CENTROSINISTRA. Le mosse e gli equilibri interni del Partito democratico
Elly Schlein e Stefano Bonaccini - Lapresse
Mentre prosegue il confronto con il Movimento 5 Stelle su alleanze e alternativa alla destra, il Partito democratico è preso dalla partita sulle candidature per le elezioni europee di giugno. Elly Schlein non ha ancora sciolto la riserva sulla sua presenza come capolista: da una parte significherebbe ribadire la leadership e personalizzare la contesa, dall’altra, per via delle regole sulla preferenza di genere, finirebbe per togliere spazio ad altre donne.
C’è anche da capire come si muoverà il presidente della Regione Emilia Romagna Stefano Bonaccini, visto che la possibilità che la legge gli conceda un terzo mandato al momento pare esclusa. Bonaccini ha sempre detto di considerarsi «a disposizione del partito», ma ciò non significa soltanto che è pronto a correre per le europee: dal Nazareno trapela anche l’’ipotesi di un seggio nel parlamento italiano, che potrebbe essere aperta dalla candidatura in Europa dell’ex sindaco di Bologna Virginio Merola. Cresce l’attesa su altri nomi di peso, come quelli di Antonio Decaro e Nicola Zingaretti che in alcuni scenari viene addirittura tenuto «in caldo» per raccogliere il testimone da Roberto Gualtieri come sindaco di Roma.
Bonaccini, intanto, ha riunito i suoi e ha già lanciato i prossimi eventi della sua corrente Energia popolare. Dopo le due convention dell’ultimo anno, a Cesena e Firenze, si lavora per arrivare, entro un paio di mesi, al sud, probabilmente verrà scelta Napoli, e al nord, dove si valuta l’opzione Milano
Commenta (0 Commenti)Rafah ultima frontiera dell’offensiva israeliana. Un milione e mezzo di profughi nella città più a sud di Gaza si ritrovano schiacciati tra i carri armati ormai alle porte e la barriera invalicabile con l’Egitto. Netanyahu tira dritto con la guerra e oggi si gode la «Marcia della vittoria»
GAZA. Rafah attende l'inizio dell'attacco israeliano. Altri cento morti palestinesi nei bombardamenti
È una corsa contro il tempo a Rafah. I bombardamenti si fanno più intensi e l’arrivo dei carri armati israeliani potrebbe essere una questione di ore. Ieri mattina 14 persone – tra cui donne e bambini – sono state uccise in un attacco aereo su una casa alla periferia della città. Altre quattro sono state uccise a Deir Al-Balah. Altri due membri delle unità di soccorso della Mezzaluna Rossa sono stati sepolti: erano stati uccisi nei giorni scorsi da spari dell’esercito a Khan Yunis, come la loro collega Hidaya Hamad, colpita mentre era nel quartier generale dell’organizzazione. A Khan Yunis gli artificieri dell’esercito israeliano hanno fatto saltare in aria e polverizzato un intero quartiere residenziale abbandonato dai suoi abitanti.
Sebbene stiano concentrando la loro azione nel sud, le truppe israeliane compiono raid anche nel nord della Striscia, in particolare nella parte occidentale del capoluogo Gaza city dove, secondo quanto affermano i comandi israeliani, non vi sarebbe più presenza di militanti di Hamas, Jihad e altre organizzazioni da settimane. Gli scontri a fuoco in quell’area ieri sono stati di una intensità che non si registrava da settimane. Israele sostiene di aver ucciso altre decine di combattenti palestinesi e di aver distrutto lanciamissili anticarro, ma fonti sanitarie riferiscono anche di due civili colpiti da cecchini. I soldati hanno anche arrestato diverse persone a Tel Al-Hawa. Con comunicati separati Hamas, Jihad e altri gruppi armati ribadiscono di aver impegnato anche negli ultimi giorni i soldati nemici in violenti scontri a fuoco. «Più le forze di occupazione rimarranno sul posto, più le raggiungeremo. Un martire cade, un altro si alza e prende il fucile, siamo pronti a combattere per molti mesi». I morti a Gaza tra venerdì e sabato sono stati 107 e il totale dei palestinesi uccisi dal 7 ottobre è salito a 27.238.
La fuga dei civili verso ovest, verso la costa e l’area agricola dei Mawasi non si arresta. Una fiumana di persone si allontana dall’ultimo rifugio che credeva sicuro, Rafah, e ora rischia di trasformarsi in una trappola. Si sono messe in marcia ieri decine di famiglie, presto saranno
Commenta (0 Commenti)Dopo le polemiche causate dalla presentazione on line del Liceo Torricelli-Ballardini di Faenza, da alcuni ritenuta di ispirazione classista, dopo le vicende del Liceo romano “Tasso” seguite all’occupazione della scuola, un nuovo caso investe il mondo dell’istruzione costringendoci a riflettere su qual è il clima che si respira nella scuola italiana dopo l’avvento del nuovo ministero del “merito”.
