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ISRAELE/PALESTINA. Dalla Gran Bretagna all'Australia le lotte di sindacati e reti di attivismo anticoloniale si intrecciano. Con milioni di persone in piazza per Gaza, Londra continua nel sostegno armato a Tel Aviv

 

Dalla Dichiarazione Balfour del 1917 fino al recente rifiuto britannico di sostenere un cessate il fuoco e alla demonizzazione del Bds, le politiche di Westminster evidenziano il ruolo centrale che la Gran Bretagna continua ad assumere al fianco di Israele.

Ciò si è manifestato negli anni nella reticenza britannica nel sanzionare Israele per la sua continua ed espansiva costruzione di insediamenti in Cisgiordania, cresciuti significativamente dai tempi degli accordi di Oslo, portando alla presenza di oltre mezzo milione di coloni in aree che costituirebbero uno stato palestinese. Inoltre, si può osservare attraverso la costante fornitura di armamenti a Israele, con la conseguente complicità nel sostegno dei crimini di guerra israeliani.

IN TALE SCENARIO, il recente assalto su Gaza ha messo in luce due dimensioni fondamentali del colonialismo: da un lato, lo stretto legame tra guerra e commercio, e dall’altro, il carattere internazionale della lotta ai sistemi di oppressione che li sostengono. Effettivamente, forme di resistenza sempre più intersezionali stanno mostrando come forze coloniali e imperialiste continuino a minare gli ordini politici Indigeni a livello globale utilizzando strutture simili (colonialismo d’insediamento, apartheid), tattiche (potere di polizia militarizzato) e tecnologie di violenza per il furto di terre, espansione territoriale, estrazione di risorse, repressione e criminalizzazione della resistenza.

Tali forme di resistenza si impegnano a svelare la violenza intrinseca di operazioni logistiche apparentemente innocue e a bloccare la circolarità dell’infrastruttura coloniale globale in modo tale da interromperne la riproduzione e accelerazione.

In particolare, le vendite di armi in Gran Bretagna sono nuovamente al centro dell’attenzione a causa dell’implicazione dell’harware militare britannico nella perpetrazione del genocidio che si sta svolgendo in queste ore a Gaza. Dal momento in cui il governo conservatore è salito al potere nel maggio 2015, sono state autorizzate vendite di armi per un valore di 472 milioni di sterline alle forze di occupazione israeliane.

Queste includono componenti di vario tipo per apparecchiature militari come aerei, elicotteri, droni, ordigni esplosivi, missili, tecnologia militare, veicoli carrozzati, carri armati, munizioni e armi leggere. Tuttavia, il sistema di licenze che regola questi scambi manca intenzionalmente di trasparenza, il che significa che è difficile determinare esattamente quale sia il reale profitto delle merci negoziate.

Un esempio notevole dell’apporto britannico all’arsenale israeliano è rappresentato dagli aerei da caccia statunitensi F-35 attualmente utilizzati da Israele nell’offensiva a Gaza. Sebbene la legislazione britannica proibisca la concessione di licenze di esportazione di armi in presenza di un «rischio effettivo» di violazione del diritto umanitario internazionale, circa il 15% del valore totale di ciascun F-35 proviene da componenti prodotti in Gran Bretagna.

Delle oltre 400 aziende coinvolte nella catena di fornitura del F-35, ben 79 sarebbero infatti situate nel paese. Ad esempio, Leonardo, una multinazionale italiana con otto stabilimenti in Gran Bretagna, produce il sistema di puntamento laser per l’F-35 a Edimburgo, mentre Rolls-Royce, a Filton (Bristol), è responsabile della realizzazione del sistema di propulsione a ventola LiftSystem per lo stesso aereo. Dal 2003, equipaggiamenti di fabbricazione britannica si trovano anche nei caccia F-16I che costituiscono una delle principali componenti dell’aviazione israeliana impegnata nei bombardamenti su Gaza.

