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GAZA. Niente Hamas e Anp. La Striscia divisa in distretti affidata a rappresentanti delle grandi famiglie. Rifiuto immediato. Ieri a Beirut i funerali e la sepoltura nel campo profughi di Shatila di Saleh Aruri

Il day after di Israele, tribù senza politica Tra le macerie di Gaza city - Ap

Doveva riunirsi ieri sera il gabinetto di guerra guidato da Benyamin Netanyahu, per la prima volta sul «day after», ossia il futuro politico della Striscia di Gaza quando cesserà l’offensiva israeliana. Non si parla più di «dopo Hamas» da quando anche ufficiali delle forze armate israeliane hanno chiarito e ribadito che i proclami del primo ministro sulla «distruzione totale» del movimento islamico sono lontani dalla realtà. Così come restano distanti dalla realtà le soluzioni israeliane del cosiddetto «problema Gaza». Ne apprendiamo di nuove un giorno sì e l’altro pure.

Sono volte anche ad impedire all’Amministrazione Biden di imporre il ritorno della debole e priva di consenso Autorità nazionale palestinese (Anp) del presidente Abu Mazen al governo della Striscia. Qualche giorno fa si è saputo di un progetto, molto gradito all’estrema destra e ai leader dei coloni, per favorire il «reinsediamento volontario» dei palestinesi di Gaza in Africa e in vari paesi del mondo. Ne hanno parlato Times of Israel e Canale 12. Ieri sera il gabinetto di guerra, secondo alcune fonti, avrebbe discusso anche di una proposta per dividere Gaza in piccoli settori governati da clan familiari locali. Secondo un giornalista di Kan, la tv pubblica, «Ogni tribù avrà un accordo con Israele, sulla base del quale riceverà gli aiuti umanitari che arriveranno dall’Egitto. Israele si aspetta che le tribù siano responsabili della gestione della vita civile (di Gaza)».

L’esercito comunque non uscirebbe dalla Striscia per occuparsi «della sicurezza». Una soluzione che, sempre secondo Kan, potrebbe estendersi in futuro anche alla Cisgiordania, sempre con il fine di rimuovere dalla scena l’Anp e Abu Mazen, riferimento politico dei governi occidentali e degli Usa. «Non ha senso parlare dell’Anp come parte della gestione di Gaza finché non avrà un cambiamento radicale che prima dovrà dimostrare in Cisgiordania», ha ripetuto Netanyahu di fronte alla Commissione affari Esteri e Difesa della Knesset.

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Prima della riunione del gabinetto di guerra, in una apparente concessione agli Usa e in anticipo sull’arrivo nella regione del segretario di stato Antony Blinken, il ministro della Difesa Yoav Gallant ha detto che a governare saranno palestinesi che vivono a Gaza «a condizione che non siano ostili verso Israele e non agiscano contro di esso». A scanso di equivoci, i rappresentanti delle famiglie più grandi e importanti di Gaza hanno fatto sapere che loro non si presteranno mai alla realizzazione di questo progetto. Israele, ci diceva ieri un giornalista nel sud della Striscia, «pensa che i palestinesi di Gaza, in gravi condizioni nelle tendopoli, siano ora disposti a servire i suoi interessi, ma si sbaglia. Inoltre, dopo tre mesi di guerra Hamas non è affatto sconfitto, mantiene buone capacità di controllo e non permetterà mai questa soluzione». I civili di Gaza, nel frattempo, fanno i conti con la guerra.

I bombardamenti israeliani ieri hanno ucciso 14 palestinesi a Khan Younis, tra cui nove bambini, secondo testimoni citati da media locali. Aerei e carri armati hanno colpito tre campi profughi nel centro di Gaza – cinque i morti a Nusseirat – accelerando la fuga di migliaia di civili a sud, verso Rafah dove sono ammassato centinaia di migliaia di sfollati. Ad Al Mawasi, ha riferito il ministero della sanità, nove bambini e cinque adulti sono stati uccisi da una bomba caduta vicino a tende erette dagli sfollati. Il calo apparente dell’intensità del conflitto non deve ingannare.

