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Un'opera di Banksy - Foto Ansa

Lunedì rosso

La rubrica in controtempo

Ogni lunedì selezioniamo 10 articoli che dovresti assolutamente leggere.

Immigrazione, caro affitti, settimana di 4 giorni… qualcosa si muove a sinistra. Mentre il regime iraniano stringe sempre di più la morsa legale contro le donne e il team del ministro Schillaci incassa fondi pubblici per alcune ricerche “errate”. (Nella foto un’opera di Banksy)

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La settimana lavorativa di quattro giorni fa bene: alla salute dei lavoratori, all’ambiente e alla produttività. In Germania il sindacato dei metalmeccanici la chiede ufficialmente, in mezzo mondo si sperimenta già. Ma in Italia, vedi Schlein, guai a parlarne

GERMANIA. Per la Ig Metall la settimana corta va adottata ufficialmente. E a Berlino già si prova. La confindustria fa resistenza. Ma il tema è al centro del dibattito e accende la tv

Lavoro, 4 giorni bastano. In Germania ci si prova 

Da ipotesi teorica a proposta concreta, con la sperimentazione pratica nelle imprese partita già 3 giorni fa. La Germania accende la settimana lavorativa di 4 giorni non più solamente come dibattito politico, dopo che Ig Metall, il maggiore sindacato europeo, ha proposto di adottarla ufficialmente per «incentivare i lavoratori rendendoli più produttivi e attrarre nel mondo del lavoro persone non più disposte a lavorare ai ritmi attuali». Succede nel primo Paese europeo per abitanti ed economia, in piena recessione, con il made in Germany che chiede 400 mila immigrati all’anno per riempire le catene di montaggio e le ore lavorate ampiamente sotto la media Ocse: i tedeschi faticano in media 1.349 ore all’anno contro le 1.872 dei greci.

EPPURE NON È un paradosso, come evidenzia l’emittente statale Deutsche Welle che ospita la discussione di interesse pubblico dando ampio risalto ai «risultati positivi» dei progetti pilota organizzati dall’Ong neozelandese 4 Day Week Global con la collaborazione di oltre 500 aziende in tutto il mondo, tra cui spicca proprio la Germania. Giovedì scorso a Berlino è stato lanciato il programma per la settimana lavorativa di 4 giorni su base volontaria che invita le imprese a candidarsi per il periodo di prova di sei mesi. Il piano è gestito dall’agenzia di consulenza tedesca Intreprenör in partnership con 4Dwg.

Sempre sulla tv pubblica emerge il parallelo sondaggio fra i lavoratori della Fondazione Hans-Böckler: restituisce il 73% a favore della settimana corta a retribuzione invariata mentre l’8% accetterebbe anche meno soldi in busta paga. Solo il 17% si dice contrario a priori a qualsiasi calo delle ore di lavoro.

Ig Metall, a scanso di equivoci, spegne gli appetiti imprenditoriali su eventuali trattative al ribasso chiedendo l’aumento di stipendio dell’8,5% insieme ai 4 giorni lavorativi. Piattaforma già pronta in Nordreno-Vestfalia e nel Land di Brema dove il prossimo novembre si aprirà la vertenza che coinvolge tutti i 68 mila metalmeccanici del Nord-Ovest della Germania. «Intanto vogliamo abbassare subito l’orario di lavoro a 32 ore settimanali con la compensazione salariale completa. Così sarà già possibile applicare la settimana di 4 giorni in molte aree» è il ragionamento del sindacato.

LA REDAZIONE CONSIGLIA:

Una sperimentazione che funziona. Dalla Gran Bretagna al Giappone

BOLLATA COME pericolosa «utopia» dalla confindustria locale guidata da Cornelius Neumann-Redlin, convinto al contrario che «la riduzione delle ore lavorative non è la risposta adeguata alle sfide del nostro tempo. I baby-boomer stanno andando in pensione, quindi in futuro dovremo lavorare di più e più a lungo per mantenere intatta l’attuale prosperità».

