Secondo l’inchiesta di Report in onda stasera anche agenti dei servizi inglesi a Roma in quei giorni
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La presenza in quei giorni a Roma di uomini dei servizi segreti inglesi. Ma non solo: anche la notizia di una telefonata arrivata a Francesco Cossiga prima di quella delle Br che annunciava la morte di Aldo Moro. Report oggi alle 21 su Rai Tre conduce una lunga inchiesta sulla morte del volto simbolo della Democrazia cristiana dialogante con la sinistra e l’Est europeo.
Commenta (0 Commenti)DESTRA . Il nuovo presidente della Commissione algoritmi
Con la conferenza stampa di inizio anno della premier, la classe dirigente della destra meloniana ha perso un pistolero e imbarcato un frate. È il francescano cinquantenne Paolo Benanti, messo in quattro e quattr’otto a capo della cosiddetta «commissione algoritmi» al posto di Giuliano Amato dal sottosegretario Alberto Barachini. La commissione dovrà consigliare il governo sulle norme in materia di tecnologie digitali e informazione. È un doppione di un’altra commissione governativa sullo stesso tema nominata dall’altro sottosegretario Alessio Butti. Per non sbagliarsi, Benanti fa parte anche di quella.
In molti hanno storto il naso: chiedere a un sacerdote di regolare le nuove tecnologie è un oscurantismo da ayatollah. Macché, hanno risposto gli altri (non solo da destra): rispetto all’ottantacinquenne Amato, il religioso è giovane e competente. Benanti è un prete, ma anche uno studioso di «altissimo profilo», «esperto della materia e unico italiano componente del Comitato sull’Intelligenza artificiale delle Nazioni Unite».
In realtà, il frate non è Khomeini ma nemmeno un premio Nobel. Dopo aver lasciato a metà gli studi di ingegneria nell’università pubblica a fine anni ‘90, ha preso i voti e si è laureato e dottorato in teologia morale all’università Gregoriana, con un paio di corsi integrativi alla Georgetown University di Washington (Usa). Su Scopus, il database della ricerca accademica, compaiono solo una ventina di pubblicazioni in cui Benanti figura tra i numerosi autori, quasi tutte intorno al tema delle tecnologie impiegate nella riabilitazione neuromotoria. Si tratta perlopiù di lavori compilativi, cioè revisioni e sintesi di ricerche svolte da altri con scarsa risonanza accademica, a cui il religioso ha contribuito soprattutto sul piano organizzativo. Nulla che farebbe vincere un concorso in un’università di minimo prestigio.
E se ChatGpt fosse un autore del New York Times?
Ma a dispetto dell’«altissimo profilo», la sua attività di ricerca è secondaria rispetto a quella di comunicatore: Benanti è instancabile sui social, realizza podcast, scrive saggi (non vendutissimi), è invitato a conferenze e trasmissioni tv su argomenti che spaziano dalla carne sintetica alla pandemia in cui promuove cautela e non chiusura sulle nuove tecnologie.
Da qualche anno è lui il frontman vaticano designato nella materia. Quando c’è da indicare un nome di fiducia in una commissione in cui si parla – e si fa poco altro – di digitale, oltretevere si raccomanda sempre il suo. Con il governo Gentiloni entra nella Task Force Intelligenza Artificiale dell’Agenzia Italia Digitale del 2017. Nel 2018 Di Maio lo nomina nel gruppo di esperti che aiuta il Mise a elaborare la strategia nazionale sullo stesso tema. Lo scorso ottobre sbarca a Palazzo Chigi sia nella commissione insediata dal sottosegretario Butti che in quella del sottosegretario Barachini. Per lui c’è posto anche nella Commissione di esperti tech voluta dal segretario generale dell’Onu Antonio Guterres.