Gli esperti spiegano che le aree sulle quali si concentra l’offensiva sono limitate ma ad alta tensione, la più presa di mira resta Khan Yunis, e le truppe israeliane si avventurano tra le macerie per «stanare Hamas» solo se in condizioni di elevata sicurezza. E riescono ad ottenerla con raid aerei sugli obiettivi indicati. Appena i soldati scorgono combattenti di Hamas, chiedono l’intervento dell’aviazione che lancia subito attacchi devastanti in quella zona. Ciò spiegherebbe l’elevato numero di vittime palestinesi, in gran parte civili, che si continua a registrare ogni giorno (sono 22.438 dal 7 ottobre). Una tattica di guerra conseguenza delle perdite significative – oltre 170 soldati uccisi sino ad oggi – che Hamas provoca ai reparti militari israeliani. I civili palestinesi tornano a denunciare esecuzioni sommarie compiute dall’esercito israeliano.

La giornalista di Gaza Maha Husseini, del portale Middle East Eye (Mee) ha raccolto le dichiarazioni di scampati alla morte. Uno di questi Moemen Raed al Khaldi, ferito il 21 dicembre, è rimasto immobile tra i cadaveri dei suoi familiari fingendo di essere morto per proteggersi dagli spari dei soldati israeliani che avevano sparato a tutti i presenti nella sua abitazione. «I soldati non parlavano arabo – ha raccontato – nessuno di noi parlava ebraico e non capivamo cosa dicessero. Allora mio nonno ha provato a tradurre. Ha detto solo poche parole: ‘Ascolta quello che ti dicono i soldati e vai fuori’. I soldati si sono voltati e hanno pensato che fosse stato mio padre a parlare. Gli hanno sparato ed è morto subito. Poi hanno sparato a tutti gli altri presenti nella stanza». Kamel Mohammed Nofal, 65 anni, un pensionato dell’Unrwa (Onu), è stato ucciso «mentre cercava di spiegare (ai soldati) che i suoi figli non riuscivano a capire le loro istruzioni», ha riferito un suo parente, Jamal Naim.

In Cisgiordania è continuato ieri il lutto per l’assassinio di Saleh Aruri, il numero due di Hamas, compiuto in Libano dal Mossad (Israele non conferma e non smentisce). A Beirut migliaia di persone hanno partecipato ai funerali del leader del movimento islamico, sepolto nel campo profughi di Chatila,  che Hezbollah ha promesso di vendicare. Sul confine i combattenti del gruppo sciita hanno colpito postazioni di Israele che da parte sua ha bombardato Marun a-Ras e altre località libanesi. In Cisgiordania, l’esercito israeliano ha demolito tre case e arrestato circa 300 uomini nel campo profughi di Nur Shams (Tulkarem), teatro delle sue incursioni nei centri abitati dell’altro territorio palestinese sotto occupazione militare. Dal 7 ottobre in Cisgiordania sono stati uccisi oltre 320 palestinesi e arrestati altre migliaia

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LE OPPOSIZIONI. Un coro di critiche dai leader dei partiti di minoranza dopo l'exploit in conferenza stampa della premier

 Giuseppe Provenzano, deputato del Partito Democratico

«Chi sta ricattando la presidente del Consiglio? Parli chiaro», incalza Giuseppe Provenzano. «Chi lancia accuse così gravi ha il dovere della precisione. Altrimenti rischia di passare per irresponsabile oppure per mitomane», gli fa eco Arturo Scotto. Il Pd replica alla conferenza stampa di Meloni.

«Non ha un minimo di contezza dei problemi dell’Italia, dalla sanità al lavoro», attaccano i capigruppo Pd Francesco Boccia e Chiara Braga: «Per i conti pubblici si affida al buon andamento dell’economia, rifiuta responsabilità diretta su Mes, Patto di stabilità e leggi sulla concorrenza. Pensa a un’Europa “à la carte” in cui l’Italia conta sempre meno. Gravi sono le falsità: dice che taglia le tasse con i risparmi alla spesa, ma dimentica che la sua manovra è finanziata in deficit e solo per un anno. Offende l’intelligenza raccontando che la sua pessima riforma costituzionale non tocca i poteri del presidente della Repubblica». Sul caso Pozzolo Sandro Ruotolo aggiunge: «Ma davvero pensa di chiudere la vicenda con la sospensione?».