Il dibattito sulla Deutsche Welle si concentra anche sulle statistiche Ocse tali da far apparire paradossale la proposta del sindacato. La domanda ironica è: «Noi tedeschi siamo pigri?». A rispondere è Enzo Weber, giovane economista dell’Istituto per la ricerca sull’occupazione di Norimberga e professore all’Università di Regensburg. «Il tasso di partecipazione alla forza lavoro delle donne tedesche è significativamente più alto degli altri paesi, però metà delle donne lavorano a tempo parziale abbassando così la media annuale pro capite. I tedeschi non lavorano certo poco. Anche se i vecchi giorni di gloria della Germania come sbuffante potenza produttiva sono tramontati da tempo». Piuttosto il calo di produttività tedesca si deve alla crisi energetica: «Le ore lavorate in totale rimangono stabili ma la produzione si riduce a causa dei maggiori costi del Kilowattora».

I LAVORATORI DUNQUE non c’entrano, sottolineano alla Ig Metall preparandosi al nuovo corso con Christiane Benner, impegnata nella cruciale ristrutturazione dell’industria automobilistica nazionale e decisa ad «avere voce in capitolo anche con Tesla» che possiede la Gigafactory alle porte di Berlino. A fine ottobre Benner diventerà la prima donna a capo del sindacato. Si dovrà confrontare con gli industriali ben più riottosi dei piccoli imprenditori. «La settimana di 4 giorni potrebbe rendere più attraenti le imprese artigiane per i lavoratori qualificati» riassume Jörg Dittrich, presidente della federazione degli artigiani e delle piccole aziende

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FRANCIA. Il messaggio del papa a Marsiglia è tutto politico: «Bisogna prevenire un naufragio di civiltà». Mega messa nello stadio Vélodrome

Gli spalti del Vélodrome Stadium di Marsiglia foto Ap Gli spalti del Vélodrome Stadium di Marsiglia - foto Ap

«La città di Marsiglia è molto antica. Fondata da navigatori greci venuti dall’Asia Minore, il mito la fa risalire alla storia d’amore tra un marinaio emigrato e una principessa nativa». Anche Papa Francesco non resiste alla tentazione di citare la leggenda delle origini di Massalia, nata dall’accoglienza offerta da Gyptis – figlia del re dei Segobrigi Nannus – a Protis, la «guida» della flotta proveniente da Focea. Lo fa in apertura del suo discorso al Palais du Pharo in occasione della giornata conclusiva degli Incontri Mediterranei, le cui precedenti edizioni si sono svolte a Bari e a Firenze. Ma se l’inizio dell’intervento del pontefice – pronunciato davanti a novecento persone e in presenza del vice-presidente della Commissione Europea Schinas (responsabile dei lavori per un nuovo patto sulla migrazione e l’asilo), del presidente della Repubblica francese Macron e del ministro dell’Interno Darmanin – è ricco di riferimenti al cosmopolitismo della città foceana e agli innumerevoli paesaggi del Mediterraneo tracciati da Braudel, a prendere il sopravvento è poi un messaggio manifestamente politico diretto a coloro che «pur stando bene alzano la voce» mentre è degli ultimi che ci si dovrebbe occupare, dei volti e delle storie di ciascuno, non dei numeri.

FACENDO RIFERIMENTO alla porta spalancata sul mare che è Marsiglia, «capitale dell’integrazione dei popoli» Francesco parla dei vari porti mediterranei che vengono invece chiusi al grido di «invasione» ed «emergenza». «Chi rischia la vita in mare non invade, cerca accoglienza, cerca vita» – dice con fermezza Bergoglio -, aggiungendo che il fenomeno migratorio «non è un’urgenza momentanea, sempre buona per far divampare propagande allarmiste ma un processo che va governato con sapiente lungimiranza: con una responsabilità europea».

