Il segretario generale della Cgil dal palco della Leopolda rilancia la mobilitazione: “Il 20 aprile in piazza. Vogliamo una società più giusta basata sulla Costituzione”
“C’eravamo presi un impegno: che non ci saremmo fermati e che saremmo andati avanti fino a quando sarebbe stato necessario, fino a quando non avremmo ottenuto dei risultati. E se oggi siamo qui a discutere è perché da novembre le cose non sono migliorate”. Dal palco della Leopolda a Firenze il segretario generale della Cgil, Maurizio Landini, va dritto al punto di fronte ai 1.700 delegati riuniti per l’assemblea nazionale di Rsu e Rls dal titolo emblematico: “Adesso basta! Sicurezza e rappresentanza del lavoro”.
Due temi che il leader della Cgil ha voluto tenere insieme da subito, ricordando alla platea gli incontri finti che sulla salute e sicurezza sul lavoro sono stati fatti dal governo, incontri che hanno anche messo in discussione “il diritto dei lavoratori a scegliersi la propria rappresentanza con il quale il governo deve trattare e trovare soluzioni”, mentre al contrario oggi “è il governo che vuole decidere con chi trattare”. Una cosa gravissima, “che mette in discussione il nostro ruolo”, e che arriva a “mettere in discussione il diritto delle lavoratrici dei lavoratori di organizzarsi collettivamente e di poter portare a casa dei risultati”.
Si tratta, e Landini lo dice senza fronzoli, “di un vero e proprio attacco alla democrazia e alla libertà delle persone perché, ripeto, non può essere il governo che decide con chi negoziare”. E visto che tutti a parole difendono la democrazia il leader della Cgil, alludendo alla necessità di una legge sulla rappresentanza, ha ricordato che per sedere in Parlamento ci sono delle regole, ad esempio una soglia minima del 3.5% di voti: e dunque “Perché queste regole che servono a far funzionare la politica non possono valere anche per noi”?
Landini ha poi ricordato dal palco l’ennesimo morto di questa mattina, un operaio di 51 anni rimasto schiacciato in un cantiere di Sondrio da alcuni pannelli di legno. Bisogna dunque intervenire, ma per farlo “non basta qualche provvedimento sparso”, ma occorre “produrre un vero e proprio cambiamento” che investe alle radici il nostro modo di produrre, il nostro sistema economico. “Non si tratta solo – ha ricordato – di una cosa importantissima come non morire sul lavoro, ma di far sì che le persone al lavoro si possano realizzare, utilizzare la propria intelligenza, stare bene”.
Ecco perché alcune norme non bastano. Qui il segretario generale della Cgil ha avuto gioco facile nel ricordare che “in questi anni tutto ciò che è stato fatto è andato nella direzione di aumentare la precarietà, gli appalti e i subappalti, la frantumazione delle filiere al punto che la stessa contrattazione collettiva viene vissuta come un vincolo inaccettabile”.
Tutti elementi, questi, che non solo peggiorano il lavoro e ne aumentano l’insicurezza – “visto che il 90% delle morti avviene negli appalti e nella stragrande maggioranza dei casi colpisce i lavoratori precari” – ma favoriscono l’illegalità e le infiltrazioni mafiose. E proprio per questo, ha aggiunto, “nella piattaforma che abbiamo predisposto uno dei temi fondamentali è proprio dire basta alla precarietà, che è un nodo fondamentale per garantire la salute e la sicurezza sul lavoro”.
Quello dello sfruttamento del lavoro dei migranti è un altro tema fondamentale. “Quando dopo i tragici fatti di Firenze durante l’incontro alla presidenza del Consiglio abbiamo sottolineato che quattro tra i morti non erano nati nel nostro paese e che dalle indagini sembrava che due erano anche senza permesso di soggiorno e lavoravano in nero e gli abbiamo detto che per eliminare questo problema bisognava cancellare la Bossi-Fini, ci hanno guardato come se non capissero qual era il nesso”. Mentre il nesso evidentemente c’è: “È uno strumento – ha attaccato Landini – che viene utilizzato per favorire lavoro nero, caporalato e sfruttamento”.