Uno studente, che è anche rappresentante d’istituto, è stato sospeso per 12 giorni per aver rilasciato, nel novembre scorso, un’intervista alla Gazzetta di Modena (quotidiano locale). Frequenta attualmente l’ultimo anno dell’Istituto tecnico Barozzi e nel corso di uno sciopero, attraverso l’intervista, aveva criticato la dirigente scolastica facendosi portavoce di alcune richieste che la stampa riferisce riguardare i viaggi d’istruzione, le ore di studio delle lingue straniere (troppo poche) e la mancanza di distributori automatici.
Il ragazzo ha dichiarato: “Ho riflettuto molto su quello che ho detto quel giorno, ne ho parlato con i miei genitori, con l’avvocato. Credo di aver riportato fatti realmente accaduti e penso di avere avuto ragione e di aver detto la verità. Quindi non c’è nulla che non ridirei,[…] i miei professori capiscono la mia situazione e cercano di aiutarmi e supportarmi. I miei compagni mi stanno dimostrando anche una grande amicizia e affetto. Questa è una delle motivazioni che mi porta a battermi per la verità a testa alta”
L’Unione degli universitari di Modena ha emesso un comunicato nel quale sostiene che “La natura intimidatoria di tale provvedimento racchiude in sé un messaggio molto pericoloso, mettendo in discussione il diritto alla libertà di espressione che tanto l’Università, quanto la Scuola pubblica di ogni ordine e grado devono senza alcun limite garantire ai membri della Componente Studentesca” […] “Tutte le studentesse e tutti gli studenti, nella fattispecie quando ricoprono ruoli di rappresentanza di stampo politico e non, hanno il pieno diritto di esprimere le proprie opinioni, di manifestare e di essere ascoltati senza il rischio di subire provvedimenti punitivi come quello in oggetto”.
In seguito a queste notizie Alleanza verdi e sinistra (AVS) ha presentato in parlamento un’interrogazione al ministro Valditara per avere informazioni su questo episodio. Anche Pd e M5s hanno avanzato interrogazioni. Il ministro ha attivato gli apparati ministeriali che hanno risposto ieri in modo interlocutorio: “[…]su richiesta del Ministro dell’Istruzione e del Merito Giuseppe Valditara, il dipartimento Istruzione del Ministero ha assunto informazioni dall’ufficio scolastico regionale per l’Emilia-Romagna circa l’irrogazione della sanzione. Alla luce delle verifiche fatte, la sanzione della sospensione di 12 giorni risulta essere stata comminata allo studente a larga maggioranza dal Consiglio d’istituto, organo rappresentativo di tutte le componenti scolastiche. Qualora lo studente si ritenesse leso nei suoi diritti potrà appellarsi all’organo di garanzia istituito presso l’Ufficio scolastico regionale, che provvederà a valutare la conformità della sanzione al regolamento d’istituto e la correttezza della procedura”.
Ma al ministro del “merito” chiediamo: qui è in ballo o no il diritto alla libertà di espressione?
Commenta (0 Commenti)Calderoli lancia una nuova «porcata», all’altezza della sua celebre legge elettorale. Per mettere d’accordo la maggioranza sulla riforma Casellati, inventa una differenza tra i voti di fiducia al premier. Insostenibile al punto da imbarazzare i tecnici di governo. E il Quirinale
RIFORME. L’ultima invenzione del leghista alla prova dei leader: serve a unire la destra, ma è folle. «Sfiducia con mozione motivata» e «sfiducia su una singola norma», la differenza creativa. L’accordo pensato per condizionare il potere della capa eletta con quello della coalizione
I banchi vuoti del governo al Senato - LaPresse
Il presidente Sergio Mattarella, prima di essere prestato alla politica dopo l’uccisione del fratello Santi, era un professore di diritto parlamentare. Chissà se la maggioranza gli risparmierà il calice di dover leggere una riforma costituzionale che contraddice la Costituzione e tutti i manuali di diritto parlamentare. Ad oggi il rischio è altissimo. Infatti l’accordo nel centrodestra sugli emendamenti al premierato, che dovrà essere esaminato dai leader, si basa su una proposta della Lega che è un unicum in tutti le Repubbliche parlamentari: addirittura più unicum dell’elezione diretta del premier. Non a caso i giuristi consulenti del ministero delle Riforme stanno sollevando «perplessità», come eufemisticamente trapela.
