazione teorica della problematica del lavoro è all’origine dell’omissione, anche da parte della sinistra, di un compito cruciale – rappresentare e mediare i conflitti sociali –, a sua volta alla base della perdita di autorevolezza e autorità della politica italiana, anche quella di sinistra. Tutto ciò è importante in sé e spinge a chiedersi: perché i processi di svalutazione del lavoro sono stati così poco contrastati anche sul piano teorico e culturale? Perché ci si è attardati nella puerile esaltazione della “fine del lavoro”? Perché, anche a sinistra, si è stati così frettolosi nell’archiviare il Novecento, “secolo del lavoro”?

Ma tutto ciò è importante anche perché è parte integrante di quella riflessione sul “neocentrismo” (le elezioni si vincono solo al centro e per questo bisogna rassegnarsi al moderatismo, “disintermediando” e abbandonando una volta di più i riferimenti sociali tradizionali) che si è riaperta nella politica italiana e che chiama in causa soprattutto il Partito Democratico, il quale si propone come promotore di un “campo largo” di centro-sinistra.

Ora ci sarebbe finalmente l’occasione di chiarire alcuni equivoci di fondo, mai adeguatamente discussi, che hanno presieduto alla stessa nascita del Pd: a) la presupposizione tacita che il partito democratico dovesse essere sostanzialmente un partito “moderato” (per questo travalicante l’asse destra/sinistra); b) l’idea che il partito democratico, in quanto “post-ideologico”, dovesse anche essere “post-identitario” (per questo privo di referenti sociali primari).

È Habermas che, nel commentare la “mobilitazione del risentimento” operata dai dilaganti populismi e la capacità di un seduttivo “populismo di destra” di “rubare” temi propri della sinistra (compresa l’attenzione al lavoro e alla classe operaia), denunzia la mancanza di “ogni tempra politica” nella sinistra stessa, desertificata dalla sua interminabile soggezione alla Terza Via di Blair, e indica nella riscoperta di un autentico discrimine destra/sinistra e in una “polarizzazione democratica” – l’opposto della convergenza al “centro” – la via per la rinascita. La sinistra è chiamata a una più perspicua rappresentazione di ciò che ha provocato l’avvento del neoliberismo, facendo fino in fondo i conti con esso e disperdendo quell’alone di “inspiegato” che persiste attorno a narrazioni deterministiche della globalizzazione sregolata, dell’ondata di privatizzazioni, della ipertrofia finanziaria, della precarizzazione del lavoro, come se fossero stati fenomeni ineluttabili, naturalisticamente necessitati e non veicolati da una precisa intenzionalità politica.

Ne discenderebbe anche una più puntuale identificazione, e ammissione, degli errori compiuti dalle sinistre nel traumatico passaggio dai “trent’anni gloriosi” al neoliberismo. Se il lavoro e il “senso di responsabilità collettiva” affidato alle istituzioni pubbliche sono state le grandi vittime del neoliberismo, il drastico indebolimento della sfera lavorativa e delle forze sociali che di essa vivono e ad essa si ispirano a cui abbiamo assistito negli ultimi trent’anni ha certamente qualcosa a che fare con le Terze Vie à la Tony Blair, di cui non ci si può limitare a segnalare che volevano cambiare il neoliberismo “dall’interno”. Ma gli va chiaramente imputata la fallacia delle convinzioni secondo cui i rischi del mercato del lavoro non esistevano più, i ceti medi erano corposamente entrati nella categoria dei detentori di asset patrimoniali e finanziari, non c’era più bisogno del welfare state. Anche l’ostilità allo Stato è stata alimentata da anni di nefasta teorizzazione di matrice blairiana della superiorità delle pratiche di governance su quelle di government, esplicitamente indicate, e auspicate (si pensi in Italia ai numerosissimi scritti di Sabino Cassese), come metodi di “amministrativizzazione” mediante “depoliticizzazione”.

Qui siamo al punto cruciale, perché qui – sul lavoro e sul senso di “responsabilità collettiva” espresso dalle istituzioni pubbliche, che non possono essere privatizzate, né depoliticizzate – passa nuovamente la discriminante destra/sinistra. Si impone un grande investimento culturale, la necessità di un largo sforzo di discussione e elaborazione collettiva che da una parte incorpori ricerca e analisi, dall’altra si cimenti con la produzione di nuovo pensiero e di nuova teoria. I compiti immani di fronte a noi sono affrontabili solo attraverso la collegialità, la condivisione, la partecipazione, il concorso di molte intelligenze, l’attivazione di tutte le passioni.

