La Giornata internazionale della donna si celebra da 115 anni. I ricordi di Camilla Ravera, Nadia Gallico Spano e Marisa Rodano
L’origine della Giornata internazionale della donna si perde tra molte leggende. La più ricorrente è senza dubbio quella che fa risalire la ricorrenza alla commemorazione di oltre cento operaie morte nel rogo di un edificio newyorchese l’8 marzo 1908. Non esiste, però, alcuna traccia di questo avvenimento (un incendio simile avvenne realmente a New York, ma tre anni dopo la sua collocazione leggendaria e non l’8 marzo).
In realtà la prima - e ufficiale - giornata della donna viene celebrata nel febbraio 1909. È il partito socialista americano a proporre, tra il 1908 e il 1909, di istituire una giornata specifica per le lotte delle donne (nell’estate del 1910 la questione viene portata all’attenzione del VIII Congresso dell’Internazionale socialista, organizzato a Copenaghen).
Fino allo scoppio della Prima guerra mondiale la giornata della donna si tiene in vari Paesi europei, oltre agli Stati Uniti, per volontà del movimento operaio e socialista che la festeggerà in date diverse, tutte dedicate ai diritti delle donne e al suffragio femminile.
Dall’8 all’11 marzo 1917 (23-26 febbraio secondo il calendario giuliano), la Russia è attraversata da una serie di tumulti e manifestazioni che avrebbero finito per abbattere il secolare dominio dei Romanov. Le prime a scendere in piazza per le strade di Pietrogrado (San Pietroburgo) l’8 marzo 1917 sono le donne. La data sarà quindi unificata all’8 marzo - in ricordo delle donne russe - nel giugno del 1921 durante i lavori della Seconda conferenza delle donne comuniste a Mosca.
La prima giornata della donna in Italia sarà celebrata per iniziativa del neonato Pci. “Dopo il Congresso di Livorno ci eravamo ritrovate tutte nel nuovo partito e avevamo convocato la prima assemblea delle donne comuniste, con fervidi propositi di lavoro (...). Nel marzo del 1921 cercammo di dare molto rilievo alla nostra prima celebrazione della giornata internazionale della donna”: così nei ricordi di Camilla Ravera - scrive Alessandra Gissi - la giornata dell’8 marzo 1921 ottiene, di fatto, un posto di rilievo in un anno carico di eventi memorabili (nel 1922 la celebrazione della Giornata trova spazio sia su Ordine Nuovo che nelle pagine di Compagna, passato sotto la direzione di Camilla Ravera).
La ricorrenza si eclisserà nella clandestinità durante gli anni bui del fascismo, per affermarsi definitivamente dopo la Liberazione.
“L’8 marzo sarà per noi giorno di lotta per salvarci dalla fame, per difendere il pane ai nostri figli, alle nostre famiglie, per difenderci dal freddo e dalla miseria, di lotta per la cacciata dei tedeschi e impegno per un domani di libertà e progresso”, si legge su Noi Donne nel marzo 1945, mentre il programma dell’8 marzo romano nel 1946 prevede la Messa in memoria dei caduti alle Fosse Ardeatine e nella guerra di Liberazione, offerte alle famiglie bisognose, oltre ad alcune conferenze, tra cui quella della scrittrice Sibilla Aleramo al dopolavoro ferroviario.
L’8 marzo 1947 le 21 donne dell’Assemblea costituente celebrano la giornata nell’aula di Montecitorio. “Oggi - dirà Nadia Gallico Spano - in tutte le città e in tutti i villaggi d’Italia si celebra la Giornata della donna. Ed è doveroso che si ricordi questa data, anche qui, nell’Assemblea costituente, nell’Assemblea democratica della Repubblica d’Italia, dove le donne, per la prima volta nella nostra storia, sono direttamente rappresentate. Esse si sono conquistate questo diritto partecipando con tutto il popolo alla grande battaglia della liberazione del nostro Paese, per l’avvenire e la felicità dell’Italia. Vi hanno partecipato con quello slancio, quell’entusiasmo, quello spirito di dedizione e di ardente amor patrio, che spinse le più nobili fra di esse fino ad affrontare con semplice e sublime serenità. anche l’estremo sacrificio”.