Com’è noto il nodo del contendere nella coalizione riguarda i poteri del premier eletto dal popolo. Nel testo originario del disegno di legge Casellati, i suoi poteri non erano aumentati rispetto a quelli attuali: addirittura ne aveva di più il «premier di riserva», vale a dire chi gli subentrava in caso di caduta. Questi aveva il potere di minacciare lo scioglimento anticipato delle camere, non il premier eletto, il cui solo potere era il mandato popolare stesso. Fratelli d’Italia chiedeva dunque di estendere al premier eletto la stessa prerogativa, vale a dire la possibilità, in caso di sfiducia, di chiedere le elezioni anticipate al presidente della Repubblica: in sostanza il famoso simul stabunt, simul cadent. Una soluzione che né a Lega né a Forza Italia piace; i due junior partner di Meloni chiedono un bilanciamento tra i poteri del premier eletto e quelli dei partiti della coalizione che lo hanno sostenuto alle urne. In fin dei conti, lui (o lei) ha vinto proprio grazie alla coalizione.
E qui entra in campo Roberto Calderoli, l’inventore del sistema elettorale da lui stesso definito «Porcellum», bocciato dalla Corte costituzionale nel 2014. Ed ecco la sua mediazione: distinguere tra fiducia e fiducia. In barba ai manuali di diritto costituzionale e di diritto parlamentare, per i quali un governo deve avere la fiducia delle camere, che se viene revocata fa cadere il governo stesso. Se dunque – dixit Calderoli – il governo viene sfiduciato con «una mozione motivata», allora il premier può chiedere lo scioglimento delle camere al capo dello Stato «che emana il conseguente decreto». Ma se non gli viene accordata la fiducia che egli pone su un provvedimento o su una singola norma, allora deve dimettersi lui (in quanto sfiduciato) ma non può chiedere urne anticipate. La logica è tutta interna alla coalizione di centrodestra, o meglio di destracentro. Meloni vuole l’elezione diretta del premier, e l’avrà, per la sua propaganda, ma non può pensare a puntare a un futuro mandato plebiscitario per se stessa che le consenta di essere la «domina» assoluta della politica: conta anche la coalizione, che anzi è un bilanciamento del parlamento rispetto al governo. La logica è stata accettata da Fratelli d’Italia, con l’eccezione di Marcello Pera che anche ieri ha sparato a palle incatenate con l’agenzia Adn Kronos contro l’accordo.
Il punto è che la fiducia o c’è o non c’è. Il governo, nelle Repubbliche parlamentari, si basa sul rapporto fiduciario tra esecutivo e parlamento: o fiducia o sfiducia. Non esistono novantanove sfumature di grigio. I costituzionalisti consulenti del governo lo hanno spiegato sia a voce che per iscritto. A questo punto l’atteso vertice tra i tre leader Meloni, Salvini e Tajani – che potrebbe svolgersi proprio oggi -, non dovrebbe dare solo la «bollinatura» all’accordo, in vista degli emendamenti da presentare lunedì. Dovrebbe anche prendere una decisione più grave. Dare il via libera a qualcosa che tutti e tre sanno essere costituzionalmente insostenibile. E preparare un calice colmo di fiele per Sergio Mattarella
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RIFORME. Il Carroccio si mette di traverso, obiettivo rovinare la festa alla premier Meloni. Ma non mancano le incoerenze nel testo uscito dalla riunione dei capigruppo. La bozza passa ora ai tre leader
I cronisti che in Senato hanno seguito il nuovo incontro sul premierato dei capigruppo di maggioranza, hanno raccontato di non essersi dovuti accostare alla porta della Commissione Affari costituzionale per origliare quanto accadeva. Il tono alto e concitato della voce del capogruppo della Lega Massimiliano Romeo era tale da indurre i giornalisti a sospettare che lo abbia fatto apposta per farsi sentire da loro. Al termine della riunione, infatti – sempre nel racconto dei presenti – Romeo, ridacchiando, è sgattaiolato via lasciando l’onere di una dichiarazione ufficiale al presidente della Commissione, e relatore al premierato, Alberto Balboni. Parla lui per tutti, ha detto Romeo.