MA MENTRE istituzioni politiche e aziende britanniche continuano a offrire un sostegno incondizionato alla macchina da guerra israeliana, diverse centinaia di migliaia di persone hanno manifestato in molte città del Regno unito per esprimere la propria solidarietà al popolo palestinese, chiedendo un immediato cessate il fuoco, la fine dell’occupazione e lo smantellamento del progetto sionista in Palestina.

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Da ormai tre mesi, ogni sabato, Londra è teatro di imponenti manifestazioni, culminate l’11 novembre con la presenza di circa un milione di manifestanti che hanno marciato per le strade della capitale. In parallelo, centinaia di persone stanno agendo attivamente per ostacolare la produzione e il trasporto di armi verso Israele.

Rispondendo all’appello di oltre 30 sindacati e associazioni professionali palestinesi di porre fine al riarmo internazionale di Israele e alla complicità con i suoi crimini contro i palestinesi, sindacalisti e attivisti sono intervenuti in siti chiave di produzione e distribuzione di armi nel Regno Unito. Questa serie di azioni dirette ha incluso blocchi da parte di centinaia di sindacalisti presso BAE Systems a Rochester (Kent) e della Instro Precision Systems, una filiale della compagnia israeliana di armi Elbit. Nel frattempo, il gruppo di attivisti Palestine Action è intervenuto contro Leonardo a Edimburgo e presso la sede di Londra, nonché presso il Ministero degli Esteri, in concomitanza con il 106° anniversario della Dichiarazione Balfour.

In risposta dall’appello palestinese, si è registrato un incremento significativo di azioni sindacali anche in altri settori. I membri del sindacato Unite hanno redatto e inviato una lettera aperta alla direzione, mentre diverse sezioni sindacali stanno adottando risoluzioni in segno di solidarietà con la Palestina. Anche uno dei più grandi sindacati britannici, Unison, ha espresso il suo sostegno per un immediato cessate il fuoco, così come l’ Unione Nazionale Lavoratori Ferroviari, Marittimi e dei Trasporti (RMT) ha sollecitato la fine immediata delle ostilità su tutti i fronti, incluso l’assedio di Gaza.

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Parallelamente, studenti e docenti sia nelle scuole che nelle università continuano a manifestare il loro dissenso contro il supporto istituzionale fornito a Israele attraverso assemblee settimanali, proteste, sit-in, walk out, e partecipazione a scioperi internazionali. In particolare, l’Ucu, ovvero il principale sindacato universitario, ha adottato diverse risoluzioni in università come il King’s College London e l’University College London, sottolineando l’urgenza di un immediato cessate il fuoco, il disinvestimento da aziende coinvolte nella colonizzazione sionista della Palestina e la salvaguardia della libertà accademica, enfatizzando la necessità di proteggere studenti e docenti che sono stati soggetti a discriminazione e repressione istituzionale a causa della loro lotta a fianco del popolo palestinese.

MA GLI ATTACCHI all’infrastruttura logistica coloniale capitalista si stanno moltiplicando anche a livello globale. Oltre ai palestinesi, altri gruppi indigeni come i Coast Salish “Water Warriors” hanno fatto notizia per aver raggiunto le acque della tribù Puyallup a bordo della tradizionale canoa Nisqually, bloccando temporaneamente una nave militare statunitense con armi dirette a Israele vicino il porto di Tacoma, Washington.

Centinaia di manifestanti hanno anche bloccato il porto di Oakland (California) in diverse occasioni per opporsi al supporto statunitense ad Israele. Nel Missouri, gli attivisti hanno assediato la fabbrica Boeing, produttrice di munizioni di precisione utilizzate dall’aviazione israeliana durante le operazioni militari a Gaza. Boeing si configura come una delle aziende con maggiore coinvolgimento nell’assalto genocida a Gaza, avendo esportato ben 2,8 miliardi di dollari nell’industria militare verso Israele dal 2000.

Allo stesso tempo, anche fabbriche e porti in Italia, Spagna, Australia, sono stati frequentemente oggetto di blocchi da parte di sindacalisti, in segno di solidarietà con la causa palestinese. Ad esempio, il comitato sindacale autonomo SI Cobas ha dichiarato di opporsi e boicottare la «spedizione di armi a Israele di cui vengano a conoscenza», ribadendo che la «giusta soluzione della questione palestinese […] potrà venire solo dalla lotta comune dei lavoratori del Medio Oriente, di tutte le etnie e religioni, con il sostegno dei lavoratori di tutto il mondo».