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L'INTERVENTO. Le disuguaglianze aumentano, ma non possiamo arrenderci

 

È tempo di smetterla di mantenere, anche senza volerlo, l’idea che la disuguaglianza, rispetto ai diritti alla vita, in particolare la povertà, sia un fenomeno «naturale», inevitabile, insolubile, se non localmente e per certe categorie sociali. Dobbiamo riaffermare che la povertà è un processo, una costruzione sociale, il risultato dei processi d’impoverimento, provocati e mantenuti dai gruppi sociali dominanti, per l’appunto gli «impoveritori».

Il più sovente, la dovizia di dati che fanno pensare, le cifre intollerabili, i rapporti annuali sulla povertà estrema, sui miliardari in continua crescita e gli impoveriti in condizioni di vita sempre più estreme, terminano con petizioni ai potenti di diminuire le ingiustizie, appelli ai governi e agli arricchiti di essere un po’ meno egoisti, inviti generali alla solidarietà ed alla compassione.

Sono più di 50 anni che la litania si ripete, esempio: i rapporti di Oxfam, per non menzionare la moltitudine dei rapporti delle varie agenzie dell’Onu, della Banca Mondiale e, persino, del grande tempio, il World Economic Forum, dove s’incontrano annualmente i principali impoveritori (ed arricchiti) del mondo. Nel frattempo, da due anni tutti sanno che da quando è scoppiata la pandemia Covid- 19, i miliardari sono aumentati di numero (573 ) mentre le persone in condizioni di povertà estrema sono state 263 milioni.

E cosa sta succedendo, al di là delle meritevoli denunce di Papa Francesco e di migliaia di piccole associazioni nei vari angoli della Terra? Niente, di significativo. Proprio ciò che sarebbe dovuto «logicamente» accadere (cambiamenti di sistema) non è accaduto.

Ma dobbiamo essere riconoscenti ai milioni di semplici cittadini che con passione, volontari o remunerati, in tutti i campi (dalla salute, all’assistenza dei più deboli, degli esclusi, dei migranti; dall’infanzia all’educazione, all’alloggio, ai diritti umani e sociali…) fanno in modo che, con le loro azioni, le immense città predatrici del mondo possano essere ancora un po’ vivibili…
Gli impoveritori del mondo, però, continuano le guerre e le devastazioni della vita della Terra unicamente per conservare ed accrescere la loro potenza e continuare il loro furto della vita degli altri e della natura.

Da anni, il grido planetario, «cambiamo il sistema», risuona su tutti i continenti ma anch’esso non sembra smuovere di un centimetro la piccola minoranza degli impoveritori e dei predatori.
Arrendersi? Abbandonare? Cercare di salvarsi? Anche queste soluzioni, oggi predominanti, non sembrano dare buoni risultati, anzi, la paura dell’estinzione di massa cresce così come aumenta la mancanza dii fiducia negli altri.

Non si deve abbandonare, non dobbiamo arrenderci. Dobbiamo denunciare sempre, con forza, senza compromessi, le opere degli impoveritori e dei seminatori di razzismo, classismo, xenofobia, supremazie, in tutti i luoghi, in tutti i momenti.

Dobbiamo imprecare contro il cinismo, l’ipocrisia e la vigliaccheria dei potenti, degli impoveritori e dei predatori, compresa la meschineria degli opportunisti. Dobbiamo infine allearci su scala mondiale perché la storia mostra che i deboli, gli esclusi, gli impoveriti possono sconfiggere le disuguaglianze solo quando sono uniti. Sono invece sconfitti quando, come negli ultimi quaranta anni, si sono divisi e hanno perso la fiducia nella loro capacità di cambiare il corso della storia. Vedi il caso degli operai e degli «intellettuali progressisti».

La storia dell’Umanità e della vita della Terra resta da scrivere. In piedi.

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L'APPELLO. Dopo oltre due mesi è chiaro che le armi non hanno ridotto la sofferenza dei civili e non hanno avvicinato una soluzione giusta del conflitto. Quello proposto come aiuto all’Ucraina ha trasformato donne e uomini di quel paese in pedine di una guerra tra NATO e Russia che ogni giorno ci vede più coinvolti.

L’invasione dell’Ucraina da parte della Russia ha riportato in Europa la tragedia della guerra, una tragedia che negli ultimi trent’anni si è consumata nella nostra distrazione in tante parti del mondo. Si può entrare nelle guerre quasi senza accorgersene ma poi è difficile uscirne.