Pur ammettendo le difficoltà nell’accogliere, il papa ribadisce la necessità di proteggere, promuovere e integrare i migranti per prevenire un «naufragio di civiltà». Un concetto risuonato anche venerdì durante la meditazione condotta dal Santo Padre di fronte alla stele dedicata a coloro che hanno perso la vita in mare nel santuario di Notre-dame de la Garde, dove ad accompagnarlo c’erano, fra gli altri, i rappresentanti delle Ong che effettuano i salvataggi. Nel ricordare un altro simbolo di Marsiglia, il faro dell’omonimo palazzo dove questa settimana si sono riuniti settanta vescovi e centinaia di giovani delle cinque rive del Mediterraneo – Nord-Africa, Vicino Oriente, Mar Nero-Egeo, Balcani ed Europa latina – Francesco si rivolge infine agli studenti, in particolare ai 5mila stranieri dei campus marsigliesi, auspicando che l’Università e la scuola rompano le barriere e siano laboratori di dialogo per un futuro di pace scevro di pregiudizi.

IL MESSAGGIO del pontefice è stato ricevuto con calore ed entusiasmo anche allo stadio Vélodrome, dove si è svolta l’ultima tappa del pellegrinaggio e dove si svolge attualmente il campionato mondiale di rugby.

Bergoglio è arrivato verso le quattro del pomeriggio nel «tempio» della squadra locale di calcio, l’amatissima Olympique Marseille, per celebrare la messa dopo un tragitto lungo l’affollata e festosa Avenue du Prado. D’altro canto sono trascorsi cinque secoli dall’ultima volta che un papa è passato da queste parti, un’occasione storica per cittadini e turisti. Come spiegato dal cardinale Aveline, la scelta dello stadio non è stata casuale, in quanto – come dirà al pontefice lo stesso arcivescovo di Marsiglia alla fine della funzione religiosa – «venendo qui è come si fosse recato a casa di ciascun marsigliese». Ed a officiare il «battesimo» del papa-tifoso sono proprio i supporter dell’Olympique, in particolare il gruppo dei South Winners presieduto da Rachid Zeroual, che lo omaggiano dalla Curva Sud con un’effigie gigante.

NELL’OMELIA di Francesco c’è ancora posto per un appello alle coscienze che contrapponga all’insensibilità nei confronti dello scarto della vita umana un sussulto davanti al prossimo. Nel congedarsi da uno stadio che lo acclama in italiano, il pontefice non dimentica di rivolgere un pensiero a tutti i lavoratori della città, partendo dalla storia di Jacques Loew, il primo prete operaio che prestò servizio al porto di Marsiglia. Nessuno applaude quando il Bergoglio saluta il presidente Macron, la premier Borne e Payan, il giovane sindaco socialista che pure è stato uno dei principali fautori della visita papale. Da domani, sarà soprattutto lui, a dover raccogliere l’impegno per la «cura» del migrante richiesta da Francesco. In questi giorni decine di minori non accompagnati accampati nel centro di Marsiglia reclamano il diritto a un alloggio e all’istruzione. Lampedusa è lontana ma non troppo

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EDITORIALE. Napolitano è stato il primo capo dello Stato a vivere due volte il mandato presidenziale. È stato anche il primo ex comunista al Quirinale e non è improbabile che resti il solo

Il migliorista che faceva i governi, bersaglio delle nostre prime pagine 

Nel corso della sua lunga vita e del suo lunghissimo mandato al Quirinale (solo tra qualche giorno il presidente Mattarella lo supererà in durata), Giorgio Napolitano è finito molte volte sulla nostra copertina. Praticamente sempre, poche le eccezioni, lo abbiamo «sbattuto» in prima pagina per criticarlo. Anche oggi avremmo dovuto dedicargli la prima del giornale. Per la verità, essendo la sua fine annunciata da qualche giorno avevamo anche pensato al titolo con il quale salutarlo. Ma lo teniamo per noi, perché il governo che mette il pizzo sulla libertà dei migranti ci impedisce di voltarci dall’altra parte: per noi la notizia più importante della giornata, nella sua gravità, resta quella. Anche se con Napolitano scompare non solo un protagonista della nostra storia, ma un ex presidente della Repubblica che ha cambiato, incarnandola, l’istituzione più alta.