Nella mobilitazione per un “buon lavoro” anche le imprese devono fare la loro parte. Così il segretario: “Le associazioni d'impresa dovrebbero insieme a noi fare la battaglia affinché le forme distorte di lavoro vengano cancellate. Chi non rispetta le regole dovrebbe essere cacciato fuori dalle associazioni, facciamola insieme questa lotta”. Anche qualche anno dopo, non si può dimenticare l'esperienza pandemica: “Quando c'è stato il Covid abbiamo fatto un accordo in due giorni, per non bloccare la produzione e mettere in sicurezza le persone – ha ricordato -: chi vuole fare intese non si mette a fare incontri finti, come questo governo. In quel caso sono stati i delegati e i rappresentanti per la sicurezza che si sono fatti carico del problema: ma non si può fare solo quando c'è l'emergenza”.
Si apre ora un periodo decisivo. Ha osservato Landini: “Il mese di aprile deve dare il segno del cambiamento: sia la Camera che il Senato sono chiamati a discutere di molti provvedimenti. L’11 aprile faremo quattro ore di sciopero per la sicurezza, poi il 20 aprile a Roma ci sarà una grande manifestazione nazionale. Vogliamo dare un segnale al governo e al Parlamento: i lavoratori che mandano avanti questo Paese si sono rotti le scatole, c'è bisogno di un cambiare rotta subito”. Rivolgendosi alla platea, quindi: “Se non lo facciamo noi insieme, non c'è qualcuno che lo farà per noi. Non dobbiamo delegare nessuno, ognuno faccia la sua parte”.
Un passaggio poi sulla sanità. “Quando si parla di sanità, salute e sicurezza, va ricordato che in vent’anni abbiamo avuto 40 miliardi di tagli sulla spesa sanitaria: sono tagli che poi si pagano, perché ricadono su dipendenti, pensionati e sulla qualità del servizio. In realtà i soldi da andare a prendere ci sono, basta tassare le rendite finanziarie e i grandi patrimoni. Ma oggi siamo di fronte a un paradosso: c'è stato un forte calo del potere d’acquisto dei salari, infatti l’aumento dell’inflazione è dovuto all'aumento dei profitti, non dei salari. Gli stipendi non hanno tenuto il passo, i profitti sono cresciuti e continuano a non tassare le rendite. Intanto sanità è diventata regionale, proprio in questi giorni i Comuni e le Regioni ci stanno dicendo che per mantenere i servizi devi pagare più tasse”. La sanità pubblica sta insomma scomparendo: “La situazione è drammatica: si arriva a pagare due volte, cioè devi ripagare per farti una visita perché la sanità pubblica non è più in grado di darti una risposta”.
Non va meglio sul capitolo del fisco. “Si stanno inventando condoni e concordati preventivi – ha detto il leader della Cgil –, siamo all’assurdo che due persone con lo stesso reddito non pagano le stesse tasse. Secondo noi invece ognuno deve pagare per quello che ha: serve un fisco progressivo e una battaglia vera contro l'evasione fiscale. Perché il governo continua ad agire così? A me sembrano ‘marchette’ elettorali – ha riflettuto -, ma soprattutto c’è l’idea che lavoratori dipendenti e pensionati siano la mucca da mungere, coloro che continuano a pagare. Non a caso hanno fatto cassa sul reddito di cittadinanza, non hanno rivalutato le pensioni, ti mandano in pensione a 70 anni”.
Sanità pubblica, riforma fiscale, aumento dei salari: “Noi vogliamo che si affermi un modello di società in cui il lavoro e le persone tornino al centro. E di lavoro non si può morire, ha concluso Landini. “Il lavoro deve essere dignitoso e ti deve dare la possibilità di vivere, non di morire. Facciamo allora le politiche industriali necessarie a far crescere il Paese: la nostra missione è tutelare le persone anche fuori dal luogo di impiego, proponendo un’idea generale di società basata sul lavoro come dice la nostra Costituzione”.
Buongiorno,
a nome e per conto del signor Luca Giacomoni, autore del libro "Anime nel fango", invio di seguito il Comunicato Stampa emesso a seguito della proiezione del film omonimo, lo scorso martedì 19 marzo.
Martedì 19 marzo 2024, al cinema Sarti di Faenza, è stato proiettato il Docufilm "Anime nel fango" del regista e direttore della fotografia Ettore Zito, tratto dall’omonimo libro di Luca Giacomoni.
Desideriamo ringraziare il Comune di Faenza per averci concesso il Patrocinio, Cinemaincentro per averci messo a disposizione la sala e il personale, e la Bottega Bertaccini per averci aiutato nella vendita dei libri. Il loro contributo è stato completamente gratuito.