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COME sottolinea la geografa Deborah Cowen, in queste lotte contro la logistica, i vecchi nemici dell’impero, ovvero «pirati, comunità indigene, disertori e ribelli» sono tra i gruppi che oggi pongono la sfida più significativa alla sicurezza della circolazione globale.

L’importanza delle loro azioni risiede nel rivelare che nonostante l’infrastruttura coloniale capitalista si presenti come una struttura coesa ed impenetrabile nell’intento di scoraggiare la lotta stessa, la sua vera natura è costituita da una rete fragile di connessioni fluide e suscettibili di cedimento, che può essere effettivamente disarticolata e smantellata attraverso l’azione collettiva. È probabilmente proprio attraverso la solidarietà internazionale di tali gruppi e il legame imprescindibile delle loro lotte che un nuovo futuro decoloniale può essere davvero costruito

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«Bisogna evitare l’esportazione di armi verso i conflitti, in particolare ad Israele. Non si può rischiare che vengano utilizzate per crimini di guerra». Schlein con una sterzata coraggiosa spezza la quiete del ritiro campestre del Pd. Ma gli avversari l’attaccano e il suo partito tace

L'HA DETTO. La segretaria Pd da Gubbio: «Non alimentiamo il rischio di crimini di guerra». Destra e renziani attaccano: «Parole da estremista»

 Elly Schlein a Gubbio - Lapresse

Elly Schlein arriva a Gubbio, al conclave dei gruppi parlamentari del Pd, e non si sottrae di fronte alle questioni più urgenti. A partire dalla guerra a Gaza. «Dobbiamo porci la questione di evitare di alimentare questi conflitti – dice di fronte ai gruppi nella sala del resort dei Cappuccini – Bisogna evitare l’invio di armi e l’esportazione di armi verso i conflitti, verso il conflitto in Medio oriente, in particolare in questo caso ad Israele. Perché non si può rischiare che le armi vengano utilizzate per commettere quelli che si possano configurare come crimini di guerra». Sono parole che segnano un passaggio, anche in vista delle elezioni europee e di una partita che si giocherà sui temi della guerra e della pace.

SCHLEIN COLLOCA in questo modo la sua posizione in relazione alla votazione sulla risoluzione Ue sul conflitto e dentro lo schema del Partito socialista europeo, che l’uno e due marzo prossimi terrà proprio a Roma il suo congresso elettorale per scegliere lo spitzenkandidat. «Sulla pace l’Europa deve dare il suo contributo altrimenti sarà condannata all’irrilevanza – dice la segretaria ai suoi – Il cessate il fuoco è la condizione per riuscire a liberare i prigionieri di Hamas, avviare un percorso che porti a una soluzione due popoli e due stati. Peccato che i popolari in Europa abbiamo reso impossibile quel cessate il fuoco con un emendamento che contiene condizioni impossibili da realizzare. Per noi il cessate il fuoco deve essere immediato, lo diciamo da ottobre». E non è un caso che i primi a reagire sono i renziani. Raffaella Paita dice che «forse la segretaria ha dimenticato di essere a capo di quello che un tempo era un grande partito riformista e atlantista». Per la deputata di Iv, la segretaria dem «ha confuso il Pd con un’assemblea di un centro sociale occupato». Il capogruppo renziano (eletto col Pd) Enrico Borghi dice che in questo modo «si

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LA SENTENZA. «Da punire solo se si punta alla ricostituzione del partito fascista» Esulta la destra estrema: «Fine delle polemiche su Acca Larentia»

La Cassazione sul saluto romano: reato, ma non sempre

 

Il saluto romano è reato. Ma solo se accompagnato dalla volontà di ricostituire il disciolto partito fascista. Così ha deciso la Cassazione a sezioni riunite, in quella che (in astratto) dovrebbe essere la parola fine sulla vicenda. I giudici erano stati chiamati a esprimersi sul caso di otto militanti di estrema destra condannati in primo e in secondo grado per aver fatto il saluto romano nell’aprile del 2016 durante la tradizionale commemorazione di Sergio Ramelli, Carlo Borsani ed Enrico Pedenovi. Adesso gli otto dovranno tornare in Appello e la Corte che dovrà chiarire «se dai fatti accertati sia conseguita la sussistenza del concreto pericolo di riorganizzazione del disciolto partito fascista».