Duro anche Giuseppe Conte: «Qual è il colmo per chi si definisce “patriota”? Fare la fine di Giorgia Meloni. La premier si è piegata a Germania e Francia per un accordo sul Patto di stabilità con cui all’Italia saranno imposti tagli e tasse per oltre 12 miliardi l’anno. Perchè lo ha firmato?». Dai 5 stelle critiche anche sulle banche. La premier ha definito il Movimento «cintura nera negli aiuti alle banche» e si è vantata della sua tassa sugli extraprofitti, che nessuno ha pagato.

«Per lo Stato è una operazione “win win” che rivendico», ha detto. «Abbiamo aggiunto la possibilità, in alternativa al versamento immediato, di accantonare un importo pari ad almeno due volte e mezzo l’ammontare della tassazione in una riserva non distribuibile. a azionisti e manager. Così aumenterà anche il credito ai cittadini. E nel medio periodo quelle banche pagheranno più tasse di quelle previste sugli extraprofitti». «Una presa in giro, potevano prendere 2 miliardi dalle banche e hanno fatto il contrario», la replica di Francesco Silvestri dei 5s. «Vincono solo banche e governo e perdono i cittadini». «Imprecisioni, plateali bugie, attacchi demagogici alle opposizioni, vuoti slogan», il giudizio di Fratoianni. «Si sente la più completa assenza di un progetto per l’Italia», dice Carlo Calenda. E Renzi: «Mai sentite tante bugie tutte insieme»

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CALDODANNO. Il documento arriva dopo sette anni d’attesa, gli ambientalisti attaccano: mancano decisioni chiare e, soprattutto, non ci sono i fondi. Gli eventi estremi nel 2023 sono arrivati a quota 378, più 22% rispetto all’anno precedente; per i danni delle alluvioni in Romagna e Toscana spesi undici miliardi

Cambiamenti climatici, il Piano del governo Il Po in secca - Ansa

Il ministro forzista dell’Ambiente e della Sicurezza energetica, Gilberto Pichetto Fratin, ha approvato il Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici (Pnacc), «un passo importante per la pianificazione e l’attuazione di azioni di adattamento ai cambiamenti climatici nel nostro Paese», come spiega il sito del Mase, che ne ha dato notizia martedì scorso.

«L’OBIETTIVO principale del Piano è fornire un quadro di indirizzo nazionale per l’implementazione di azioni finalizzate a ridurre al minimo possibile i rischi derivanti dai cambiamenti climatici, a migliorare la capacità di adattamento dei sistemi socioeconomici e naturali, nonché trarre vantaggio dalle eventuali opportunità che si potranno presentare con le nuove condizioni climatiche» spiega il sommario del documento, che raccoglie 361 azioni rivolte ai sistemi naturali, sociali ed economici. Le organizzazioni ambientaliste, pur salutando con interesse la pubblicazione del testo, rilevano che esso arriva «dopo sei lunghi anni dalla prima bozza e dopo ben quattro governi» come spiega Legambiente, mentre il Wwf sottolinea che «tocca ai decreti attuativi e agli organi di governance cercare di correggere gli evidenti limiti».

UN ADATTAMENTO in chiaroscuro, insomma. In un’Italia, come osserva Stefano Ciafani, presidente di Legambiente, «sempre più esposta alla crisi climatica e all’intensificarsi degli eventi meteorologici estremi che nel 2023 sono arrivati a quota 378, più 22% rispetto all’anno precedente» risulta fondamentale mettere in campo «una chiara e decisa strategia di prevenzione, attuando al più presto le 361 azioni individuate nel Piano tra cui le aree e vasche di esondazione e i processi di rinaturalizzazione dei bacini idrografici e dei versanti per ridare spazi ai fiumi, per far sì che la nostra Penisola conviva nei prossimi anni con l’emergenza climatica, evitando così di rincorrere le emergenze. Solo per i danni delle due alluvioni, che nel 2023 hanno colpito Romagna e Toscana, l’Italia ha speso 11 miliardi di euro, ossia oltre un terzo della legge di bilancio 2024 appena approvata dal Parlamento. Risorse economiche, che con campagne di prevenzione e azioni di adattamento e mitigazione fatte per tempo potevano essere in parte risparmiate».