Il ringraziamento più grande, però, va a tutte le persone che hanno voluto assistere alla proiezione, occupando sia i posti in platea sia nei palchi e acquistando le quasi ultime copie del libro. È stata l’ennesima dimostrazione di solidarietà e sostegno che la città di Faenza ci ha dimostrato.
Il Progetto Anime nel fango prosegue con sempre maggior entusiasmo il suo cammino, con l’obiettivo di raccogliere fondi che, al netto delle spese, saranno utilizzati a favore delle vittime dell’alluvione. I prossimi appuntamenti sono il 27 marzo a Montecitorio a Roma e il 6 aprile a Cesena al cinema Eliseo.
Destinatari:
A tutte le strutture
In relazione alla nostra raccolta vi informiamo che il carico di aiuti umanitari per la popolazione palestinese di Gaza è oramai pronto per la partenza.
Le donazioni ricevute e gli acquisti realizzati grazie alla raccolta fondi, oltre 10 tonnellate tra alimenti (latte in polvere e alimenti per neonati), materiali per presidi sanitari, materiale igienico per donne, sono già depositati nel magazzino della Caritas di La Spezia.
Il carico, via nave, raggiungerà Porto Said in Egitto e quindi, via terra, proseguirà ad Al Arish, dove avviene il primo controllo da parte delle autorità egiziane, per poi affrontare il secondo ed ultimo controllo da parte dei militari israeliani, quindi, il carico potrà finalmente entrare nella Striscia di Gaza, tramite il valico di Rafah, per essere preso in consegna dalla Mezza Luna Rossa e dalle agenzie ONU.
Questo complicato e tortuoso iter burocratico sta determinando un grave rallentamento del flusso di entrata degli aiuti umanitari, come è noto, oltre 1500 tir sono fermi al valico di Rafah, mentre la popolazione palestinese è stremata.
L’operazione umanitaria è realizzata in collaborazione con l’Associazione delle ONG Italiane (AOI), con il CISS di Palermo, ong registrata in Egitto e partner della Mezza Luna Rossa Egiziana, ente umanitario autorizzato e riconosciuto dalle autorità israeliane per operare in questa crisi umanitaria. Vi terremo informati sugli sviluppi.
Vento, sisma, acciaio: i rilievi di 68 criticità del Comitato scientifico confermano l’opinione di sindacati circa l’opera sullo Stretto. L’analisi di Alfio Mannino, Cgil
Il Comitato tecnico scientifico sul progetto del ponte sullo Stretto di Messina rileva 68 mancanze strutturali nel progetto stesso che mettono bastoni tra le ruote al ministro Matteo Salvini, il quale aveva annunciato l’inizio dei lavori già per prima dell’inizio dell’estate.
Il Comitato, nominato dal ministero delle Infrastrutture (il dicastero guidato dallo stesso Salvini) di concerto con le Regioni, non ha certo bocciato il progetto, ma ha elaborato una lunga serie di raccomandazioni tra le quali ve ne sono alcune di particolare rilievo. Tra questi: è chiesto che siano fatte maggiori verifiche sull’effetto dei venti perché le ultime risalgono al 2011; anche quelle sulla tenuta sismica devono essere aggiornate in base ai violenti terremoti verificatisi negli ultimi anni; è poi richiesto l’utilizzo di materiali dii più recente tecnologia e di rendere noto come e dove sarà reperito l’acciaio necessario alla costruzione del ponte.
Alfio Mannino, segretario generale della Cgil Sicilia, nell’audio-intervista spiega che le criticità sollevate non giungono nuove e non colgono il sindacato stupito. Il progetto sul quale si basa il piano del consorzio privato Eurolink e gestito dalla società pubblica Stretto di Messina Spa è ormai datato e la necessità del ministro Salvini di procedere velocemente con l’inizio dei lavori è dettata da esigenze elettorali e quindi di propaganda.
Mannino insiste anche sul costo del ponte, poiché si parla di 13 miliardi di euro, ma i costi lieviteranno inevitabilmente, anche per i rilievi del Comitato. Motivo per il quale ‘il governo ha sollevato sul progetto una nebulosa che impedisse di vedere le criticità. Non manca il capitolo espropri, quelli che devono essere effettuati nei confronti di chi occupa, con abitazioni o aziende, le aree che saranno interessate dal cantiere e dalla mega-struttura del ponte che avrà i suoi piedi sulla terraferma di Sicilia e Calabria. E anche l’accordo sugli espropri è ancora in alto mare.