In mattinata il pg aveva sostenuto la tesi che il saluto fascista può essere reato se costituisce un pericolo per l’ordine pubblico, ma poi le sezioni unite sono andate oltre: la «chiamata del presente» e «il saluto romano» rientrano nella legge Scelba «ove, avuto riguardo a tutte le circostanze del caso» siano idonei «a integrare il concreto pericolo di riorganizzazione del disciolto partito fascista, vietata dalla XII disposizione transitoria e finale della Costituzione».
Solo «a determinate condizioni» ci si può appellare alla legge Mancino, quella che «vieta il compimento di manifestazioni esteriori proprie o usuali di organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi che hanno tra i propri scopi l’incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi».

Di fatto la Cassazione sembrerebbe consolidare il suo orientamento storico sulle manifestazioni neofasciste, prediligendo la legge Scelba rispoetto alla legge Mancino. È una questione di concretezza: la prima si riferisce a questioni dimostrabili (anche se difficili) come il tentativo di rimettere in piedi il Pnf, mentre la seconda è più generica e discrezionale perché riguarda i

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Condannati per il blocco stradale i militanti bolognesi di Ultima generazione, solo a sei mesi e con la sospensione della pena perché hanno agito «per motivi di ordine morale e sociale». Ma la destra approva una nuova legge durissima: carcere e multe contro i manifestanti

QUESTIONE MORALE. La Camera approva il ddl Sangiuliano «in difesa dei monumenti». Le opposizioni protestano: «Colpiscono il diritto di manifestare». La maggioranza esulta: «Chi imbratta paga». In gioco c’è il rapporto tra democrazia e dissenso

Questione morale

La Camera ha approvato con 138 voti a favore, 92 contrari e 10 astenuti il disegno di legge proposto dal ministro della cultura Gennaro Sangiuliano riguardante «Disposizioni sanzionatorie in materia di distruzione, dispersione, deterioramento, deturpamento, imbrattamento e uso illecito di beni culturali o paesaggistici». Si tratta del provvedimento annunciato fin dalla scorsa primavera e pensato per inasprire le pene contro gli attivisti per il clima e le loro azioni, simboliche. Proteste, forse per la prima volta nella storia recente, del tutto nonviolente, che si svolgono proprio davanti a pezzi emblematici del patrimonio storico.

IL TESTO DISPONE, tra le varie misure, sanzioni amministrative, a seconda della gravità della fattispecie, che vanno da un minimo di 10.000 ad un massimo di 60.000 euro. Non si passerà, dunque, da un dibattimento: basta che il prefetto raccolga le segnalazioni delle forze dell’ordine per comminare la sanzione. Sangiuliano, al solito, ci ha tenuto a infarcire il dibattito a Montecitorio con citazioni autorevoli ritagliate alla bisogna e conclusioni politiche arbitrarie. Eccone una che disegna un nesso pindarico tra gesti di protesta, patriottismo e ambiente: «I monumenti sono diventati parte di quello che Benedetto Croce definiva ‘paesaggio, volto amato della patria – azzarda il ministro – Quindi chi danneggia i monumenti in nome della tutela dell’ambiente danneggia anche l’ambiente stesso». Nel ddl è stata inserita anche l’aggravante, che raddoppia le pene, per chi compie l’illecito durante manifestazioni che si svolgono in luogo pubblico. Dunque, rischia da uno a cinque anni di carcere «chiunque distrugga, disperda, deteriori o renda, in tutto o in parte, inservibili beni mobili o immobili durante manifestazioni pubbliche».