SECONDO CIAFANI «nei prossimi anni sarà importante anche intensificare le politiche territoriali di prevenzione e le campagne di sensibilizzazione sulla convivenza con il rischio, per far diventare il nostro Paese dal più esposto al centro del mar Mediterraneo a un esempio per gli altri». Manca ancora il Piano nazionale integrato energia e clima (la Commissione Ue a dicembre ha bocciato la bozza inviata dall’Italia), assolutamente fondamentale per accompagnare l’adattamento. Vanno approvati, sottolinea Ciafani, con «obiettivi più ambiziosi di produzione di energia rinnovabile e di riduzione di gas climalteranti al 2030; una legge sullo stop al consumo di suolo che manca all’appello dopo oltre 11 anni dall’inizio del primo iter legislativo, semplificando anche la demolizione e la ricostruzione degli edifici esistenti ed entro tre mesi si emani il decreto che attiva l’Osservatorio nazionale per l’adattamento ai cambiamenti climatici, con funzione di coordinamento tra i livelli di governo del territorio e dei vari settori».

SERVE, insomma, uno sforzo ulteriore anche perché – spiega il Wwf – il Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici «è analogo a quello precedente e ha gli stessi limiti: mancanza di decisioni chiare e coraggiose, di identificazione sintetica dei possibili impatti e problemi, scarsa e deficitaria individuazione delle cose da fare e di come finanziarle». L’associazione critica un «approccio centralizzato» su cui le consultazioni non paiono aver inciso più di tanto. Un altro «grave limite» secondo il Wwf «è che pare individuare le azioni solo a livello urbanistico e territoriale» mentre «la mitigazione e l’adattamento al cambiamento climatico dovrebbero costituire la base per la programmazione in senso generale, a partire da quella economica e sociale».

SE È UTILE la sintesi dell’analisi degli impatti della crisi climatica, risulta limitata quella degli impatti socioeconomici mentre, in merito ai finanziamenti, «il Piano non individua nuove risorse». Nel 2024, dopo decenni di inazione, l’adattamento ha ormai un costo

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Il sangue ora scorre in Iran: attentato al cimitero di Kerman, oltre 100 morti tra la folla che ricordava il generale pasdaran Soleimani. Nessuna rivendicazione, ma Teheran guarda già a Tel Aviv. Dal Libano, Hezbollah prova a frenare la corsa alla guerra regionale

LIBANO/GAZA. Il leader sciita Nasrallah elogia Saleh Aruri assassinato a Beirut da un drone israeliano, ma prova a non ampiare il conflitto. Sciopero generale nei Territori palestinesi occupati

Hezbollah tira il freno. A Gaza volantini, gas e bombe sugli sfollati Gaza. Bambino recuperato dalle macerie a Nusseirat - Ap

È andata come previsto alla vigilia. Commentando ieri dal suo bunker in Libano l’assassinio attribuito a un drone israeliano del numero due di Hamas, Saleh Aruri, avvenuto a Dahayeh martedì sera alla periferia meridionale di Beirut, il segretario generale di Hezbollah, Hassan Nasrallah nel suo atteso discorso di ieri non ha deviato dalla linea adottata negli ultimi tre mesi di evitare una guerra aperta con Israele. Rivolgendosi a una folla di sostenitori riuniti per l’anniversario dell’omicidio (compiuto dagli Usa) del generale iraniano Qassem Soleimani della Forza Quds, Nasrallah a un certo punto ha spiegato che, quando Hezbollah ha aperto «il fronte in Libano, lo ha fatto a sostegno del popolo oppresso a Gaza».