Al via la campagna di Cgil e categorie per sensibilizzare e informare su un fenomeno esploso negli ultimi decenni. Gabrielli: “La politica non se ne occupa”
Una campagna di sensibilizzazione e informazione sulla precarietà, ma anche di lotta contro la precarietà. La promuove la Cgil insieme alle sue categorie per alzare l’attenzione sulla questione della qualità e della dignità del lavoro e della condizione dei redditi, tutti temi che non sono al centro dell’agenda politica del nostro Paese. “La precarietà ha troppe facce. Combattiamola insieme” è lo slogan dell’iniziativa, animata sui canali social dai lavoratori che rappresentano e incarnano la precarietà.
Per nove settimane saranno protagonisti i volti e le storie di chi fa i conti con ogni tipo di flessibilità e di incertezza: a termine, part time, in appalto, in somministrazione, pagati con voucher e contratti intermittenti, a collaborazione e a partita Iva, con orari miseri, irregolari, stagionali. Tante facce per altrettante condizioni occupazionali, che si traducono in situazioni di vita difficili e complicate prospettive per il futuro. Si parte con i lavoratori a termine, che in Italia sono circa 3 milioni.
“Abbiamo scelto i volti perché dietro ai numeri dei milioni di somministrati, intermittenti o lavoratori a termine ci sono persone – spiega la segretaria confederale della Cgil Maria Grazia Gabrielli -. Persone con le loro storie, le loro ansie, i problemi quotidiani, i sogni, le aspettative. Raccontarli in maniera diretta, così chiara e nitida, li rende concreti. Dietro ai dati sui quali si baserà la campagna e di cui di solito non si parla, ci sono giovani e meno giovani, migranti, uomini e donne impiegati nei settori pubblici e privati, che sono la rappresentazione della realtà”.
Perché la Cgil ha deciso di fare una campagna sulla e contro la precarietà?
Perché si continua a guardare la crescita dell’occupazione, un aspetto importante che va certamente osservato ma che non è sufficiente per misurare lo stato di salute di milioni di precari e non precari del nostro Paese. Sono persone che restano ai margini. Le politiche che vengono fatte e, ancor peggio, le scelte che non vengono compiute lasciano questi lavoratori in una condizione di mancanza di libertà, poiché non possono vivere dignitosamente e non possono decidere della propria vita. Questa non è una questione contingente, non riguarda solo l’oggi, ma anche il futuro di milioni di persone. Quindi bisogna affrontare e risolvere due emergenze: lavorare sulla precarietà oggi significa costruire in prospettiva migliori condizioni per i pensionati di domani.
Questo perché la precarietà riguarda soprattutto i giovani?
La precarietà condanna in particolar modo le generazioni più giovani, le rende particolarmente fragili e riguarda ancora più le donne degli uomini. È a queste due grandi platee che dovremmo rivolgere specifiche politiche per recuperare il gap esistente, che abbiamo anche nei confronti del resto dell’Europa, oltre alle disparità che ci sono all’interno del nostro Paese, come per esempio tra Nord e Sud. Eppure ancora oggi tutto questo non è al centro delle politiche del governo.
La precarietà è un fenomeno in crescita?
Sì, è in crescita ed è un fenomeno che va guardato con una lente di ingrandimento perché comprende anche una fetta importante di lavoratori irregolari o in nero, quindi sostanzialmente sconosciuti.
È il nero la forma più odiosa di precarietà?
Il lavoro nero e irregolare presenta certamente le condizioni più drammatiche e deleterie ed è spesso collegato al caporalato, un fenomeno ancora presente che anzi si è consolidato, diventando quasi strutturale nel settore agricolo ed esteso a moltissimi altri ambiti economici e produttivi. È il più odioso perché rende evidente la condizione di schiavitù del lavoratore, che è all’opposto di ciò che il lavoro dovrebbe rappresentare, e cioè rendere liberi e liberi di scegliere, di essere autonomi e autodeterminarsi.
La gamma delle tipologie contrattuali che costringono in una condizione di precarietà è molto ampia, e il nostro ordinamento prevede che si possa vivere in una situazione di povertà anche quando si ha un contratto di lavoro stabile. Questo capita a chi ha poche ore lavorate pur avendo un tempo indeterminato, penso al part time e in particolare al part time involontario che è enormemente cresciuto, o a chi è a tempo pieno ma in appalto, quindi con una precarietà data dal sistema degli appalti, subappalti, rinnovi.