CHE IL MIRINO dell’esecutivo fosse puntato contro i movimenti ambientalisti e che la difesa del patrimonio fosse un comodo espediente è apparso ancora più evidente quando sono stati rifiutati gli emendamenti proposti dall’opposizione. Come quello avrebbe portato a diecimila euro la sanzione per chi distrugge l’ambiente costruendo manufatti abusivi ed ecomostri. Il portavoce di Europa Verde Angelo Bonelli ne ha presentato uno (anch’esso respinto) che avrebbe previsto inasprimenti delle pene per i pubblici ufficiali responsabili di danneggiamento del patrimonio. Adesso ricorda come il governo non sia «credibile» dal momento che «ha devastato il territorio e il paese tutto con continui e dannosi condoni». Durissimo anche Nicola Fratoianni, secondo il quale «neanche nella legislazione speciale degli anni Settanta sono successe cose come queste». Il segretario di Sinistra italiana sottolinea che il testo approvato va si muove su un crinale delicato, dal momento che «la relazione tra democrazia e conflitto testimonia dello stato di salute della democrazia».

ANCHE PER Andrea Orlando, ex ministro della giustizia, in ballo c’è il rapporto tra espressione del dissenso e potere politico: «L’utilizzo del diritto penale come elemento simbolico produce diritto penale irrazionale – sostiene il deputato del Partito democratico – Per cui a comportamenti tra loro diversi si applicano pene uguali, spingendo, alla fine, verso comportamenti che sono di più grave allarme sociale». «La strada che persegue questo governo è chiara: mentre non si fa nulla se non danni per il futuro del paese, nel frattempo vogliono reprimere il dissenso e la protesta» conviene il capogruppo del Movimento 5 Stelle in commissione cultura Antonio Caso intervenendo nel dibattito in aula.

LA POLEMICA delle opposizioni si è scatenata soprattutto sulla tolleranza zero a senso unico: manica larga per gli esponenti del governo finiti nell’occhio del ciclone (e spesso sotto indagine) nelle ultime settimane e pugno di ferro verso i giovani attivisti, che dalle parti della destra sono stati ribattezzati «eco-vandali». «Dopo i ragazzi dei rave party, le Ong che salvano vite umane in mare questa volta, nel mirino delle destre, ci sono le ragazze e i ragazzi di Ultima Generazione, accusati di ‘violenza’ per i blocchi stradali e di danneggiare i beni culturali quando, in realtà, nessun monumento è stato oggetto di danni permanenti» osserva la deputata dem Laura Boldrini. «Siamo passati dalla stagione di Dossetti in cui parlava di diritto alla resistenza civile e di democrazia, a parlare di vernice lavabile e di punizioni» sostiene il suo collega Gianni Cuperlo.

IL CHE FA CAPIRE come le azioni di protesta a difesa del clima di questi mesi siano riuscite a bucare l’iniziale ostilità proveniente da larghissima parte del mondo politico, quando qualche secchiata di materiale colorato del tutto innocuo bastava per lanciare l’ennesima emergenza bipartisan o (nel migliore dei casi) produrre tirate paternalistiche sulle forme di lotta accettabili

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PALESTINA. Accordo per l’ingresso di medicinali. Il premier israeliano: «La guerra continua». A Gaza colpito l’ospedale da campo giordano. Unrwa: «La Striscia non sa più immaginare il proprio futuro»

 Palestinesi in fila per un pasto gratuito a Rafah, nella Striscia di Gaza - Ap/Fatima Shbair

«Non riescono a immaginare come continueranno a crescere i propri figli in un ambiente simile. Hanno difficoltà a progettare il futuro». Della scomparsa della speranza per le strade di Gaza ha provato a dare un’idea ieri Philippe Lazzarini, commissario generale dell’Unrwa, l’agenzia Onu per i rifugiati palestinesi.

Lazzarini ha visitato per la quarta volta la Striscia in tre mesi e mezzo di conflitto mentre Gaza viveva il suo più lungo blackout di comunicazione: le linee telefoniche e internet sono ferme dal 12 gennaio, mai i precedenti erano stati così lunghi. I giornalisti palestinesi comunicano solo con i satellitari.