Questa azione, ha proseguito, «ha tenuto in considerazione la nostra visione strategica, la necessità di sostenere Gaza e le difficoltà in Libano». In sostanza Hezbollah è pronto alla guerra, se Israele attaccherà si troverà di fronte una forza formidabile ma non intende portare il Libano in una guerra che avrebbe conseguenze incalcolabili. «Le nostre battaglie non avranno limiti né controllo», ha affermato il leader del movimento sciita che poi ha aggirato la questione che si era aperta martedì sera di un attacco israeliano che ha violato la sovranità del Libano e avvenuto in un’area di Beirut dove Hezbollah mantiene le sue strutture civili (quelle militari in gran parte sono a sud).

Piuttosto Nasrallah, che ha elogiato la figura di Saleh Aruri, un suo interlocutore abituale, si è dilungato sui successi che avrebbe raggiunto la «resistenza» a sostegno della causa

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MEDIO ORIENTE. Saleh Aruri era il riferimento delle Brigate Qassam. Tel Aviv vieta ai ministri di parlarne

Israele arriva a Beirut,  assassinato il n. 2 di Hamas Rafah, famiglie in fila per la vaccinazione dei bambini - Ap/Fatima Shbair

Di fronte all’assassinio ieri a Dahiyeh, alla periferia di Beirut, di uno dei massimi leader di Hamas, Saleh Aruri, e di altre cinque persone tra cui due comandanti militari del movimento islamico palestinese, qualcuno ora sospetta che il ritiro, cominciato nei giorni scorsi, di una parte dei reparti corazzati israeliani da Gaza, descritto come un cambio di strategia militare, sia avvenuto in vista di una possibile escalation al nord con Hezbollah.

Akiva Eldar Netanyahu è molto felice, aveva bisogno di mostrare una sorta di vittoria. Sinwar è ancora nascosto a Gaza, questo è il meglio che ha potuto fare finora

TRUPPE TIRATE fuori da Gaza per un prossimo impiego contro il Libano. Si capirà nelle prossime ore se davvero ci sarà un conflitto vero e non più solo di attrito al confine tra Israele e Hezbollah come quello abbiamo visto da quando è cominciata l’offensiva a Gaza. Ieri sera si è riunito il gabinetto di guerra guidato da Benyamin Netanyahu e in Galilea è stato proclamato lo stato di massima allerta. Da Beirut sono giunte voci di una presunta intenzione di Hezbollah di lanciare razzi su Tel Aviv. In passato il leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah, aveva avvertito: «Se attacchi Dahiyeh, bombarderemo Tel Aviv».

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Si vedrà. Quello che è certo è che ieri Israele non ha ucciso un leader qualsiasi di Hamas. Aruri, 58 anni, non era solo il numero 2 del movimento islamico all’estero e

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ROBOT ASSASSINI. Il drone roadrunner è l’ultimo esempio di arma basata sull’intelligenza artificiale, autonoma dall’input umano. L’industria bellica globale si muove inarrestabile verso il conflitto "digitale"

Il drone roadrunner della Anduril Il drone roadrunner della Anduril

Nel video promozionale, un contenitore delle dimensioni di un piccolo frigo sta in mezzo al deserto americano come il monolite di Odissea nello spazio. Il coperchio di scintillante alluminio si ritira con un ronzio high-tech per rivelare le fattezze sinuose e letali di un missile che sembra uscito da Guerre stellari. I riferimenti all’immaginario fantascientifico sono certo del tutto intenzionali per la Anduril, l’azienda che lo produce e che dopotutto prende il nome dalla spada di Aragorn nel Signore degli anelli.

L’oggetto decolla con un rombo e si libra nel cielo fino ad individuare l’obbiettivo, un missile nemico, e neutralizzarlo in una palla di fuoco. Ma la missione del Roadrunner (questo il nome del drone, in omaggio all’uccello nemesi di Willy il Coyote) non è finita, infatti l’ordigno non è esploso contro il “nemico” ma lo ha incenerito con un proiettile, dopodiché compie una larga parabola e torna alla base, atterrando verticalmente come un modulo lunare, o i razzi riutilizzabili di ultima generazione Space X, pronto per la prossima missione.