Prosegue Nadia Gallico Spano: “Giovani e anziane, madri, spose e ragazze, intellettuali, operaie e contadine, esse sono le pure eroine del nostro Secondo Risorgimento; e il loro nome sarà sempre luminosamente presente nel cuore delle donne d’Italia, che sperano e vogliono un avvenire di pace, di tranquillità, di lavoro e di benessere. Al di sopra della loro fede politica, esse si sono unite nel comune sacrificio, per lo stesso grande amore per il nostro sventurato Paese: Anna Maria Enriquez, Vittoria Nenni, Irma Bandiera, Tina Lorenzini, Rosa Guarnieri, Norma Pratelli Parenti, Lina Vacchi e cento e cento altre, la prima Assemblea libera d’Italia s’inchina, riverente, di fronte a voi”.
Mentre parlavo, ricorderà anni dopo, pensavo “alle antifasciste che durante il ventennio erano ogni 8 marzo presenti con un volantino clandestino che conteneva rivendicazioni femminili (…) alle donne della Resistenza che sfidavano l’occupante tedesco (…) e a quelle che in tutte le piazze d’Italia in quel momento esigevano una nuova collocazione della donna per la ricostruzione materiale e morale del Paese; e a quelle che sarebbero venute dopo, alle giovani, alle quali dovevamo spianare la strada”.
In Italia si torna quindi a celebrare la giornata della donna, ma non sempre, purtroppo, in maniera pacifica. Negli anni di Scelba la mimosa - considerata un simbolo sovversivo - veniva addirittura sequestrata. Venivano sequestrati i mazzetti, le donne che li regalavano venivano fermate e portate in questura, multate per questua non autorizzata o occupazione non autorizzata di suolo pubblico.
Compiuta la scelta del fiore simbolo dell’8 marzo - raccontava qualche anno fa Marisa Rodano - l’Udi “si adoperò per distribuire la mimosa in tutte le possibili sedi. Cominciammo a invitare gli alunni a offrire un mazzo di mimosa alle proprie insegnanti, i negozi a decorare con la mimosa le vetrine, le militanti dell’associazione a distribuire per strada mazzetti di mimosa. Nel 1952, addirittura, convincemmo Giuseppe Di Vittorio (eletto consigliere comunale di Roma) ad andare personalmente in giro per gli uffici comunali a offrire la mimosa alle dipendenti, persuase che neppure le più accanite democristiane avrebbero rifiutato un omaggio che veniva dal segretario generale della Cgil, noto e stimato anche per le sue battaglie in favore dei lavoratori del pubblico impiego. La scelta infatti ebbe successo”.
“Ma non sempre distribuire la mimosa fu pacifico. “Ricordo - continua Marisa Rodano - che quando distribuivamo la mimosa per strada, negli anni di Scelba, la mimosa veniva considerata un simbolo sovversivo, un simbolo di sinistra, un simbolo dell’opposizione; ci venivano sequestrati i mazzetti, le nostre attiviste venivano fermate e portate in questura, multate per ‘questua non autorizzata’, anche se noi offrivamo la mimosa gratuitamente. Poi, col passare degli anni, col mutare della situazione politica e soprattutto con i governi di centrosinistra (il Partito socialista aveva sempre celebrato l’8 marzo), la Giornata internazionale della donna cominciò a essere riconosciuta, venne celebrata in Parlamento, nei Comuni, nelle Province, nelle Regioni”.
Il clima politico migliora effettivamente nel decennio successivo che traghetterà il nostro Paese verso le grandi conquiste civili degli anni Settanta, anni nei quali, in Italia, apparve un fenomeno nuovo: il movimento femminista.
L’8 marzo 1972 è ricordato per la manifestazione che si tenne a Roma in piazza Campo de’ Fiori (da molti considerata la prima manifestazione femminista italiana). In piazza c’è anche l’attrice americana Jane Fonda. Si parla si aborto, divorzio, omosessualità. La polizia manganella e disperde le manifestanti. Molte vengono ferite, alcune finiscono all’ospedale. Tra loro la cinquantenne Alma Sabatini (in un filmato si vede e si sente distintamente un commissario rivolgersi alle partecipanti con un: “Non vi vergognate?”).
Cinque anni più tardi, il 16 dicembre 1977, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite, con una propria Risoluzione (la 32/142) inviterà gli Stati membri a dichiarare un giorno all’anno “Giornata delle Nazioni Unite per i diritti delle donne e per la pace internazionale”. La scelta cadrà sull’8 marzo, dichiarata giornata internazionale - non festa! - della donna.
