EUROPEE. Prima tappa a Cassino: «No alle privatizzazioni, proteggere i più deboli». «Un sit-in alla Rai contro la propaganda becera del Tg1, la premier come Wanna Marchi». Fratoianni chiede una piazza comune delle opposizioni. Il sì della segretaria: «Uniamo le forze». Gelo sull’addio di Smeriglio. Bettini: «Le sue ragioni non meritano il silenzio»
Una sfida «in salita» quella delle europee, «ma possiamo farcela». Elly Schlein lo dice a fine giornata da Cassino, dove il Pd ha aperto il viaggio in Italia in vista del voto. Una città scelta non a caso, nell’80esimo anniversario del bombardamento anglo-americano che la rase al suolo. La città di San Benedetto, patrono d’Europa. «Un simbolo di speranza e rinascita», dice la segretaria ricordando come la stessa Ue «è stata costruita sulle macerie».
L’OBIETTIVO DI QUESTE TAPPE (ce ne saranno altre 4 in Italia più una a Bruxelles) è costruire una «visione» e quindi un programma per convincere gli italiani (soprattutto chi non vota più perché deluso) che dall’Europa può venire una speranza per combattere l’ingiustizia sociale e la crisi climatica. Costruendo nuovi posti di lavoro con la conversione ecologica. Una promessa ambiziosa e difficile, in particolare in territori come Cassino che vedono forti crisi industriali, a partire da quella di Fiat- Stellantis.
E tuttavia Schlein e i suoi più stretti collaboratori vogliono concentrare la campagna da qui a giugno sulle aree interne, lontano dai centri storici delle grandi città dove il Pd ha i risultati migliori. Andare dunque dove vince la destra, e non solo in Italia. «Saremo nell’Italia di mezzo», ha spiegato la coordinatrice della segreteria Marta Bonafoni. «La nostra ossessione sarà avvicinare le persone più sfiduciate alla sfida per un’Europa più giusta, verde dal cuore rosso».
Schlein punta molto sulla eventuale riedizione di piani stile Pnrr, «quella parentesi non si deve chiudere, serve una politica industriale europea in grado di contrastare lo strapotere delle multinazionali». Un’Europa dal volto sociale, dunque, perché «bisogna proteggere le persone». Compresi gli agricoltori che protestano coi trattori nelle capitali europee. «Dobbiamo dare loro risposte, accompagnarli nella transizione verde».
NEL DISEGNARE QUESTA visione, Schlein non molla la presa nella competizione contro Meloni: «La sua è una destra letale, non sociale». E giù attacchi sulla sanità «che vogliono privatizzare» e sulle grandi partecipate: «Non accetteremo un piano da 20 miliardi di privatizzazioni, la politica deve dare missioni precise alle grandi aziende di stato, e invece questi sedicenti nazionalisti svendono i gioielli dello stato».
Pronta una interrogazione su Poste al ministro Giorgetti. Altre legnate contro l’autonomia differenziata e il premierato («una combinazione esplosiva, hanno ancora il culto del capo»), e poi sui nidi: «Sulla gratuità dell’asilo per i secondi figli Meloni ha mentito, non è vero, sulla famiglia sanno fare solo retorica».
L’ATTACCO PIÙ DURO di ieri è sulla libertà di stampa. I dem hanno alzato il livello dello scontro contro il Tg1, dopo un servizio in cui «si annunciavano 1000 euro in più gli anziani ricordando che si vota l’8 giugno». «Si tratta di una misura per 25mila persone su un totale di 14 milioni di anziani», attacca Schlein. «Vedendo come hanno ridotto l’informazione pubblica, viene da pensare che Meloni sia diventata la regina delle televendite come Vanna Marchi, creando l’inganno verso le persone anziane: propaganda becera». Di qui l’idea di un sit-in a Roma, sotto la sede Rai. «Non può essere tele-Meloni, chiederò di partecipare alle altre forze di opposizione».