Quando si parla di precarietà l’accusa più frequente che viene rivolta al sindacato è che non se ne è mai occupato abbastanza. Che cosa risponde?
Che noi ce ne siamo occupati e continuiamo farlo. Siamo l’organizzazione sindacale che ha proposto e propone iniziative inclusive, di contrasto alle soluzioni che mirano a rendere più precario, debole e frantumato il mercato del lavoro. Lo abbiamo fatto con il jobs act e con la legislazione che ne è seguita, con il contratto a temine, con il sistema degli appalti.
Solo chi ha poca memoria o è in mala fede non ricorda che abbiamo proposto un modello sociale diverso attraverso la Carta dei diritti universali del lavoro. E poi, ancora, davanti a un sistema regolatorio che ha precarizzato e reso più deboli e vulnerabili i lavoratori, accentuando una flessibilità che è tutt’altro che positiva, abbiamo continuato a esercitare un ruolo nella contrattazione nazionale, nel promuovere le buone pratiche nelle aziende per attivare percorsi di stabilizzazione.
È questo il significato dello slogan “combattiamola insieme”?
Per cambiare il mercato del lavoro e costruire un modello sociale più giusto, equo e dignitoso da consegnare alle giovani generazioni è necessario che questo sia un obiettivo condiviso, collettivo, partecipato anche da chi non ha mai vissuto la condizione di precarietà. Abbiamo bisogno di trasversalità, di comprendere che se non viene rimossa questa zona d’ombra è difficile immaginare di migliorare le condizioni di tutti.
Noi lo faremo con molti strumenti, la contrattazione, le proposte di legge, i contenziosi. E continueremo a farlo anche con l’iniziativa referendaria. È un’azione completa quella che la Cgil mette in campo per superare gli elementi di difficoltà, precarietà e povertà.
Il 13 marzo 1987, al porto di Ravenna, 13 operai restano soffocati all'interno della gasiera Elisabetta Montanari. Per non dimenticare
La mattina del 13 marzo 1987, nel porto di Ravenna, 13 operai - molti dei quali giovanissimi - muoiono soffocati nella stiva della nave gasiera Elisabetta Montanari. A scatenare l’evento è un incendio, le cui esalazioni causano il decesso per asfissia dei lavoratori impegnati in lavori di manutenzione e pulizia.
Le indagini riveleranno la disapplicazione delle più elementari misure di sicurezza - dalla disponibilità di estintori e presidi antincendio alla previsione di vie di fuga in caso di pericolo - e paleseranno la disorganizzazione del cantiere - di proprietà della Mecnavi Srl -, il reclutamento di manodopera attraverso il caporalato, l’assunzione di lavoratori in nero.
“Mai più - scriveva il giorno successivo Pietro Folena su l’Unità - Questo si deve promettere, che mai più possano accadere tragedie come quella di ieri, a Ravenna. Tredici morti. Due venivano dal Sud. Uno era egiziano. Gli altri di Ravenna, di Bertisoro, di altri comuni vicini. Dieci erano ragazzi tra i 19 ed i 24 anni, e tre lavoravano ieri per il primo giorno. (…) Non si osi parlare di tragica fatalità (…) le responsabilità appaiono evidenti. (…) Eccoci allora dalla rabbia di nuovo al dolore. Dal dolore ancora all’incredulità. Come può succedere in un mondo che si pretende ‘civile’. Come può accadere in un’Italia che si pretende ‘avanzata’. Ora bisogna punire i colpevoli. Ma anche cambiare le cose. Lo dobbiamo a Alessandro, a Onofrio, ai loro compagni”.
Era 37 anni fa. Sembra oggi. “Ho raccontato negli ultimi anni molte morti sul lavoro - scriveva qualche tempo fa Angelo Ferracuti commemorando quella tragedia - La morte non è mai accettabile, ma morire per mille euro al mese facendo lavori di merda lo è ancora meno. (…) Ho visto centinaia di volte nella mia vita entrando dal giornalaio la locandina con gli strilloni impietosi: operaio fulminato dai fili dell’alta tensione, lavoratore barbaramente schiacciato da una pressa, manovale fatalmente cade dall’impalcatura. Fatalmente, pensa un po’. (…) Non voglio raccontarle più, ogni volta che torno da queste ricognizioni e debbo scrivere sento l’impotenza del testimone di seconda mano, di chi cerca di ricostruire una storia che è sempre la stessa, e quelle dolorose degli altri mi entrano nel corpo e non se ne vanno più. Mi tormentano, tornano come fantasmi a farmi visita nella vita onirica. Sono storie di una Spoon river italiana dove il bisogno di fare e guadagnarti i pochi soldi per campare può spingerti a volte nelle mani di un aguzzino, un caporale senza scrupoli che ti accompagna la mattina al lavoro e fa la cresta sul tuo misero salario, o di un padrone spietato che se ne frega altamente delle regole di civiltà in un paese tra i più industrializzati e ricchi dell’occidente come il nostro; e in nome del profitto, perché di questo si tratta, deregolamenterebbe persino il rispetto della vita”.