Una giornata di riflessione - ci auguriamo - sulle conquiste politiche, sociali, economiche del genere femminile, sulla tanta strada percorsa ma anche su quella che rimane da fare. Perché le donne per i loro diritti lottano tutto l’anno, non solo l’otto marzo.
“Siamo le donne che hanno lottato per il nuovo diritto di famiglia, per il divorzio e la legge 194. Siamo le donne che hanno definito lo stupro reato contro la persona e non contro la morale, lottando per cancellare le norme ereditate dal codice fascista Rocco insieme al delitto d’onore, al matrimonio riparatore, allo ius corrigendi del marito, titolare di ogni potere su moglie e figli. Siamo le donne che da sempre si battono contro la violenza maschile fuori e dentro la famiglia. Siamo le donne dei Centri antiviolenza femministi. Siamo le donne che hanno lottato per il diritto al lavoro, per il valore e il rispetto del lavoro, per la centralità e il valore sociale della maternità, per i congedi di maternità e paternità, per un welfare solidale e non basato su nonne e nonni. Siamo le donne che si prendono cura delle persone, delle comunità, dei territori. Siamo coloro che tengono davvero al centro il benessere e la serenità di bambine e bambini perché è grazie a noi che bambini e bambine sono diventati soggetti di diritto. Siamo le famiglie in tutte le possibili declinazioni. Siamo le donne e gli uomini giovani, che vorrebbero lavorare e non emigrare, che rivendicano il diritto di poter decidere se, dove, come e quando costruirsi una famiglia. Siamo le donne e gli uomini che cercano di dar vita giorno per giorno ad una società accogliente, inclusiva, aperta e giusta”. Anche l’8 marzo.
Un 8 marzo tra Europa e Italia per smontare la retorica di Meloni e costruire un Paese fondato sulla cultura delle differenze. Parla Lara Ghiglione, Cgil
Lo dicono i numeri, la cultura italiana è ancora inquinata da stereotipi e discriminazioni. La maternità è auspicata a parole ma nulla si fa per consentire alle donne di scegliere davvero cosa è meglio per sé stesse, nemmeno se avere figli e quanti visto che la maternità è ancora un ostacolo all’occupazione e al lavoro dignitoso. Un 8 marzo di riflessione, rivendicazione e lotta perché quello del prossimo anno sia migliore. Ne parliamo con Lara Ghiglione, segretaria nazionale della Cgil.
Partiamo dalla Francia, andiamo a Parigi. È stato annunciato, lo ha fatto il presidente della Repubblica francese Macron che verrà inserita in Costituzione l'autodeterminazione delle donne sul proprio corpo
È una buona notizia per le donne francesi, speriamo che per imitazione possa diventarlo anche per quelle italiane. Purtroppo in Italia siamo assai lontane da questo obiettivo e ci allontaniamo sempre più. Aumenta il fenomeno dell’obiezione di coscienza e nei singoli territori accedere all’Interruzione volontaria di gravidanza è sempre più difficile. E dall’insediamento del governo Meloni le cose sono ulteriormente peggiorate e riscontriamo proprio un'emergenza. Ad avvio legislatura il centro destra ha presentato delle proposte di legge per riconoscere i diritti civili all'embrione che, per fortuna al momento, non sono state esaminate.
Ma certo non stanno fermi, hanno avviato in diversi territori una raccolta di firme per una proposta di legge che, tra le altre cose, imporrebbe alle donne che decidono di interrompere una gravidanza di ascoltare il battito cardiaco del feto come è già stato fatto in altri Paesi. Questo dimostra anche che le destre a livello internazionale stanno attaccando proprio l'autonomia, l'autodeterminazione, la libera scelta delle donne. Siamo preoccupate, è evidente che esiste una regia dietro questi movimenti. Oggi 8 marzo e anche nei prossimi giorni faremo rumore e il nostro rumore coprirà la retorica di chi si professa dalla parte delle donne ma poi, nei fatti, agisce nel modo contrario, rendendole sempre più
Leggi tutto: 8 Marzo. La consapevolezza è la forza delle donne
Dopo tanti ritardi (certo dovuti anche all'emergenza alluvione del maggio scorso, ma non solo, visto che l'avvio era avvenuto nel maggio del 2021) si è rimesso in moto il precorso per l'elaborazione del Piano Urbanistico Generale dell'URF.