Dalla sua Benanti ha un atteggiamento critico ma aperto all’intelligenza artificiale, che non pone la Chiesa ai margini del dibattito. «Abbiamo bisogno di un’algor-etica, ovvero di un modo che renda computabili le valutazioni di bene e di male» è il suo vasto programma. È anche la linea ribadita nel messaggio di Capodanno da Francesco, che ha voluto il frate nerd nella Pontificia Accademia della Vita. Soprattutto, è una posizione che non infastidisce i colossi del Big Tech con cui Meloni non cerca alcuno scontro. Spostare l’attenzione sul piano etico, infatti, mette in secondo piano i rapporti di forza economici su cui si fonda il capitalismo delle piattaforme e che reclamerebbero interventi sul piano fiscale, della privacy e del diritto del lavoro, più che su quello della morale.
Ma il progressista Benanti all’università Gregoriana si occupa anche di temi più concreti e caldi degli algoritmi e più cari alla destra: suo è il corso intitolato «Morale sessuale, coniugale e familiare». Dove si parla di tutto o quasi, dall’autoerotismo alla pedofilia, dall’omosessualità ai rapporti prematrimoniali e ovviamente dell’immancabile «ideologia gender». Sul tema tiene anche conferenze parrocchiali assai militanti che si possono ascoltare sul web, e dedicate a «quei fenomeni da baraccone che vediamo al Gay Pride».
Dove Benanti racconta che «l’utilizzo del termine queer è lo stesso che a Roma facciamo di “finocchio”… Quando giocavo al campetto dai salesiani, bastava mettere in dubbio la mascolinità dell’avversario per far scattare una rissa. Ora questi lo prendono come un vanto». «Questi»? Sono quei cattivoni secondo cui «non possiamo avere pretese di normalità» e per i quali «qualsiasi pretesa educativa sul piano della sessualità è una violenza». Ma a bocciare l’ora di educazione sessuale nelle scuole ritenendola «una porcheria» è stato il governo Meloni
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L'anno più caldo da oltre un secolo a questa parte, costellato da ondate di caldo prolungate, un tornado tra i più intensi della storia italiana e da un'alluvione che figura tra gli eventi catastrofici più disastrosi a livello mondiale. Questo il bilancio dell'annata 2023 dal punto di vista climatico nel Ravennate presentato dal meteorologo Pierluigi Randi, presidente dell'Associazione Meteo Professionisti (Ampro). L'anno appena trascorso potrebbe insomma rappresentare a pieno titolo un "manifesto" degli effetti del riscaldamento globale, con conseguenze per il territorio ravennate e romagnolo ben evidenti. Un'annata che ha segnato diversi record (purtroppo tutti negativi) sotto l'aspetto delle rilevazioni meteo e che ci porta a riflettere sul cambiamento climatico in atto.
Randi, possiamo tracciare un bilancio dell'annata 2023 dal punto di vista climatico?
I dati sono stati ormai raccolti e abbiamo diversi spunti. Il primo è rappresentato dalle temperature che sono state altissime. Il 2023 che è stato l'anno più caldo dal 1950, ma potremmo estendere l'analisi a molto più indietro nel tempo, probabilmente è l'anno più caldo dal 1900. Con un'anomalia di temperatura molto elevata dato che parliamo di valori medi annui. Un'anomalia di 2,1 gradi come abbiamo avuto nel 2023 è tantissimo. Dobbiamo considerare che già il 2022 era stato molto caldo. Ora il 2023 ha superato di mezzo grado il precedente record. Questo è già un aspetto molto indicativo. Non ci sono stati mesi particolarmente freddi. Soltanto in due mesi la temperatura è stata intorno alla norma: aprile e maggio. Tutti gli altri mesi sono stati caldi o molto caldi. Con ottobre e dicembre che sono stati i più caldi da quando esistono le rilevazioni strumentali. Il 2023 lo possiamo considerare un 'manifesto' del riscaldamento globale che però ha ripercussioni anche a livello locale. Per la prima volta l'anomalia di temperatura media annua ha superato i 2 gradi. Non era mai successo dal 1900. Nel 2022 era stata superata per la prima volta la soglia grado e mezzo. Sono dati preoccupanti, perché esprimono una velocità di riscaldamento che non ha alcun precedente. E' chiaro che in tutto questo potrebbe esserci stato lo zampino della variabilità naturale: il 2023 potrebbe essere il frutto di una commistione tra l'impronta climatica ed eventi meteorologici in sequenza che hanno fatto aumentare le temperature medie. Ma sta di fatto che i dati sono questi. Il 2023 è stato l'anno di gran lunga più caldo dal 1950, ma potremmo allargarci fino al 1900.