Il Pd ha già chiesto che il direttore del Tg1 Chiocci sia audito in Vigilanza. «Dal Pd un grave attacco alla libertà del servizio pubblico», replica il sindacato di destra Unirai. «I dem vengano in redazione a dettare i titoli». Controreplica dal Nazareno: «Che tristezza Unirai che scrive sotto dettatura del direttore Chiocci o di qualche ministro giornalista». Nicola Fratoianni rilancia via social l’idea di una piazza unitaria delle opposizioni, ricordando che «il profilo della coalizione» alternativa alle destre» non è per nulla chiaro». E Schlein risponde: «Hai ragione, noi ci siamo: i disastri del governo ci impongono di unire le forze».
IN CASA DEM SI REGISTRA anche il caso di Massimiliano Smeriglio, che ieri al manifesto ha annunciato l’addio al gruppo Pd di Bruxelles criticando le scelte su guerre, lavoro e ambiente. I vertici non commentano, limitandosi a ricordare che era un indipendente. «È un intellettuale che viene dal popolo e lo rappresenta, la sua scelta lascia l’amaro in bocca», commenta Goffredo Bettini, big della sinistra mai vicino a Schlein. «Le sue motivazioni non meritano il silenzio»
Commenta (0 Commenti)Gli Usa e gli alleati, Italia per prima, sospendono i finanziamenti all’agenzia delle Nazioni unite che assiste i profughi palestinesi. Israele accusa 12 lavoratori dell’Unrwa (su molte migliaia) di aver partecipato agli attacchi di Hamas del 7 ottobre. Accade poche ore dopo la decisione della Corte dell’Aja. A Gaza c’è spazio solo per le bombe
GAZA. 12 dipendenti dell'agenzia per i profughi avrebbero partecipato all'assalto di Hamas. Per Israele sono crimini dell'Onu. Ieri uccisi altri 174 palestinesi
È un’offensiva politica e diplomatica senza precedenti, parallela all’invasione militare che sta radendo al suolo Gaza, quella che Israele, l’Amministrazione Biden e alcuni dei loro alleati – Italia, Australia, Gran Bretagna, Canada e Finlandia – hanno lanciato contro l’Unrwa, l’agenzia dell’Onu che assiste milioni di profughi palestinesi. Sulla base della documentazione prodotta dall’intelligence israeliana contro 12 lavoratori dell’Unrwa – che impiega molte migliaia di palestinesi – accusati di aver partecipato all’attacco di Hamas del 7 ottobre nel sud di Israele (1.200 morti), gli Stati uniti hanno sospeso i fondi per l’agenzia appena un’ora dopo la decisione della Corte internazionale di Giustizia (Cig) che all’Aja aveva definito «plausibile» l’accusa di «genocidio» a Gaza. L’Italia e gli altri paesi hanno fatto lo stesso nelle ore successive. Un tempismo a dir poco sospetto, da far pensare a un coordinamento deciso con largo anticipo da Tel Aviv e Washington.
La vicenda della partecipazione all’assalto di Hamas in Israele dei 12 lavoratori dell’Unrwa era già emersa nelle settimane passate. È tornata in primo piano, proprio venerdì sera. Mentre si attendevano i primi, sebbene improbabili, riflessi sul terreno delle decisioni della Corte dell’Aja, i riflettori da Israele sotto indagine internazionale per «genocidio» si sono spostati sull’Unrwa. Il commissario generale dell’agenzia, Philippe Lazzarini, ha provato a contenere la deflagrazione del caso annunciando il licenziamento dei 12 e la piena volontà di fare chiarezza sull’accaduto, ma non è servito a
Commenta (0 Commenti)E nelle presentazioni sul sito del Miur c’è chi parla di “difficile convivenza” tra ricchi e figli dei portinai
LEGGI IL TESTO DELLA PRESENTAZIONE NELLA PAGINA DEL LICEO TORRICELLI- BALLARDINI di Faenza
La prosa con cui alcune scuole del Paese, spesso i licei più prestigiosi e selettivi, si sono offerte alle famiglie per attrarre l’iscrizione dei loro figli è da censura. Nell’ansia di far apparire un istituto privo di problemi, pronto a fornire la migliore didattica senza impacci con gli adolescenti stranieri o i ragazzi bisognosi di sostegno, i dirigenti scolastici hanno licenziato rapporti di autovalutazione classisti. È tutto visibile sul sito del ministero dell’Istruzione, “Scuola in chiaro”. Oltre ai numeri degli studenti presenti e alle informazioni sui percorsi di studio, ogni scuola ha offerto una valutazione di sé. Basata su parametri offerti dal ministero, ma restituita con una propria anima.