MENTRE Lazzarini proseguiva nella visita, dal valico di Rafah iniziavano ad entrare i pacchi di medicine frutto dell’accordo raggiunto martedì sera tra Hamas e Israele con la mediazione del Qatar e della Francia: medicinali diretti agli ostaggi israeliani, circa 130, ancora nella Striscia e alla popolazione gazawi.

Ieri due aerei qatarini sono arrivati in Sinai, il contenuto ha poi preso la strada di Rafah dove sono stati sottoposti ai controlli israeliani. Secondo Hamas, l’accordo prevedrebbe una scatola di medicine da consegnare agli ostaggi ogni mille scatole ai civili palestinesi. Della distribuzione si occuperà la Croce rossa.

Si spera così di alleviare, almeno in minima parte, la crisi umanitaria che vivono 2,3 milioni di persone. Ieri la Giordania ha fatto sapere che il proprio ospedale da campo a Khan Yunis, nel sud di Gaza, è stato danneggiato dall’esplosione di missili israeliani nelle sue prossimità, ma continuerà a lavorare. Un palestinesi in terapia intensiva sarebbe rimasto ferito.

È qua, a Khan Yunis, linea del fronte da settimane, che cresce la preoccupazione per le condizioni umanitarie: affollata di persone fuggite dal nord e dal centro, con pochissime strutture mediche funzionanti, rischia un destino simile a quello del nord, con devastazioni fisiche immani (ieri il Palestine Investment Fund parlava di 15 miliardi di dollari necessari a ricostruire solo le abitazioni private) e infrastrutture civili collassate.

Pure i cimiteri: ieri da Khan Yunis hanno denunciato con alcuni video il passaggio di bulldozer israeliani su un cimitero, come accaduto in precedenza. Testimoni parlano anche di corpi portati via, ma non è possibile verificare l’accusa. Proseguono gli scontri a terra: ieri altri tre soldati israeliani sono stati uccisi (193 dall’inizio dell’offensiva via terra, a fine ottobre).

SUL FRONTE israeliano la situazione politica resta incandescente. Ieri l’Association for Civil Rights in Israel, formata da gruppi ebrei e palestinesi, ha fatto un nuovo appello alla Corte suprema perché dia il via libera a una protesta contro la guerra ad Haifa.

L’Acri chiede il cessate il fuoco, il rilascio dei prigionieri e una soluzione politica, una richiesta di presidio che finora la polizia ha già vietato tre volte. È capitato a tante realtà e chi ha sfidato i divieti – l’ultima volta sabato scorso – è stato caricato dagli agenti e arrestato. Dopotutto, dice il governo, c’è la guerra. Lo ha ribadito ieri il premier Netanyahu: «La guerra continuerà fino alla fine e al raggiungimento dei nostri obiettivi. Che nessuno ci giudichi male. Continueremo a combattere fino alla vittoria totale».

***

«Assalì un agente»: Cassif incriminato

Ofer Cassif, il deputato ebreo comunista del partito Hadash, ieri è stato incriminato per aggressione a pubblico ufficiale. Il caso risale al maggio 2022. Cassif partecipò a una protesta a Masafer Yatta, regione nel sud della Cisgiordania da anni minacciata di sgombero. Secondo l’accusa, Cassif avrebbe colpito, a bassissima velocità, con la sua auto un poliziotto che, con i colleghi, aveva chiuso la strada al traffico per impedire la protesta. Poi Cassif sarebbe sceso e lo avrebbe colpito al volto. Secondo Cassif, è stata la polizia a minacciarlo di violenza e a impedirgli il passaggio violando la sua immunità parlamentare.

Ieri il deputato ha parlato di «persecuzione politica e violenza di polizia». È già a rischio di espulsione dalla Knesset per aver firmato, con altri 200 israeliani, una lettera di sostegno alla causa sudafricana all’Aja.