Molte persone in buona fede hanno pensato inizialmente che fornire armi fosse il modo migliore per sostenere la resistenza ed essere vicini al popolo ucraino. Dopo oltre due mesi è chiaro che le armi non hanno ridotto la sofferenza dei civili e non hanno avvicinato una soluzione giusta del conflitto. Quello proposto come aiuto all’Ucraina ha trasformato donne e uomini di quel paese in pedine di una guerra tra NATO e Russia che ogni giorno ci vede più coinvolti.

Anche molti politici europei cominciano a rendersene conto. Anche nelle nostre istituzioni avanzano proposte e valutazioni più ragionevoli che vanno sostenute e valorizzate.

Se gli obiettivi dichiarati sono stati da un lato la denazificazione e la neutralità dell’Ucraina e dall’altro la resistenza all’invasione, oggi si parla di Vittoria e Resa. La retorica bellica ci trascina sempre più verso il baratro, una escalation pericolosissima alimentata irresponsabilmente dall’azzardo di cercare la sconfitta militare di una potenza nucleare. E diventa un’opzione l’incancrenimento del conflitto, come tante volte altrove, in una guerra cronica in Europa.

La guerra uccide le persone e non rappresenta la soluzione. In molte e molti hanno detto: certo le cause del conflitto sono complesse e la guerra è orribile ma ora, che si può fare? L’analisi delle cause e del contesto è condannata come ambiguità. L’unica soluzione proposta è quella militare. Eppure trent’anni di guerre umanitarie, preventive e fuori dall’ONU, cosa hanno prodotto? Hanno fermato le guerre, hanno indebolito le dittature, contrastato i nazionalismi, favorito la libertà delle persone? Afghanistan, Siria, Libia e prima l’Iraq, l’ex Jugoslavia sono lì a dimostrare che la guerra è un’illusione distruttiva e che è la pace l’unica alternativa razionale.

L’alternativa alla guerra era la resa? No l’alternativa era ed è una soluzione diplomatica per la quale sarebbe servita, servirebbero soggetti terzi autorevoli, autonomi e credibili. L’Europa deve acquisire un ruolo autonomo ed essere soggetto promotore di pace e cooperazione. Va rilanciato il ruolo prioritario dell’Assemblea dell’ONU nella prevenzione dei conflitti e nell’affermazione del dialogo per la stabilità democratica e la difesa dei Diritti Umani. La guerra fa arretrare il mondo: torna la logica dei blocchi che schiaccia l’Europa e marginalizza l’ONU. L’Europa viene arruolata nei ranghi della NATO, trasformata in emblema della democrazia anche se comprende la Turchia di Erdogan, definita dallo stesso Draghi una “dittatura” che “ci fa comodo”.

Si fa appello al dovere etico del combattimento ma si liquida il rifiuto della guerra come “petizione etica” che non fa i conti con la realtà. Strateghi da salotto irridono “l’ingenuità dei pacifisti”. Così si liquidava paternalisticamente chi denunciava la vendita di armi a regimi totalitari e a paesi in conflitto come Arabia Saudita, Russia, Turchia o Israele. Salvo poi inorridire se Putin usa quelle armi in Ucraina o chiudere gli occhi se l’Arabia Saudita scarica quelle armi sui civili in Yemen o la Turchia le usa per massacrare i curdi buoni solo quando dovevano combattere per noi l’ISIS.

La storia ci mostra l’ipocrisia e la contraddittorietà del ricorso alla guerra come soluzione.

La guerra dilania i corpi e sfigura le democrazie: avvelena l’informazione, contrae gli spazi di espressione della pluralità, produce sospetto, riporta all’ordine, colpevolizza dubbi e interdice le differenze. Torna la guerra di civiltà tra Occidente e Oriente che rappresenta la cultura e la storia russa come assolutismo e barbarie. La cultura russa è parte integrante della nostra storia, le democrazie europee sono figlie della comune guerra contro il nazismo e di quel compromesso tra capitale e lavoro che fu alla base dello stato sociale europeo.

Tra uccidere e morire c’è una terza via: vivere. Ci chiedono “con chi stai?” Come se rifiutare di schierarsi significasse non distinguere le responsabilità: ma davvero l’unica scelta è assistere allo scontro ‘tifando’ e non svolgere invece un ruolo attivo per soluzione della pace? Non si tratta di indifferenza ma di ‘essere altro’, di voler rappresentare un’alternativa alla logica di guerra. Rifiutiamo la logica aut-aut e affermiamo una terza via fuori dallo schema amico-nemico. Siamo con le femministe e i cittadini e le cittadine russe che, rischiando repressioni violente e carcere, manifestano contro lo sciovinismo di Putin e le violenze e gli stupri di guerra; siamo con la popolazione civile ucraina che ha perso i propri cari e le proprie case, siamo con chi nei diversi paesi europei ha contrastato la crescita dei nazionalismi. Siamo con chi fugge da questa e da tutte le altre guerre e tragedie e viene respinto ai confini dell’Europa. Ripudiamo la violenza dello scontro militare e siamo con i giovani russi mandati a morire in questa assurda guerra e con gli uomini ucraini obbligati ad armarsi senza poter fuggire dalla guerra con le proprie famiglie.