Prendiamo ora in considerazione le precipitazioni: cosa ci dicono i dati del 2023?
Sul fronte delle precipitazioni, queste sono state nella norma. Una piovosità normale, ma la distribuzione è stata pessima. Praticamente gran parte delle precipitazioni sono cadute nel mese di maggio, provocando poi la terribile alluvione. Quindi se guardiamo il quadro medio annuo ci siamo, abbiamo un'anomalia attorno all'1% in più, ma quella norma l'abbiamo raggiunta attraverso un periodo estremamente piovoso piuttosto breve, durato circa 40 giorni, seguito da un lungo periodo in cui le precipitazioni sono state estremamente scarse. Circa il 40% delle precipitazioni annue le abbiamo avute in una quarantina di giorni. Un aspetto che si somma a quello delle alte temperature.
Tra gli aspetti più negativi dell'anno appena passato ci sono però anche gli eventi estremi...
Nel 2023 ne abbiamo avuti tanti, troppi. L'alluvione è arrivata per due eventi di precipitazione estrema sull'Appennino. Nel mese di maggio, in località dell'Appennino ravennate come Casola Valsenio o San Cassiano sono caduti più di 500 mm di pioggia, che rappresentano 7-8 volte il valore medio mensile e più della metà della pioggia che dovrebbe cadere in un anno. Una quantità di pioggia caduta in un periodo molto ristretto, con due eventi piovosi della durata di circa una trentina di ore ciascuno. A fronte di tali quantità di precipitazioni difficilmente avremmo potuto salvarci, una quantità di pioggia che non può che portare a effetti disastrosi sul territorio. Certo, si può cercare di gestire meglio il territorio, fare di più, ma sta di fatto che sono esondati, o hanno avuto rotture arginali, 23 corsi d'acqua contemporaneamente, dall'Idice al Marecchia. Con le conseguenze più pesanti che si sono avute sul Ravennate e Forlivese. Sull'alluvione diciamo anche che è stato il terzo peggior evento catastrofico mondiale del 2023, dopo il terremoto in Turchia-Siria e un episodio di grave siccità nel Sud America. Ma gli eventi estremi per il nostro territorio non sono finiti qua. Abbiamo avuto un'ondata di caldo tardiva in agosto, con temperature che hanno sfiorato i 40 gradi il giorno 25. Temperature altissime anche in ottobre. Il 9 ottobre sono state raggiunte massime fra 31 e 33 gradi. Addirittura in una località collinare come Brisighella sono stati raggiunti i 34 gradi. Anche in quel caso sono stati distrutti i record di temperature massime di ottobre, con un'ondata di caldo molto lunga.
E poi a fine luglio c'è stato il tornado.
Il drammatico tornado del Ravennate settentrionale, tra Voltana, Alfonsine e Savarna. Un tornado di categoria IF 3 su una scala che arriva al massimo a 5, quindi un evento molto severo per l'Italia. Un tornado che per fortuna non ha investito centri abitati, altrimenti avrebbe potuto avere conseguenze ancor più catastrofiche. Ha avuto un vortice di oltre un chilometro, è stato uno dei tornado più grossi che ci siano mai stati in Italia dal 1900 e come intensità siamo tra i primi 10 in tutta la Penisola. Si stimano raffiche massime della durata di almeno 3 secondi intorno ai 280-290 km orari per produrre i danni che sono stati rilevati. I tornado (o trombe d'aria) non sono una novità, ma questo è stato veramente molto violento. Sicuramente il più grave della storia ravennate. Non potremmo attribuirlo al cambiamento climatico, poiché è un evento singolo, di breve durata. Però il segnale che stiamo osservando è che il numero di tornado è stabile, ma aumentano quelli violenti. E su questo c'è probabilmente il problema del troppo caldo nei bassi strati. Prima del tornado del 22 luglio, c'era stata una forte ondata di caldo, con temperature di 45 gradi al Centro-Sud. In ogni caso non ci siamo fatti mancare nulla: tra alluvione e tornado la nostra provincia è stata bersagliata dalle avversità atmosferica. E non dimentichiamo le gelate di aprile, con gravi danni all'agricoltura. Anche questo aspetto, benché paradossale, ha comunque un legame con il riscaldamento globale. Con l'aumento delle temperature medie aumenta la variabilità. Tendono ad aumentare gli eventi di caldo estremo, ma non scompaiono quelli di freddo intenso, benché più rari. Un 2023 nel quale gli estremi climatici ci hanno fatto pagare un prezzo molto alto. Probabilmente qualcuno pensava che fossimo una 'isola felice', ma il 2023 ci ha insegnato che nessuno può sentirsi al sicuro.