Sono stati convocati diversi incontri “di partecipazione” e i massimi esponenti, Presidente e Vice Presidente dell'URF hanno diffuso il comunicato: “Al via il percorso di confronto per la definizione delle linee strategiche d’indirizzo del Piano Urbanistico Generale”.
Come viene affermato l'obiettivo è quello di arrivare all'assunzione, da parte della giunta dell'URF, del documento di linee di indirizzo strategiche... per ...consegnare un indirizzo condiviso alle prossime Amministrazioni dei Comuni che a giugno andranno al voto.
Quindi si andrà in fretta, il documento verrà elaborato nelle prossime settimane. Questa accelerazione, dopo tanto tempo non utilizzato, naturalmente non aiuterà a mettere in atto una vera partecipazione di cittadini, associazioni, tecnici, comitati dei cittadini alluvionati... e non semplicemente occasioni formali, come si è visto in diverse altre occasioni.
Naturalmente, come associazione parteciperemo a tutte le occasioni di confronto, a partire dai due incontri convocati per il 14 e il 18 marzo e invitiamo tutte le realtà organizzate e i singoli cittadini a informarsi, partecipare, portare il loro contributo a tematiche complesse ma determinanti per il futuro della qualità del territorio.
Valuteremo con attenzione le proposte che saranno avanzate, anche per capire meglio come si possono tradurre in pratica alcune affermazioni contenute nel comunicato (seppur in un linguaggio un po' criptico) ad esempio, cosa significa: … la mancanza di un nuovo quadro normativo di riferimento contro il rischio idraulico comporta oggi, a livello di scala urbanistica, gravi criticità nella valutazione delle nuove previsioni di espansione residenziale nelle aree alluvionate, come
l'area di via Firenze a Faenza e quella di via Biancanigo a Castel Bolognese?
Vorremmo sperare che, finalmente, le Amministrazioni non si trincerino più dietro l'alibi dei “diritti acquisiti” dalle proprietà e decidano di bloccare quelle nuove urbanizzazioni. Quanto meno in attesa della ridefinizione degli strumenti di sicurezza territoriale che la Regione, l'Autorità di Bacino stanno elaborando e che dovranno essere un riferimento per tutti i Piani da approvare, riverificando quelli già approvati da altri comuni.
Noi, da tempo abbiamo avanzato l'ipotesi di una moratoria su queste e su altre aree a rischio, questa possibilità riterremmo utile che fosse praticata dall'Amministrazione dell'URF, con una esplicita richiesta alla Regione.
In ogni caso, a sostegno di questa richiesta, l'impegno concreto dell'Amministrazione dovrebbe essere quello di non approvare questi Accordi Operativi, ed eventualmente altri in itinere, entro la data del 3 maggio (dove scadrà l'ultima proroga della Regione).
L'impegno concreto per la riduzione del consumo di suolo, spesso dichiarato e non praticato, deve escludere nuove urbanizzazioni, e invece puntar sulla rigenerazione della patrimonio costruito.
Circolo Legambiente Lamone Faenza
CONVEGNO SLC CGIL E ARTICOLO 21. Tanti protagonisti dell'informazione esprimono le loro paure per i provvedimenti del governo. «Un cantiere aperto a tutti per contrastare la deriva democratica in atto da mesi»
Il segretario generale della Cgil Maurizio Landini al convegno “No signal. Al lavoro per una nuova società dell’informazione. Libertà, democrazia, beni comuni”
Il mondo della comunicazione riunito dalla Cgil per lanciare un cantiere aperto a tutti per contrastare «l’emergenza democratica in atto». Il convegno organizzato dalla Slc Cgil – la categoria dei lavoratori della comunicazione – e da Articolo 21 ieri mattina ai Frentani a Roma ha visto la partecipazione di tantissime personalità del mondo della televisione e della carta stampata.
Vincenzo Vita, di Articolo21 che ha svolto il ruolo di moderatore della mattinata dal titolo “No signal. Al lavoro per una nuova società dell’informazione. Libertà, democrazia, beni comuni”, ha dettato la linea: «Far crescere forte la consapevolezza che l’informazione non è solamente un tema di convegni e seminari, ma è anche un tema di lotta e conflitto» perché «non siamo solo di fronte a un attacco alla libertà di stampa, ma a un disegno preciso che punta a produrre una vera e propria svolta autoritaria».