Negli anni’80 il movimento per la pace era contro tutti i missili e tutti i blocchi, e nel Golfo, in Iraq, nella ex Jugoslavia, in Siria, la pace è sempre stata un’alternativa allo schieramento.

La guerra uccide e affama il mondo: la prosecuzione del conflitto e la speculazione stanno privando di cibo i paesi del Sud preparando nuove sofferenze e conflitti. Un sistema basato sulla distruzione delle risorse e la speculazione finanziaria produce miseria e guerra.

Anche oggi, nonostante il martellamento mediatico e il quasi unanimismo delle forze politiche, i sondaggi continuano a registrare una contrarietà all’invio di armi e alla scelta di contribuire al massacro e all’escalation militare. Il ripudio della guerra, scritto in Costituzione, è ancora saldo nella coscienza di chi vive nel nostro paese.

Diamo voce alle ragioni vere della pace, sosteniamo le iniziative promosse dalle reti e organizzazioni, costruiamo un appuntamento unitario e aperto a Roma contro la guerra.

  • Immediato cessate il fuoco
  • Stop all’invio di armi
  • Sostegno all’aiuto umanitario e alle evacuazioni per la popolazione civile ucraina
  • Convocazione di una conferenza di pace internazionale che coinvolga Ucraina, Russia, Europa, Turchia, Cina e USA con la regia dell’ONU
  • Costruzione di una conferenza per la pace e la sicurezza in Europa
  • Stop all’allargamento della NATO
  • Stop all’aumento delle spese militari in Italia
  • Sostegno agli obiettori di coscienza in Ucraina e Russia
  • Sostegno alle cittadine e ai cittadini della Russia oppositori della guerra
  • Difendere un’informazione libera e pluralista contro la retorica di guerra
  • Riportare al Parlamento le scelte, rispettare testo e spirito della Costituzione

Le prime adesioni (in ordine alfabetico): Michele Abrusci, Silvia Acquistapace, Barbara Auleta, Paolo Berdini, Gianfranco Bocchinfuso, Enrico Calamai, Massimo Cervellini, Stefano Ciccone, Luca Coccia, Danilo Cosentino; Nicoletta Dentico, Monica Di Sisto, Alessandra Filabozzi, Francesca Fornario, Domenico Gallo, Pietro Masina, Giorgio Mele, Velia Minicozzi, Giusi Gabriele, Nuccio Iovene, Chiara Luti, Sandro Medici, Pasqualina Napoletano, Simone Oggionni, Catia Papa, Silvana Pisa, Giuseppe Reitano, Giulia Rodano, Angelica Romano, Gianni Ruocco, Vittorio Sartogo, Pietro Soldini, Silvia Stilli, Claudio Tognonato, Stefania Tuzi, Vincenzo Vita, Carolina Zincone

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RIFORME. Bonus, detrazioni fiscali, flat tax, svuotamento della revisione del catasto. E non è credibile la scommessa sull’aumento delle entrate perché c’è il ridimensionamento del Pil

Dalla crisi dello Stato fiscale alla crisi dello Stato sociale

Della riforma fiscale, definita «strutturale» dal presidente Draghi nel suo discorso d’insediamento alle Camere, non resta traccia. Intendiamoci, la legge delega verrà approvata, ma cambiata in peggio, aldilà di ogni aspettativa.

Il fisco italiano fa passi da gigante verso un sistema «proporzionale». Con la riduzione delle aliquote Irpef da quattro a tre e la conferma e l’estensione della flat tax viene di fatto sancito l’abbandono dei criteri di equità e progressività previsti dalla Costituzione. Il cosiddetto regime «duale» è sparito dai radar. Rimane una tassazione differenziata e di favore dei redditi da capitale e delle rendite finanziarie e immobiliari.

Sul Catasto, indietro tutta. La revisione degli estimi non avrà alcun effetto pratico. Non è tempo di aumentare le tasse. Le ville con piscina, accatastate come case rurali, e gli immobili ristrutturati nei centri storici, pur con valori aggiornati, continueranno a pagare imposte più basse degli appartamenti nei quartieri di periferia. Non è tempo nemmeno di far pagare un po’ di più chi eredita grandi fortune, e guai a parlare di

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