«Abbiamo raggiunto un accordo all’unanimità», ha esordito Balboni, salvo poi precisare l’oggetto dell’intesa: quella di «sottoporre ai leader la nostra proposta». La ministra Maria Elisabetta Casellati ha parlato di una «bozza» di proposta, mentre il ministro per i rapporti con il Parlamento Luca Ciriani è stato ancora più minimalista: serve la «validazione» dei leader prima di parlare di accordo e trasformarlo in emendamenti. Qual è dunque l’oggetto del contendere che ha indotto Romeo a mettersi di traverso e a parlare a voce alta, nonostante Maurizio Gasparri e Lucio Malan gli chiedessero di abbassare il volume?
Dentro il partito di Meloni il timore/sospetto è che l’alzata di scudi della Lega su un paio di punti del premierato dipenda più dalla volontà di Matteo Salvini in questa fase di fare il controcanto alla premier su tutto. Questa lettura ha messo in agitazione Fdi anche per un altro aspetto: il termine per gli emendamenti è fissato a lunedì prossimo alle 12, il tempo per un vertice di maggioranza è poco, visti anche gli impegni di Meloni (sabato a Catania, domenica in partenza per il Giappone). Se Salvini dovesse tergiversare per il suo sì, o anche dovesse far slittare il vertice, la stessa sorte toccherebbe al termine per gli emendamenti, che Balboni dovrebbe spostare più in là, per la terza volta. Niente di drammatico, ma una macchia nell’immagina della premier, che rimarrebbe molto seccata.
Su cosa dunque Romeo ha fatto ballare i colleghi del centrodestra? In poche parole i poteri del premier eletto rispetto ai partiti della sua coalizione. Casellati, su mandato dei capigruppo ricevuto mercoledì, si è presentata ieri con una bozza, su cui Romeo ha esclamato «era meglio la versione originaria» del ddl Casellati. In questo il ddl eletto dal popolo deve comunque ricevere la fiducia al suo governo, il che implica il potere di contrattazione dei partiti nella formazione dell’esecutivo. Nella nuova bozza il premier può essere sostituito da un esponente della sua coalizione in caso di «impedimento permanente, morte, decadenza o dimissioni volontaria», vale a dire in caso di crisi della popolarità del Presidente del Consiglio ma non della maggioranza che vuole proseguire la legislatura.
Quello che non va alla Lega è l’aumentato potere del premier eletto di cadere in Parlamento «mediante mozione motivata» di sfiducia. In questo caso egli «entro sette giorni rassegna le dimissioni, ovvero propone lo scioglimento delle Camere al Presidente della Repubblica che emana il conseguente decreto». Questo «emana» non è piaciuto, vale a dire l’automatismo tra la richiesta del premier e il successivo atto del Capo dello Stato. Insomma, l’equilibrio tra premier eletto e la coalizione si sbilancia troppo a favore del primo. E non importa se sulla carta la riforma si giustifica proprio per far durare il Presidente del Consiglio per tutta la legislatura. Anche perché sono tali le incoerenze di sistema dell’elezione diretta del premier, che una in più o in meno cambia poco.
Tra le incoerenze vi è quella che riguarda i poteri di scioglimento delle Camere del Presidente della Repubblica. L’articolo 88 della Costituzione, sul semestre bianco, che non veniva toccato dal ddl Caselalti, avrebbe potuto mandare in tilt l’arzigogolato meccanismo della riforma. Questo articolo impedisce al Capo dello Stato di sciogliere le Camere durante gli ultimi sei mesi del suo mandato, tranne in caso di fine legislatura. Quindi se in questi sei mesi accadesse uno degli eventi, sia del ddl Casellati che della nuova bozza, che portano allo scioglimento automatico anticipato delle Camere, si arriverebbe a un impasse istituzionale. Gli uffici della ministra Casellati se ne sono accorti ora, inserendo nella bozza anche la possibilità di tale tipo di scioglimento durante il semestre bianco
Commenta (0 Commenti)IL LIMITE IGNOTO. La guerra costa dieci miliardi al mese. Tra agosto 2022 e 2023 i fondi stanziati dai Paesi europei per l’Ucraina sono diminuiti del 90%
Kiev, delle donne acquistano mandarini al mercato - Evgen Kotenko
L’Ucraina esulta e aspetta di ricevere i primi fondi stanziati dai Paesi dell’Ue. Dopo la decisione di ieri che ha ratificato all’unanimità lo stanziamento di 50 miliardi di euro di fondi strutturali per Kiev, la ministra dell’economia ucraina ha dichiarato: «Ci aspettiamo di ricevere il primo pagamento di 4,5 miliardi di euro già a marzo».