Possiamo dire che il nostro clima sta diventando sempre più tropicale?
Più che di tropicalizzazione, parlerei di estremizzazione. I climi tropicale hanno una stagione secca e una stagione di pioggia ben definite. Nel nostro caso non possiamo definire una stagione secca e una piovosa. Gli eventi di pioggia estrema possono verificarsi in qualsiasi stagione, mentre nei paesi tropicali si inquadrano in un periodo ben preciso. Si osserva un segnale anche sull'aumento di intensità delle piogge in brevi periodi. Questo dipende dal fatto che l'atmosfera è troppo calda. L'intensità media delle piogge sta aumentando di pari passo con l'aumento delle temperature. E questa è una caratteristica tropicale. I modelli di clima indicano poi per il futuro un aumento di frequenza dei colpi di frusta, ovvero un'alternanza tra brevi periodi molto piovosi e lunghi periodi di precipitazioni scarse. Ed è esattamente quello che è successo nel 2023. Abbiamo avuto precipitazioni straordinarie nel mese di maggio e poi 7 mesi consecutivi in cui le precipitazioni sono state molto al di sotto della norma. Si prevede che di qui al 2070 questi colpi di frusta possano raddoppiare se la temperatura continuerà a salire con il ritmo che ha oggi.
Il 2023 quindi è stato l'anno più caldo della storia recente. Si tratta di un caso isolato o è ormai una tendenza?
E' assolutamente una tendenza. Se prendiamo i 10 anni più caldi dal 1900 (questo vale per la nostra provincia, ma anche per il resto d'Italia), questi appartengono tutti all'epoca recente. Dopo il 2023 e il 2022, se andiamo a scalare la classifica troviamo il 2019, 2016, 2014, 2020. Tutti anni che vengono dopo il 2010. Unico superstite è il 2003, ma probabilmente presto uscirà dalla classifica. Questo è un segnale fortissimo, non è un caso isolato. Se fossero solo gli ultimi due anni potremmo parlare di casualità. Ma se prendiamo la tendenza dal Duemila abbiamo un segnale chiaro. Anche la curva di aumento di temperatura media è esponenziale. Nel 2023 abbiamo superato i 2 gradi di anomalia di temperatura media annua. Negli anni '90 quando c'era un'annata molto calda l'anomalia era di 1 un grado sopra la norma. E' un salto veramente notevole. Speriamo rimanga isolato, ma il fatto stesso che un estremo simile sia stato toccato, è indicativo
Chiuso il taccuino della conferenza stampa d’inizio anno, si squaderna l’agenda delle scadenze. Per Giorgia Meloni cominciano le sfide dei prossimi mesi e la corsa a ostacoli verso il voto di primavera. È una gara che si giocherà su più livelli.