È UNA FUNZIONALITÀ che da solo lo renderebbe all’avanguardia, ma il drone si distingue soprattutto per la modalità opzionale di intelligenza artificiale che lo mette in grado di pattugliare il cielo, individuando ed attaccando autonomamente i propri obbiettivi. Il roadrunner cioè è un lethal autonomous weapons systems (Laws) che in base al programma Ia di cui può essere dotato decide senza input di operatori umani chi attaccare e distruggere.

Si tratta in altre parole dell’ultimo esemplare di “robot assassini” che mentre l’opinione pubblica era distratta da Chat Gpt, sono già di fatto stati portati allo stadio operativo. La guerra è considerata la più letale delle “inevitabili” applicazioni dell’intelligenza artificiale, e qui i riferimenti fantascientifici diventano Terminator e Westworld: se è vero che ci avviciniamo alla soglia in cui l’auto apprendimento (machine learning) potrebbe diminuire la comprensione e l’effettivo controllo che gli operatori possono esercitare sulle macchine – nel caso automi in grado di uccidere i rischi sono più immediatamente evidenti.

EPPURE, gli operatori del settore danno per scontato che la prossima corsa agli armamenti è destinata a disputarsi su questo terreno tecnologico. Prima del suo ritiro lo scorso novembre, l’ex capo di stato americano, generale Mark Milley, ha dichiarato che «siamo di fronte ad un cambiamento fondamentale e senza precedenti del carattere della guerra, e la nostra finestra per mantenere un duraturo vantaggio competitivo si sta chiudendo». Non a caso gli Stati uniti hanno posto un embargo di semiconduttori per Ia, come gli Nvidia H880 e A 800, su Cina e 27 altri paesi, come la Russia e l’Iran. In realtà l’opinione diffusa degli analisti è che quel vantaggio l’abbia già assicurato la Cina, il paese che più ha investito sullo sviluppo dell’intelligenza artificiale in tutte le sue applicazioni

Negli Stati uniti la priorità della partita cinese sull’egemonia globale è vangelo bipartisan. Lo ha ribadito la scorsa settimana la ministra del commercio dell’amministrazione Biden, Gina Raimondo, dichiarando che la Cina «ha il diritto di sviluppare una maggiore potenza militare e noi quello di cercare di impedirglielo in ogni modo». Né ha avuto esito distensivo l’incontro con Biden il mese scorso ai margini del summit Apec, dove le aperture del presidente cinese Xi Jinping sono state respinte al mittente dal presidente che lo ha definito «un dittatore». Di fatto, sulla Ia nessuna nazione rinuncerebbe volontariamente al primato militare- tecnologico, tantomeno gli Usa che ad un nuovo complesso digitale-militare-industriale sembrano semmai estendere un assegno in bianco simile a quello elargito alle piattaforme che assicurano il predominio americano su internet.

In ambienti militari, intanto, molti hanno iniziato a criticare la mastodontica spesa tuttora sostenuta per l’acquisto di tradizionale tecnologia analogica, caldeggiando piuttosto una rapida conversione alle nuove tecnologie, in sostanza «più droni autonomi e meno portaerei», come ha sostenuto il generale Petraeus che, intervistato da Axios, ha affermato che navi, carri armati ed aerei dovranno venire sostituiti in fretta da sistemi leggeri ed autonomi a cui «un operatore umano potrà semplicemente impartire l’ordine di andare ed eseguire le direttive del proprio programma».