Il presidente della Federazione Nazionale della Stampa (Fnsi) Vittorio Di Trapani ha sostenuto che tutti i lavoratori dell’informazione rischiano in Italia di divenire «sottoproletari», ovvero precari e poveri, perché questo indebolimento continuo e progressivo dello status professionale e della capacità reddituale è funzionale all’interesse del sistema a reprimere il dissenso.
Il padrone di casa Riccardo Saccone, segretario nazionale della Slc Cgil ha denunciato il «digital divide» che affligge il nostro paese dove si sta «procedendo alla diffusione della rete ultraveloce in maniera difforme territorialmente, creando così nuove diseguaglianze e nuovi divari. La digitalizzazione è questione che riguarda l’economia, certo, ma è anche e forse soprattutto una questione di cittadinanza e di democrazia. Si è scelto di abbondare la strada della costruzione del “campione nazionale e in questi giorni si sta compiendo l’ennesimo scempio che sta caratterizzando il lento quanto inesorabile declino industriale italiano: la separazione della rete di Tim dai servizi condannerà definitivamente il Paese alla irrilevanza tecnologica».
Dopo gli interventi di tanti esponenti del mondo della comunicazione, compresa la nostra vicedirettrice Micaela Bongi e Sigfrido Ranucci, Silvia Truzzi e Marco Tarquinio, è toccato a Maurizio Landini tirare le fila del dibattito. «Non siamo solo di fronte a un attacco a libertà di stampa ma a un disegno preciso che punta a una vera e propria svolta autoritaria nel paese e, in modo molto esplicito, a stravolgere la Costituzione», ha attaccato il segretario generale della Cgil. «Il convegno di oggi è molto importante per un percorso da avviare insieme. Se questa operazione dovesse funzionare, sarebbe una svolta autoritaria con il suggello democratico di chi è andato a votare al referendum – sottolinea Landini – a rischio c’è la libertà di tutti noi cittadini, non solo di stampa, ma anche per esempio, di avere un lavoro non precario». «Abbiamo la necessità di definire un programma di lavoro” per difendere la democrazia e ricostruire fiducia nei cittadini – dichiara- e qui il problema non è cosa fa la destra o se ci stanno i fascisti ma cosa fanno gli antifascisti. Credo che gli antifascisti siano la maggioranza ma una maggioranza che ha bisogno di organizzarsi, mobilizzarsi ed esserci».
In quest’ottica arriva un annuncio importante: «Vogliamo rilanciare l’iniziativa di “La via maestra” e pensare alla preparazione di una grande manifestazione nazionale da fare a Napoli l’11 maggio per affermare i valori della Costituzione e della realizzazione dei principi della Costituzione». La “Via maestra” vuole essere «pronta a fare la campagna referendaria sul premierato, se ci sarà, e tutte le campagne referendarie che ci potranno essere dall’autonomia differenziata alle battaglie che come Cgil abbiamo deciso di fare per cancellare le leggi balorde che in questi anni hanno favorito la crescita della precarietà», conclude Landini
AudioCoop segnala Spotify al ministero della Cultura. Il presidente Giordano Sangiorgi: “Così si cancella un intero patrimonio musicale”
AudioCoop è un’associazione che si rivolge a discografici, editori, produttori, artisti, festival e videomaker italiani indipendenti, ovvero dediti all’autoproduzione, nata nel 2000 all’interno del Mei di Faenza (il Meeting delle etichette indipendenti) e che rappresenta, oggi, circa il 5% del mercato discografico italiano. Obiettivo di AudioCoop è fare conoscere le diverse realtà indipendenti italiane alle istituzioni e agli organismi che operano nel settore culturale e musicale. Nei giorni scorsi, l’associazione ha segnalato Spotify al Ministero della Cultura.
Giordano Sangiorgi, presidente AudioCoop, come mai questa iniziativa?