C’È QUELLO interno, che riguarda la capacita della struttura di Fratelli d’Italia di reggere concretamente l’impatto col governo. Il caso del colpo sparato nel buio del capodanno biellese dal deputato Emanuele Pozzolo è l’ulteriore segnale di allarme. Al di là della responsabilità specifica e del singolo episodio, del quale si stanno occupando la procura di Biella con l’ausilio del Ris di Parma, il problema politico è evidente ai più: riguarda la selezione della classe dirigente di FdI, un partito cresciuto a dismisura nel giro di pochi anni. L’altro giorno, parlando ai cronisti, Meloni ha ricordato con orgoglio che la forza politica da lei fondata partiva dall’1,9%. Questa espansione repentina, e il salto sul carro meloniano avvenuto sui territori, rischiano di creare più di un imbarazzo. Proprio ieri, del resto, Gianfranco Fini ha raccontato così al Foglio la vicenda emblematica di Pozzolo e la sua storia con il mondo postfascista: «Quando ero presidente di An, lo allontanammo senza nemmeno espellerlo dalla federazione di Vercelli perché era un violento estremista verbale – ricorda l’ex presidente della Camera – Il suo caso non finì sulla mia scrivania, ma se ne occupò Donato Lamorte, capo della mia segreteria politica. Capimmo che era un balengo, come si dice in Piemonte, e lo accompagnammo alla porta: via, andare». Quanti balenghi ci sono ancora in FdI che possono ancora far danni? A questa domanda dovrà rispondere Giorgia Meloni nel corso delle prossime settimane. Se davvero, come è parso a molti in questo inizio di legislatura, ha raschiato il fondo del barile del personale politico alle elezioni che l’hanno condotta fino a Palazzo Chigi, sarà dura compilare le liste per l’appuntamento cruciale del voto di giugno.
PROPRIO le europee rappresentano il secondo capitolo delle meloniadi del 2024. La presidente del consiglio è partita con ambizioni non da poco, puntava a spostare gli equilibri dell’Unione europea e rompere l’asse tra popolari e socialisti attorno al quale ruota la Commissione europea. Per prima cosa, il flop dei neo-franchisti di Vox alle elezioni politiche spagnole dell’estate scorsa ha dimostrato che quell’obiettivo è praticamente irraggiungibile. Meloni può sperare al massimo nell’allargamento della maggioranza a porzioni dei conservatori. Manovra tutt’altro che agile, anche perché lascerebbe spazi a destra e al concorrente interno della Lega di Salvini, che attorno alla candidatura del generale Roberto Vannacci cercano di crescere sul fronte reazionario. La leader di FdI in conferenza stampa ha provato a districarsi, provando a dividere concettualmente il voto sulla Commissione dalle alleanze al parlamento europeo. Resta il rischio di rimanere esclusa dai giochi in Europa, dopo la mezza figuraccia sul Patto di stabilità e la rappresaglia del voto alla Camera sulla ratifica del Mef.
SE SI PARLA di voto, bisogna parlare anche di regionali. Anche qui, in un certo senso, le tensioni tra alleati arrivano dalla crescita rapida di FdI, che se dovesse trovare un bilanciamento nella distribuzione dei candidati a presidente di Regione farebbe saltare il banco. È successo nei giorni scorsi in Sardegna, dove la Lega insiste per ripresentare Christian Solinas e i meloniani vorrebbero gettare nella mischia il sindaco di Cagliari Paolo Truzzu. Ma il domino rischia di travolgere anche le altre Regioni al voto (Piemonte, Basilicata, Abruzzo e Umbria) e di rimando i comuni, a partire dai capoluoghi Firenze, Bari, Cagliari, Perugia, Potenza e Campobasso. Il vertice meloniano da via della Scrofa sostiene di essere sottorappresentato, ma per il Carroccio nelle ultime ore il vicesegretario, Andrea Crippa, ha parlato della necessità di «garantire la continuità e rinnovare la fiducia nei confronti di sindaci e governatori uscenti di centrodestra».
IL TEMPO stringe, e il rompicapo deve essere risolto al massimo entro la fine del mese. Ci sono le liste elettorali da presentare e bisogna sciogliere la questione dei balneari e della direttiva europea sulla concorrenza, sottolineata nei giorni scorsi anche da Sergio Mattarella. L’agenda della premier ancora non presenta vertici in programma. Per ora è stato fissato l’incontro di domani, sull’ex Ilva, tra il governo e Arcelor Mittal, al quale Meloni non dovrebbe presenziare. Ma servirà che tutti i leader si mettano attorno a un tavolo e si guardino negli occhi, per provare a superare gli scogli di questo 2024
IL CASO. L’escluso Conte mastica amaro, ma la vera partita è sulle candidature alle europee
Quando a metà dicembre Elly Schlein si disse disponibile a confrontarsi con Giorgia Meloni in televisione (e non ad Atreju), Bruno Vespa si limitò a offrire la sua disponibilità. Adesso che a rilanciare l’idea è stata la stessa premier, il decano dei conduttori Rai è tornato alla carica in maniera molto più convinta, senza badare troppo al fatto che la una puntata l’avrebbe già fatta Sky Tg24: «Siamo la casa del confronto», ha sottolineato il direttore Giuseppe De Bellis dopo il cip messo alla conferenza stampa d’inizio anno della premier.