Napolitano è stato il primo capo dello Stato a vivere due volte il mandato presidenziale. È stato anche il primo ex comunista al Quirinale e non è improbabile che resti il solo. Sul Colle, non ha mai dismesso la sua attitudine politica, facendo pesare il ruolo molto nelle scelte politiche interne e moltissimo in quelle estere. Nemmeno per un giorno è stato il notaio della Repubblica, come si è detto di altri. Ha fatto e non fatto governi. Almeno uno, quello Berlusconi nel 2010, l’ha salvato da morte certa. Il governo che non ha fatto partire è stato quello Bersani: il segretario del Pd dopo le elezioni del 2013 aveva la maggioranza solo in un ramo del parlamento, ma poteva cercarla nell’altro. Napolitano lo bloccò, aprendogli il sentiero dell’inferno dello streaming con i 5 Stelle. Il governo che ha fatto – non il solo ma quello che più di tutti è nato sotto la sua impronta – è naturalmente quello Monti inventato nel 2011. Finì male, tanto per il governo quanto per Monti, destino inevitabile per quella operazione di spericolata ingegneria politica. L’onda «populista» dei 5 Stelle spaventava, ma si finì per farla montare rinviando le elezioni. Nel 2013 i 5 Stelle sfiorarono il 26% anche se Napolitano finse di non accorgersene: non ho visto nessun boom, disse. I grillini erano diventati il primo partito. Ma non fu un caso quell’errore, né solo il frutto delle pressioni europee. C’era all’opera anche quel po’ di sfiducia di fondo nel popolo elettore che veniva talvolta a galla nei gruppi dirigenti comunisti in generale e miglioristi in particolare.

RICHIAMATO a furor di palazzo sul Colle, Napolitano è stato anche il primo presidente della Repubblica a prendere a sberle il parlamento in seduta comune, intimandogli di fare le riforme costituzionali per le quali provò a provvedere lui stesso, nominando una schiera di saggi di fiducia. Il giorno in cui la camere applaudirono chi le stava mortificando, il manifesto titolò «Diktat». E nel giorno storico del secondo mandato scegliemmo «Sono Stato», titolo che ci ha fatto vincere mille bottiglie di spumante grazie a un premio riservato al migliore dell’anno.

22-diktat
22-ilmigliore
22-lammorbidente
22-redimaggio
22-sonostato

Non erano titoli benevoli. Del resto la storia politica eretica del manifesto e quella del numero uno dei comunisti miglioristi – aggettivo che a Napolitano non piaceva, anche se apprezzò la versione inglese «the improvers» che inventò il New York Times quando nel 2011 gli dedicò un lusinghiero ritratto – erano difficilmente conciliabili. E «Il migliore» fu il titolo di prima pagina con il quale salutammo la sua (prima) elezione al Quirinale, nel 2006. Fummo i primi a dargli del monarca persino con qualche giorno in anticipo sull’elezione, con un titolo (ammettiamolo) assai irriverente: «Il re di maggio» (era il 9 maggio 2006). Mentre nel giorno in cui il primo comunista stava per salire al Colle giocammo con i classici: «Adda venì Giorgione», anche questo un colpo basso per un dirigente politico non estraneo alle accuse di stalinismo, non solo per l’Ungheria del ’56 – Napolitano ha dichiarato più volte di essersi pentito di quel «certo zelo conformistico» con cui appoggiò, insieme a tutto il gruppo dirigente comunista, l’invasione sovietica – ma anche per la sua biografia di comunista napoletano, in quanto tale tirato su dall’operaio stalinista Salvatore Cacciapuoti. A Napoli in quegli anni si allevavano comunisti di un certo conio e anche il borghese Napolitano finì a respirare la corrente del Golfo, più Croce che Gramsci, più Amendola che Togliatti.