L’antefatto è che nei giorni del ponte dell'8 dicembre 2023 tantissime piccole realtà musicali in Europa e in Italia hanno ricevuto la mail di un aggregatore digitale che rappresenta la maggioranza, quasi un monopolio a livello europeo. Stiamo parlando di Believe, una realtà nata in Francia nel 2008 che aggrega tantissime piccole realtà musicali, ma anche i big delle major. Nella mail si segnalava che, nel caso di scoperta di brani fake, ovvero truccati coi bot o con acquisizione di finti streaming, si sarebbe proceduto alla cancellazione del brano. Su questo noi siamo totalmente d'accordo, così come sulla cancellazione dei rumors, e cioè quei brani con registrazione di rumori della strada, che vengono messi online solo per incassare. La cosa grave secondo noi è che si proceda a cancellare l’intero catalogo dell'artista o dell'etichetta. Parliamo magari di artisti con cinquanta, cento brani caricati in quindici anni, o etichette che ne hanno più di duemila. Questa posizione presa da Believe in maniera del tutto unilaterale è per noi molto grave, ma lo possono fare perché non ci sono norme a tutela dei consumatori, né degli artisti che si affidano a questi aggregatori digitali.
Contemporaneamente c’è un’altra presa di posizione che vi ha spiazzati: l’annuncio di Spotify di non voler più pagare le royalties sotto i mille stream.
Diciamo che questa azione congiunta, in tempi brevissimi, ci ha allarmati. Abbiamo immediatamente segnalato queste che ci paiono pratiche eticamente scorrette e totalmente illegittime. Non pagare sotto i mille stream è come dire a un cameriere che non lo paghi se non porta almeno mille caffè al giorno. Una cosa veramente grottesca, che abbiamo segnalato al Ministero della Cultura e al Ministero delle Imprese e del Made in Italy. Abbiamo incontrato la sottosegretaria alla Cultura Lucia Borgonzoni e chiesto un intervento immediato a tutela di tutte quelle piccole realtà indipendenti che sarebbero state colpite nell’immediato da questi provvedimenti. Non pagare sotto i mille stream significa risparmiare tre euro per circa 150 milioni di brani, ovvero ben 450 milioni. Il rischio non è solo la cancellazione immediata delle piccole realtà discografiche, ma anche di un interno e prezioso patrimonio musicale, che negli ultimi quindici anni ha vissuto prevalentemente sulle piattaforme digitali. Chiediamo al governo di tutelare la musica schiacciata dalle multinazionali, e di investire per creare delle piattaforme digitali europee nazionali alternative a questi colossi multinazionali.
La sensazione è che, come succede sempre nella storia, quando una realtà produttiva artistica si crea dal basso, a un certo punto arriva sempre la longa manus del mainstream a invaderla. Quello che nasce come un territorio di democratizzazione dei processi culturali, viene alla fine comunque colonizzato dai colossi.
Chi detiene il potere economico aspetta solo il momento che tutti i pionieri abbiano speso le loro risorse, per raggiungere quella massa critica di utenti per “comprarseli”. È la stessa cosa che è successa con le radio libere, poi fagocitate dalla concentrazione dei grandi network nazionali. Questo ha significato non solo annientare le piccole radio locali di comunità, ma anche diffondere la stessa musica ovunque. Quello che sta accadendo col digitale è ancora peggio, perché non esiste più il mercato fisico della distribuzione della musica. Prima c’erano i cd, le musicassette, i dischi. Negli anni Novanta gruppi come i Modena City Ramblers, i Mao Mao e tanti altri bastava che distribuissero una cassetta, magari autoprodotta, e in un anno erano capaci di vendere 5, 10 mila copie ai concerti. Allora c'era una massa critica nel mercato dei giovani consumatori musicali alternativa al circuito Sanremo. Oggi questo non esiste più, nel mercato digitale non c'è una piattaforma alternativa, perché non ci sono le risorse per farla vivere. E poi ci troviamo di fronte a un cambiamento dei gusti, degli stili, del modello giovanile di consumo, che sta mettendo in crisi questa realtà. Ci troviamo di fronte a due tipi di mercati musicali totalmente antitetici e lontani: da un lato quello delle major, che offrono intrattenimento da villaggio turistico in serie. Vai a un concerto e trovi un pubblico che canta le canzoni in coro con l’iPhone di fronte a un singolo, che spesso non è neanche un vero musicista. Lo stesso fenomeno Måneskin è rimasto un unicum, perché portare in giro le band costa. Dall’altro lato, ci sono gli artisti che innovano, sperimentano, che hanno contenuti sociali, civili. Musicisti che continuano a suonare dal vivo, ad andare in studio, con i costi che questo comporta, ma non hanno più un mercato a cui rivolgersi. Ed è qui che devono intervenire il governo e l'Unione Europea.