DA ANNI DARPA, l’agenzia per i progetti di ricerca avanzata di difesa del Pentagono, sta lavorando a sistemi di Ia «sostitutivi del apporto umano» per il combattimento aereo. Già nel 2020 aveva raggiunto l’obbiettivo di una vittoria della Ia su un avversario umano in un simulatore di volo. Lo scorso febbraio, nella base aeronautica di Edwards, nel deserto californiano, un’intelligenza artificiale ha pilotato autonomamente, per la prima volta, un vero caccia F16. Da un rapporto dell’Onu, risulterebbe che almeno una prima operazione interamente “autonoma” di macchine contro combattenti in carne ed ossa sia stata portata a termine nel 2020 in Libia, quando droni esplosivi forniti dalla Turchia al governo di Tripoli avrebbero attaccato «di loro volontà» truppe in ritirata appartenenti alle milizie orientali di Khalifa Haftar. I quadrirotori di classe Kargu-2 prodotti dalla Stm sono in grado di librarsi in volo e successivamente selezionare in autonomia obbiettivi nemici su cui esplodere.

NEL 2017 il Pentagono ha stabilito nella Silicon Valley un dipartimento preposto allo sviluppo accelerato di armamenti di ultima generazione dal nome poco rassicurante di Algorithmic Warfare Cross-Functional Team. E la Anduril, fondata dall’imprenditore Palmer Luckey, proprio sugli appalti militari ha imbastito un florido business, puntando in particolare sui sistemi autonomi. L’azienda ha dichiarato di avere già un contratto di fornitura per il roadrunner che si aggiunge a diversi altri sistemi «anti-umani» come sensori per l’individuazione di migranti clandestini e droni da guerra progettati per operare in sciami autonomi. Con altre 50 aziende la Anduril fa parte di un consorzio che lavora allo sviluppo del Advanced Battle Management System (Abms) un sistema capace di integrare un teatro di guerra in una architettura digitale unificata di controllo delle operazioni.

SE È INQUIETANTE la trasformazione delle guerre in videogiochi letali, l’altra accelerazione riguarda la capacità dei sistemi Ia di acquisire e processare quantità enormi di dati. Sarebbe quella impiegata, come sta emergendo in questi giorni, dall’esercito israeliano nella campagna di Gaza. Come riportato da +972 e pubblicato in Italia dal manifesto, un nuovo dispositivo denominato “Vangelo” è usato dall’Idf per generare liste di obbiettivi da bombardare nella Striscia. Testato la prima volta nella guerra contro Hamas del 2021 – oggi il database produce 100 obbiettivi al giorno su input di intelligence proveniente da una banca dati di 30-40000 militanti – In sostanza una kill list generata da software, o come è stata definita «una fabbrica automatica di assassinii».

ABBONDANO insomma gli esempi sulla guerra automatizzata, basti vedere il ruolo acquisito dalla tecnologia nel conflitto ucraino, già combattuto da droni kamikaze e missili intercettati da missili, per comprendere che di fatto la conversione è già buon punto. Quel conflitto è uno scorcio di ciò che al Pentagono considerano il futuro inevitabile a cui prepararsi: la guerra di algoritmo contro algoritmo. La guerra in Ucraina è stata un laboratorio di droni a basso costo provenienti da ogni dove, una tecnologia bellica “democratizzante”, che allarga il campo dei potenziali protagonisti, enorme successo a hanno ad esempio avuto i droni turchi Bayraktar e gli iraniani Shahed. E non solo nel teatro ucraino ma anche in conflitti come quello del Nagorno Karabakh dove gli ordigni sono stati decisivi per la superiorità delle forze azere. Lo ha confermato Eric Schmidt, intervenuto al AI+ Summit tenuto a Washington a fine novembre. «I successi ottenuti da Russia ed Ucraina dimostrano che le armi autonome sono destinate a sostituire carri armati, artiglieria e mortai», ha detto l’ex amministratore di Google, aggiungendo che le armi del futuro saranno «potenti piattaforme di software. Si tratta oltretutto di una tecnologia che difficilmente sarà limitata alle superpotenze, ma presagisce una proliferazione generalizzata stimolata dalla prospettiva di enormi profitti».

NELLA SILICON VALLEY viene attivamente promossa da fazioni accelerazioniste che respingono gli appelli alla cautela (o le moratorie, come quelle suggerite da luminari del settore, come Geoffrey Hinton) e adottano una versione potenzialmente letale del celebre motto Facebook sullo sviluppo tecnologico («move fast and break things»). In questo caso però si rischia di rompere molto di più che schemi mentali.

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