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ORIENTE. Il Pakistan ha reagito prevedibilmente con durezza alla «violazione palese e immotivata della sua sovranità da parte dell’Iran», bollata come schiaffo al diritto internazionale e alla Carta dei principi Onu. […]

I due target dell’Iran: i salafiti «indipendentisti» e l’alleanza (debole) con Washington Il ministro degli esteri iraniano Amirabdollahian a Davos - Ap

Il Pakistan ha reagito prevedibilmente con durezza alla «violazione palese e immotivata della sua sovranità da parte dell’Iran», bollata come schiaffo al diritto internazionale e alla Carta dei principi Onu. E ha deciso di richiamare il suo ambasciatore e sospendere tutte le visite ad alto livello in corso o pianificate tra i due paesi a seguito di un atto «illegale del tutto inaccettabile» cui Islamabad «si riserva il diritto di rispondere» come è scritto in un messaggio inviato a Teheran, «responsabile delle conseguenze» di quanto potrebbe accadere.

La scusa ufficiale iraniana è che era necessario colpire e neutralizzare «due roccaforti chiave del gruppo terroristico Jaysh al-Dhulm (Jaish al-Adl) in Pakistan…prese di mira e demolite con successo da una combinazione di attacchi missilistici e droni», spiega l’agenzia di stampa Tasnim.

L’ATTACCO sarebbe la risposta alla morte di diversi membri delle forze dell’ordine iraniane e a un attacco alla città di Rask (Sistan-Belucistan iraniano) di cui sarebbe responsabile il gruppo sunnita. Ma in passato Iran e Pakistan hanno collaborato sul dossier, benché Teheran ritenga Islamabad responsabile di offrire un rifugio sicuro ai terroristi separatisti di Jaysh al-Dhulm, una delle varie sigle jihadiste originate dallo storico gruppo Jundullah (il cui capo Abdolmalek Rigi è stato ucciso in Iran nel 2010) che godrebbe anche di appoggi sauditi. L’organizzazione salafita vorrebbe l’indipendenza di un’area dell’Iran abitata da sunniti ed è una spina al fianco di Teheran. Ma mai si era arrivati a tanto.

L’attacco iraniano nel Belucistan pachistano, oltre a mostrare i muscoli, non sembra però un’azione improvvisata che scuote un Paese attraversato da turbolenze e violenze politiche mentre è in carica un governo a interim che sta preparando le elezioni di febbraio.

Nonostante i rapporti tra i due paesi siano sempre stati tesi, dare la stura a una reazione imprevedibile in questo frangente sembra piuttosto un piano ben preciso per dare fastidio non tanto al Pakistan quanto a uno dei suoi alleati maggiori: gli Stati uniti. Paese con cui Islamabad ha una relazione controversa da sempre (Islamabad autorizzò le basi per colpire l’Afghanistan ma ospitò Bin Laden e fornì rifugio ai Talebani) ma che ultimamente, con la cacciata di Imran Khan dall’agone politico (è in carcere e non potrà presentarsi candidato né i suoi accoliti potranno utilizzare lo stemma del suo partito), è tornato in auge.

SE LA STRATEGIA è punire i nemici nei paesi limitrofi ma anche le alleanze più o meno forti con Washington, colpire il Belucistan assesta un colpo a chi ha scelto di allearsi con un impero già in difficoltà in Siria e in Iraq e sul filo del rasoio nei suoi rapporti con Islamabad.

Il problema è che la Terra dei Puri è un paese con la bomba atomica, governato da una casta militare che manovra il potere politico e attraversa un momento di lucida paranoia dal momento che i suoi rapporti con altri due vicini – India e Afghanistan – sono particolarmente tesi. Se il piano è creare scompiglio tra gli attori regionali mediorientali fino al subcontinente indiano, allargando i vari fronti che circondano l’incendio di Gaza, il colpo è riuscito ma con quali conseguenze?

Con la messa fuori gioco di Khan, il cricketer prestato alla politica che gode di vasti consensi ma è rinchiuso con accuse pesantissime, i rapporti tra Pakistan e Russia si sono incrinati mentre si è rafforzata l’asse con Washington, accusata da Imran di essere dietro alla sua destituzione. Scelta che ovviamente a Teheran non è piaciuta. La Cina? Sta a guardare e chiede «moderazione»

 
 
 
 
 
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