SAPPIAMO che il governo ucraino «sta attualmente lavorando ad un accordo corrispondente sul finanziamento insieme ai partner europei» per far sì che le condizioni necessarie all’incasso del finanziamento siano messe in atto. Non si tratta di fretta ma di estrema necessità. Il governo di Volodymyr Zelensky ha bisogno di soldi subito per mandare avanti lo Stato. Dagli stipendi dei militari al fronte al personale amministrativo nelle città, fino alle forniture energetiche e alimentari dall’estero, tutto il sistema rischiava di collassare. Ora alla Verkhovna Rada possono tirare un piccolo sospiro di sollievo, il default torna a essere solo un rischio. Secondo il Kiel Institute for the World Economy la guerra contro la Russia costa 10 miliardi di dollari al mese. La spesa pubblica ucraina per pagare la pubblica amministrazione, per tenere aperti scuole e ospedali, per far funzionare i trasporti, solo nel 2022 è stata di 75 miliardi: i prestiti occidentali ne hanno coperti 32. Lo stesso centro studi stima che fino alla fine del 2023 l’Ue aveva inviato in Ucraina 85 miliardi di dollari divisi tra attrezzature tecniche e militari (25 mld) e finanziamenti generali. Usa e Gran Bretagna hanno inviato rispettivamente 47 miliardi e 18 miliardi solo di forniture militari. La Banca mondiale ha calcolato che i Paesi occidentali hanno invitato, in totale, 17 miliardi al mese al governo di Kiev.
Si tratta di cifre altissime, è evidente. Ma l’invasione russa ha mandato in fumo circa 200 miliardi complessivi tra produzione locale e investitori stranieri. Senza contare che l’esercito russo controlla la centrale atomica di Zaporizhzhia, parte delle miniere del Donbass occupato e l’importante porto di Mariupol. La questione del commercio navale è dirimente: con Odessa e Mykolayiv bombardate e il Mar Nero controllato (con varie perdite) dalla marina russa, il commercio ucraino ha subito un colpo quasi letale. Da Odessa partivano migliaia di tonnellate di grano verso tutto il mondo, nelle infrastrutture portuali della città si custodiscono migliaia di ettolitri di idrocarburi e tonnellate di cereali. Un indotto che dava da mangiare a migliaia di famiglie è stato cancellato e le dogane hanno perso milioni di dollari di imposte. A Mykolayiv si costruivano e riparavano le grandi navi destinate alle rotte internazionali, ora i cantieri navali sono praticamente in disuso, esposti alla ruggine e ai bombardamenti russi.
I FONDI Ue interrompono una striscia negativa che durava da mesi, almeno dalla fine dell’estate scorsa. Tra l’agosto del 2023 e lo stesso periodo del 2022, stando ai grafici del Kiel Institute, i fondi stanziati dai Paesi europei sono diminuiti del 90%. Per quanto riguarda gli Stati Uniti, invece, il calo è dovuto al riacuirsi della crisi a Gaza e da ottobre a oggi i finanziamenti sono calati almeno del 30%. Al momento è ancora in bilico il finanziamento straordinario da 61 miliardi chiesto da Biden per Kiev e bloccato al Congresso dal partito repubblicano. I conservatori statunitensi su questo punto hanno ormai gettato la maschera: usano il loro dinego come arma contro Biden e accusano l’attuale presidente di «destinare i soldi dei contribuenti americani all’estero invece di risolvere le questioni più urgenti in patria». Se alla fine Donald Trump dovesse riuscire nell’impresa di tornare alla Casa Bianca per l’Ucraina la situazione potrebbe precipitare molto in fretta. Per ora Zelensky continua a chiedere F-16 e missili a lungo raggio, ma incassa solo promesse e rinvii a data da destinarsi.
L’altra questione è quella degli asset russi congelati dalle sanzioni imposte alla Russia dopo l’aggressione. Gli stati europei si sono detti favorevoli a una loro eventuale destinazione a favore dell’Ucraina. Una sorta di compensazione di guerra a conflitto ancora in corso. Una cifra enorme, tra i 100 e i 220 miliardi di euro. Dalla riunione di ieri a Bruxelles la consegna è stata quella di «non accelerare». Il passo decisivo (ovvero l’approvazione del piano da 50 miliardi senza veti) era già stato compiuto e forse i leader non volevano spingere troppo. Gli Usa, secondo il Wall Street Journal, stanno cercando una modalità che «non intimorisca gli investitori internazionali», ma Biden ha già proposto di scongelare 60 miliardi e destinarli a Kiev.
INSOMMA, non a caso ieri Zelesky ha commentato così la decisione dell’Ue: «è un chiaro segnale che l’Ucraina resisterà». Ma si tratta di una misura non risolutiva, e questo il presidente lo sa: il vero pericolo potrebbe venire da oltreoceano
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