Hai citato Sanremo, dove ormai nella presentazione degli artisti in gara c’è sempre il riferimento a quanti streaming ha fatto, come nuova unità di misura del successo. Cosa ne pensi?
Penso che faccia parte di una logica mainstream di cui poi gli artisti pagano le conseguenze. Penso a Sangiovanni, penso a Ghemon. Se vivi solo di numeri, quando i numeri si abbassano tu vieni messo da parte, passi dalle stelle alle stalle in pochissimo tempo. Il problema è che a volte i numeri sono farlocchi, perché è noto che anche molti big, per esempio nel mondo della trap, gonfiano i numeri. E quindi sei fuori se imposti dei ragionamenti con canzoni che vanno al di là di slogan, testi banali, basi banali, e un linguaggio volgare che puntano a un consumo usa e getta. La sola misurazione attraverso la quantità è un danno, ma lo era anche cinquant’anni fa, quando Luigi Tenco scrisse “mi suicido” (al di là chiaramente delle problematiche personali), mentre andava in finale Io, tu e le rose. Quell’epoca per alcuni versi era simile a quella contemporanea. Negli anni Sessanta ci fu il boom dei singoli in un momento in cui si era abituati ad ascolti di quaranta, cinquanta minuti. Il disco era come un libro, era un racconto.
Se la musica non è più una risposta generazionale, ma solo una risposta di mercato, il messaggio rivoluzionario e culturale si depotenzia e tu artista emergente diventi quello che serve alle major per fare i soldi.
Diciamo che questo è un fenomeno anche qui che c'è sempre stato, persino con il rock. Chi detiene il potere economico cavalca il fenomeno di tendenza. Il rock and roll era un movimento di ribellione giovanile addirittura censurato dalla tv americana, Elvis Presley non poteva muovere il bacino. Ma poi diventò una gigantesca macchina da soldi per l’industria discografica, e non solo. Però accade che quando il fenomeno alternativo diventa un fenomeno di massa, si trasforma in prodotto e perde di autenticità. Il mercato allora crea artisti da allevamento come polli in batteria, che non hanno fatto alcuna gavetta, nascono e muoiono nel giro di pochi anni. Non hanno quel curriculum che fa capire se sei uno che ha iniziato studiando musica, che ha fatto i palchi dei contest e quelli dei pub sconosciuti, che poi è arrivato ai festival più grandi. La gavetta aiuta a crescere, a sviluppare una personalità. Oggi, invece, ci troviamo di fronte a una trap modaiola, fatta da giovani dell’alta borghesia che fingono di essere dei gangster rap, aggrappandosi a modelli che sono anni luce lontani da loro. Oppure, completamente all’opposto, artisti in testa alle classifiche che stanno agli arresti domiciliari, e a cui gli adolescenti si ispirano. Ma è tutta una questione di marketing, se l’inno cubano facesse vendere, le major si butterebbero su quello. Poi ci sono, invece, quelli come Ghali che, cantando L’italiano di Toto Cutugno a Sanremo, ha fatto un’operazione di grande caratura politica.
C’è un problema etico, certamente, però bisogna anche dire che tra i giovani musicisti non esistono solo i trapper. Ci sono artisti molto diversi, che però le case discografiche molto spesso non hanno interesse a sostenere e promuovere.
Non si è giovanilisti appoggiando tutto ciò che ci viene narrato sui giovani. Lo si è appoggiando i giovani. La narrazione dei giovani tutti trapper è totalmente falsa. Io frequento tantissimi festival e contest legati alla musica live dal basso, e incontro tanti gruppi rock, cantautrici brave, gruppi folk. C’è un incredibile ritorno al prog. Dietro la trap ci sono anche motivazioni economiche: fare una canzone nella propria cameretta costa pochissimo e quindi ti permette nell'economia del digitale di guadagnare molto di più. Se invece devi impegnare un quintetto rock di giovani che per suonare si devono incontrare, andare in sala prove, poi in studio, spostarsi per i live, i costi si quintuplicano. Non dovrebbe essere più libera solo la musica, ma anche i media che la raccontano, soprattutto i più grandi. E purtroppo, non è così.