Vespa, dal canto suo, sostiene di avere un diritto di prelazione frutto della mezza apertura fatta a Schlein, e non appare troppo preoccupato. «Ho letto il comunicato di De Bellis e mi pare corretto – ha detto all’Agi -. Nel senso che dice: Meloni e Schlein sono disponibili al confronto e Sky è disponibile ad ospitarlo. Ma non dice altro». Così, anche se «non c’è ancora nulla di deciso», già qualche indicazione è pronto a darla: «La par condicio scatterà 60 giorni prima delle elezioni europee e, salvo che non cambino le regole, il confronto dovrà avvenire prima di quella data». La memoria corre indietro fino alla fine dell’estate del 2022, quando il confronto tra Meloni e Letta non andò in onda proprio per motivi di par condicio e venne trasmesso in streaming dal sito del Corriere della Sera.
Questa volta le cose devono andare diversamente, anche se nel Pd già si registra qualche malumore per l’opa lanciata dal conduttore di Porta a Porta: nessuno dimentica, infatti, il summit di governo andato in scena lo scorso giugno alla masseria di Manduria né il video pubblicato prima di Natale dai social di Fratelli d’Italia in cui Vespa elogiava Meloni per la sua politica estera («Straordinaria») e la assolveva per quella interna: «Si è trovata senza soldi e ha potuto fare poco». Ben più ruvido il trattamento riservato a Schlein durante la sua ospitata a Cinque minuti, a novembre, con non poche scivolate al sapor di paternalismo.
AL DI LÀ dei dubbi, forse non del tutto infondati, sulla neutralità del campo, tra i dem c’è la consapevolezza che il piatto è comunque di quelli ghiotti: non c’è niente di meglio di un duello a due con la premier per dimostrare a chi appartenga la leadership dell’opposizione. Meloni, in conferenza stampa, una prima investitura l’ha già data in questo senso, forse nella convinzione di poter stravincere il confronto. Giuseppe Conte, l’escluso, già si lamenta del fatto che la premier dia «patenti di legittimità ai suoi avversari» e bolla tutto questo intreccio con una parola: «Strategie». Non che il leader de M5s sbagli, ma anche lui è consapevole che con l’approssimarsi delle europee il dualismo tra Giorgia e Elly potrebbe accentuarsi e metterlo di fatto all’angolo.
LA PARTITA è quella dell’ alleanza tra democratici e pentastellati, con la leggendaria figura del federatore – o della federatrice – che affolla i pensieri dei dirigenti e che, però, difficilmente si paleserà in tempo per il voto di giugno, che è proporzionale e non prevede alleanze. Discorso a parte per le regioni e i comuni, ma lì i leader per il momento stanno evitando di intervenire e lasciano la palla alle rispettive rappresentanze locali. Meloni invece non ha alcun problema di leadership e dunque può permettersi di scombinare le carte degli avversari: la porta lasciata un po’ aperta e un po’ no su una sua candidatura alle europee è l’appendice naturale della strategia. Il nodo, infatti, non riguarda la decisione che sul punto prenderanno gli alleati Tajani e Salvini ma quella che prenderanno Conte e Schlein. Che pure ancora non sciolgono le riserve. Al cinema si tratterebbe di uno stallo alla messicana, dove ciascun personaggio ha la pistola puntata sull’altro. E tutti aspettano che qualcuno spari il primo colpo, sperando che non vada a segno
Commenta (0 Commenti)LIBANO. Secondo discorso di Narsallah in 48 ore
Hassan Nasrallah - foto Wikipedia
«Una risposta a quello che è accaduto nella periferia a sud (di Beirut) è inevitabile. La decisione dipende dal terreno di battaglia. E il terreno non attende». È stato chiaro Hassan Nasrallah, leader di Hezbollah, nel suo discorso di ieri nel primo pomeriggio, il secondo in 48 ore.