MALGRADO le dure critiche, da gran signore Napolitano fu sempre attento al nostro giornale. Nel 2011 ci scrisse per contestare gli attacchi che gli avevamo rivolto perché aveva dato il via libera – ma di più, aveva spinto – l’intervento italiano nella guerra alla Libia. Prima, nel 2006, aveva mandato una lettera persino affettuosa a Valentino Parlato (si conoscevano da decenni) per augurare lunga vita al manifesto: «È vero, nel passato tra noi ci sono state dispute politiche e polemiche giornalistiche, ma sempre nel quadro del reciproco rispetto e come espressione di una dialettica viva e di un pluralismo fecondo». Ma si arrabbiò assai il giorno in cui, per criticare la sua linea morbida verso alcune leggi sulla giustizia di Berlusconi, lo battezzammo in prima pagina «L’ammorbidente».

Concludendo dobbiamo citare le volte in cui le nostre prime pagine hanno invece parlato bene di Napolitano. Ci sono state anche quelle, non tante, ne ricordiamo due. Quando nel 2009 il presidente volle «ridare l’onore a Pinelli, vittima due volte». E quando nel 2013 mandò alle camere un coraggioso messaggio sulla condizione delle carceri, chiedendo – invano – l’indulto e l’amnistia. Ricordarlo così, adesso, ci piace

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Cinquemila euro per evitare di finire dentro. Il governo inventa un pizzo di stato per i migranti destinati al rimpatrio. Per loro una trappola crudele, impossibile da evitare e contraria alle leggi europee. Palazzo Chigi è già sul piede di guerra con la Germania: aiuta le ong

ILLEGITTIMA DIFESA. Il decreto attuativo firmato da Piantedosi, Nordio e Giorgetti crea un cortocircuito senza soluzioni. Ma la partita vera è il trattenimento dei richiedenti asilo, introdotto dal dl Cutro. Il governo punta a detenere chi viene da uno degli 11 paesi considerati sicuri

 Il Cpr di Ponte Galeria - Ansa

5mila euro per restare liberi. Lo Stato ricatta chi sbarca

 

La libertà ha un prezzo? Secondo il governo italiano se sei un richiedente asilo appena sbarcato vale 4.938 euro. Soldi con cui è possibile evitare il trattenimento, che altrimenti diventa la condizione in cui svolgere la «procedura accelerata in frontiera». Cioè un iter per la richiesta di protezione internazionale particolarmente rapido che in seguito al dl Cutro, poi convertito in legge, può essere realizzato in condizione di privazione della libertà personale.

ANDIAMO CON ORDINE, perché l’architettura giuridica è estrosa e va spiegata. Ieri è stato pubblicato uno dei decreti attuativi della norma varata dopo il naufragio del 26 febbraio scorso davanti alle coste calabresi. Lo firmano i ministri Matteo Piantedosi (Interno), Carlo Nordio (Giustizia) e Giancarlo Giorgetti (Economia). Prevede che chi sbarca in Italia senza passaporto può evitare il trattenimento attraverso la «garanzia finanziaria» indicata sopra. Ma attenzione: «La garanzia finanziaria è prestata in una unica soluzione mediante fideiussione bancaria o polizza fideiussoria assicurativa ed è individuale e non può essere versata da terzi». In pratica può farla solo la persona appena arrivata. Mettiamo per assurdo che abbia 5mila euro in tasca, come fa a versarli in banca per ottenere la fideiussione non avendo i documenti? Se avesse un passaporto, del resto, non rientrerebbe nella casistica. E allo stesso modo: facciamo finta che abbia un conto-deposito valido nel circuito internazionale con tale somma depositata, come può concludere la procedura senza un documento che

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QUIRINALE. Il presidente, in Sicilia con il collega tedesco Steinmeier, sprona l’Ue alla collaborazione: «No a provvedimenti tampone e approssimativi. Occorre uno sforzo comune e formule nuove». Meloni all’Onu: aiutateci a fermare i trafficanti

Mattarella: «Le regole di Dublino sui migranti sono preistoria» Sergio Mattarella con il collega tedesco Steinmeier in Sicikia - Ansa

«Le regole di Dublino sono preistoria. Voler regolare il fenomeno migratorio facendo riferimento a quegli accordi è come dire “realizziamo la comunicazione in Europa con le carrozze a cavalli”. Era un altro mondo, basarsi su quelle regole sarebbe come fare un salto nel Pleistocene». Sergio Mattarella torna a intervenire sulla questione migranti. Lo fa dalla sua Sicilia, dove è stato in visita due giorni insieme al collega tedesco Frank-Walter Steinmeier.