Solo nel mese di gennaio 2024 sono accaduti complessivamente 45 infortuni sul lavoro: sono stati 33 gli infortuni mortali in occasione di lavoro e 12 quelli in itinere. Rispetto allo stesso mese del 2023, il dato è in leggera crescita con un numero di decessi superiore di 2 unità (+4,7%).
I morti sul lavoro sono stati oltre 1000 nel 2023, quasi tre al giorno. Una strage. Un’infinita sequela di omicidi che ha un mandante: il disprezzo delle leggi, la corsa al profitto, lo sfruttamento del bisogno, la paura di perdere il proprio lavoro - quando si è così “fortunati” da trovarne uno -, il silenzio.
“Forse non sarebbe accaduto se quei giovani fossero stati aiutati a dire di no”, affermava l’arcivescovo di Ravenna, Ersilio Tonini, al convegno nazionale indetto da Cgil, Cisl, Uil sui “problemi della condizione di lavoro e della sicurezza”, tenutosi a Bologna il 10 aprile 1987. Forse non sarebbe accaduto.
“Da Ravenna - tornava a dire nella sua omelia del 16 marzo il monsignore - dalla stiva di quella nave si leva una denuncia; l’umanità sta distruggendo senza saperlo i suoi tesori più pregiati, il rispetto mutuo, la pietà, la solidarietà, in una parola; la capacità di amare… Bisogna pur dire che si sta perdendo il confine fra il bene e il male: il guadagno, il successo, la riuscita, la propria gratificazione prendono il posto di quella attenzione all’onestà che gli stessi atei della nostra Romagna hanno conservato come tesoro prezioso da trasmettere ai propri figli.”
“Le chiamano ‘morti bianche’ - scriveva Marco Bazzoni, operaio metalmeccanico di Firenze e rappresentante dei lavoratori per la sicurezza -, come se avvenissero senza sangue. Le chiamano ‘morti bianche’, perché l’aggettivo bianco allude all’assenza di una mano responsabile dell’accaduto, invece la mano responsabile c’è sempre. Le chiamano ‘morti bianche’, come fossero dovute alla casualità, alla fatalità, alla sfortuna. Le chiamano ‘morti bianche’, ma il dolore che fa loro da contorno potrebbe reclamare ben altra sfumatura cromatica. Le chiamano ‘morti bianche’ per farle sembrare candide, immacolate, innocenti. Le chiamano ‘morti bianche’, tanto non meritano che due righe sui quotidiani, sì e no una citazione nei TG. Le chiamano ‘morti bianche’, per evitare che si parli di omicidi sul lavoro. Le chiamano ‘morti bianche’, bianche come il silenzio, come l’indifferenza che si portano dietro. Le chiamano ‘morti bianche’, ma non sono incidenti, dipendono dall’avidità di chi si rifiuta di rispettare le norme sulla sicurezza sul lavoro. Le chiamano ‘morti bianche’, un modo di dire beffardo, per delle morti che più sporche di così non possono essere.
Le chiamano ‘morti bianche’, ma sono il risultato dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, dove la vita non ha valore rispetto al profitto. Le chiamano ‘morti bianche’, ma sono un’emergenza nazionale, anche se c’è chi dice che sono in calo. Le chiamano ‘morti bianche’, un eufemismo che andrebbe abolito, perché è un insulto ai familiari e alle vittime del lavoro. Le chiamano ‘morti bianche’, ma quanto tempo passerà ancora perché vengano chiamate con il loro vero nome?”.
Le chiamano morti bianche, ma non lo sono mai. Sono morti rosse, come il sangue versato. Morti nere, come la coscienza di chi ha la responsabilità di evitare che queste disgrazie accadano. Morti nere. Come nero, troppo spesso, è il lavoro. Morti nere. Come la nostra rabbia. Come la nostra - di tutti! - vergogna.