L’UCCISIONE MARTEDÌ di Saleh Aruri e di altri sei quadri di Hamas a Mashrafieh nella Dahieh, roccaforte sciita nell’hinterland della capitale libanese, ha spostato senza dubbio gli equilibri del confronto tra Hezbollah e le Forze di difesa israeliane (Idf) fino a quel momento limitato alle zone limitrofe al confine tra Libano e Israele.
«La guerra che combattiamo oggi non è solo per Gaza, ma per il Libano e il suo sud. (…) Il Libano potrà, se Dio vuole, alla fine della guerra liberare i suoi territori, cominciando dal punto B1 (Ras Naqora sulla costa, ndr), passando da Ghajar fino ai villaggi di Kfar. Shuba e Sheeba’a» ha dichiarato Nasrallah, aggiungendo che non ci sarà nessuna tregua con Israele finché la guerra a Gaza non sarà terminata.
Israele arriva a Beirut, assassinato il n. 2 di Hamas
AL DI LÀ DEL CONFINE, in occasione dell’incontro ieri mattina con l’inviato speciale nella regione degli Stati uniti Amos Hochstein, Netanyahu ha dichiarato che «un cambio radicale dovrà esserci al confine con il Libano, in modo tale che i residenti potranno tornare alle loro case e vivere in pace e sicurezza. Ci fermeremo solo quando quest’obiettivo sarà raggiunto, in modo diplomatico – che è quello che Israele preferisce – o in altri modi». I civili che hanno dovuto abbandonare i propri territori sono circa 80mila nel nord di Israele e oltre 76mila nel sud del Libano, secondo i dati dell’Organizzazione internazionale per la migrazione (Oim).
Gli scontri intanto non accennano a diminuire, anzi si sono intensificati nelle ultime ore. Vari villaggi nelle zone di Marjayouneh, Nabatiyyeh, nella periferia a sud di Tiro sono state colpite in territorio libanese e Hezbollah ha lanciato razzi in direzione del nord di Israele sia in prossimità della costa che della parte interna del paese. Il premier libanese uscente in una telefonata con il suo omologo del Qatar Mohamad bin Abdulrahman at-Thani ha sottolineato «la necessità che la cominità internazionale agisca immediatamente per mettere fine alle violazioni israeliane del diritto internazionale».
DOPO LA BREVE GUERRA del Tammus di 33 giorni nel 2006, quando l’esercito israeliano arrivò a Beirut, questo è il primo vero e proprio confronto prolungato tra le Idf e il Partito di Dio. In quell’occasione Israele fu costretto al ritiro dalla milizia sciita e, nonostante i numeri – circa 1200 vittime libanesi in prevalenza civili e le 300 israeliane in prevalenza militari – la guerra è diventata il simbolo della cacciata israeliana dal Libano.
Ora Nasrallah assicura che Hezbollah non solo è pronto a qualunque tipo di confronto, ma che è anche più forte di prima; cosa che, a prescindere dalla retorica, è molto verosimile anche grazie al rafforzamento dell’«Asse della Resistenza» Teheran-Damasco-Hezbollah.
L’UCCISIONE DEL NUMERO DUE di Hamas rappresenta sia un colpo messo a segno da Netanyahu da spendere a casa, che un messaggio preciso e diretto a Hezbollah, colpito nel cuore del suo quartier generale a Beirut. Che a questo punto un cambio di passo sia inevitabile è fuori dubbio, così come è fuori dubbio che l’attentato ad Aruri non resterà impunito. Ciò che ancora non è chiaro è se ciò allargherà la guerra a tutto il Libano, una guerra che, in un paese nella più profonda crisi economica, finanziaria e sociale della sua storia da oltre quattro anni, sarebbe una catastrofe
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