SUL TEMA ERA GIÀ intervenuto a fine agosto al Meeting di Rimini, invitando ad aprire più vie legali per l’ingresso dei migranti; e poi ancora lunedì scorso, aprendo l’anno scolastico a Forlì, per ricordare come gli 800mila studenti figli di migranti che studiano nelle scuole italiane siano un «potenziale». Ieri il nuovo affondo sulle regole firmate a Dublino nel 2003, che prevedono come responsabile dell’accoglienza dei migranti il paese di primo approdi. Mattarella ne ha parlato in una conferenza stampa a Piazza Armerina, dopo aver visitato con Steinmeier il centro di accoglienza «Don Bosco 2000», dove aveva ascoltato storie di integrazione con esiti positivi.

Serve «una coraggiosa visione del futuro», che superi «provvedimenti tampone, superficiali ed approssimativi», ha spiegato. E certamente le soluzioni devono «essere europee». Il Capo dello Stato, e così il collega tedesco, ha giudicato «interessante» il piano in 10 punti preparato dalla commissione Ue. «Occorre uno sforzo comune, prima che sia impossibile governare il fenomeno migratorio in modo da affrontarlo con nuove formule». «Nessuno ha la soluzione in tasca, nessuno deve dettare indicazioni agli altri – insiste Mattarella – ma, insieme, va cercata velocemente. Nessun paese può pensare di risolvere questo problema da solo».

IL MESSAGGIO DEI DUE presidenti è rivolto anche a Bruxelles. I negoziati sul Patto migrazione e asilo sono impantanati a causa dei veti incrociati delle diverse cancellerie, ma non è più il tempo dei rinvii o della polvere sotto il tappeto, ricordano Mattarella e Steinmeier. «Tutti, a livello europeo, devono comprendere che il problema non si rimuove ignorandolo ma affrontandolo per non lasciare la questione ai crudeli trafficanti di esseri umani». In serata a Roma il presidente ha ricevuto al Quirinale il commissario Ue Paolo Gentiloni.

IL CAPO DELLO STATO mette le mani rispetto a possibili accuse di interventismo sull’agenda di governo: «Né il presidente Steinmeier né io abbiamo competenze di governo. E siamo sempre stati scrupolosamente attenti a non superare questi limiti e questi confini. Il nostro compito è essere riferimento nella comunità nazionale, interpretarne sensibilità e, eventualmente, formulare suggerimenti». E se Roma e Berlino litigano sul meccanismo di solidarietà volontaria, Mattarella resta comunque fiducioso: «Di questo stanno parlando i due ministri degli Interni e sono convinto che troveranno certamente una soluzione collaborativa come è sempre avvenuto e come avviene abitualmente tra Germania e Italia».

NON È DIFFICILE COGLIERE le profonde differenze di impostazione con il discorso pronunciato dalla premier all’assemblea Onu nella notte tra mercoledì e giovedì. Per Meloni la priorità è fermare le partenze, fare dell’Europa una fortezza inespugnabile: per Mattarella invece la solidarietà europea nella gestione degli arrivi. «La scelta è tra Nazione è caos», le parole di Meloni, in un intervento teso a chiamare in causa le Nazioni Unite nell’affrontare il dramma delle migrazioni, per sconfiggere la «mafia dei trafficanti». Una richiesta fatta direttamente al segretario generale Guterres, e poi ribadita all’assemblea.

Per Meloni l’Onu deve «rifiutare le ipocrisie» in tema di immigrazione, e «dichiarare una guerra globale e senza sconti ai trafficanti di esseri umani». Ma anche affrontare «le cause alla base della migrazione» per «garantire il diritto a non dover emigrare»: e dunque bisogna «cooperare» con i paesi africani troppo a lungo «sfruttati», abbandonare l’approccio «predatorio» e puntare su partnership «alla pari». Si questo, assicura, l’Italia «darà il buon esempio»

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