L’Ennio Quirino Visconti così si è raccontato: « L’essere il liceo classico più antico di Roma conferisce alla scuola fama e prestigio consolidati, molti personaggi illustri sono stati alunni » . L’illustrazione orgogliosa si addentra nei primi dettagli di censo: « Le famiglie che scelgono il liceo sono di estrazione medio- alto borghese, per lo più residenti in centro, ma anche provenienti da quartieri diversi, richiamati dalla fama del liceo». Fin qui, un dato di fatto. « Tutti, tranne un paio, gli studenti sono di nazionalità italiana e nessuno è diversamente abile » . La percentuale di alunni svantaggiati «per condizione familiare è pressoché inesistente » , mentre «si riscontra un leggero incremento dei casi di Dsa». Sono i Disturbi specifici di apprendimento. Il finale è una conclusione che spiazza: «Tutto ciò», e si intende la quasi assenza di stranieri e la totale assenza di poveri, « favorisce il processo di apprendimento » . Il buon apprendimento dei figli della buona borghesia di Roma Centro.
Al Visconti, « dove la maggior parte delle risorse economiche proviene dai privati, in primis le famiglie » , dove la presidente della Camera Laura Boldrini ha tenuto lezioni sulle fake news,la “ quota studenti con cittadinanza non italiana” è pari allo 0,75 per cento del totale. Lo dicono le tabelle. Solo che lo 0,75 per cento di 669 studenti non fa «un paio», ma cinque. E la quota di iscritti con «famiglie svantaggiate » è dello 0,8 per cento, un po’ più di «pressoché inesistente». Ecco, se si esce dalla pagina vetrina, quella che serve a far propaganda e richiamare iscrizioni, si scopre che i numeri del Visconti su stranieri e poveri sono più alti.
Anche l’intro dell’autovalutazione del liceo D’Oria di Genova, prestigioso e tradizionale classico, offre una presentazione di sé che accarezza l’idea per cui “ poveri e disagiati costituiscono un problema didattico”. Ecco cosa c’è scritto nel Rav: « Il contesto socio- economico e culturale complessivamente di medio- alto livello e l’assenza di gruppi di studenti con caratteristiche particolari dal punto di vista della provenienza culturale ( come, ad esempio, nomadi o studenti di zone particolarmente svantaggiate) costituiscono un background favorevole alla collaborazione e al dialogo tra scuola e famiglia, nonché all’analisi delle specifiche esigenze formative nell’ottica di una didattica davvero personalizzata » . Senza altre questioni da affrontare, sembra di capire, ci possiamo dedicare ai limitati e ricchi studenti indigeni. Infatti: «Il contributo economico delle famiglie sostiene adeguatamente l’ampliamento dell’offerta formativa».
Il Parini di Milano, altro classico storico, anche questo statale, illustra nella presentazione: « Gli studenti del liceo classico in genere hanno, per tradizione, una provenienza sociale più elevata rispetto alla media. Questo è particolarmente avvertito nella nostra scuola. A partire da tale situazione favorevole, la scuola ha il compito ( obbligo) di contribuire a elevare il livello culturale dei suoi allievi » . La dirigente scolastica del Parini, non a caso, ammette «qualche criticità nelle attività di inclusione».
È un classico parificato, però, ad utilizzare il linguaggio più esplicito sul tema. Il Giuliana Falconieri, Roma Parioli. Così la sua autovalutazione: « Gli studenti del nostro istituto appartengono prevalentemente alla medio-alta borghesia romana. La spiccata omogeneità socio- economica e territoriale dell’utenza facilita l’interazione sociale ». Ci si parla solo tra pari grado, e poi: «Non sono presenti né studenti nomadi né provenienti da zone particolarmente svantaggiate » . In questa scuola, tuttavia, c’è una questione particolare: « Negli anni sono stati iscritti figli di portieri e/o custodi di edifici del quartiere. Data la prevalenza quasi esclusiva di studenti provenienti da famiglie benestanti, la presenza seppur minima di alunni provenienti da famiglie di portieri o di custodi comporta difficoltà di convivenza dati gli stili di vita molto diversi».
Clara Rech, preside del Visconti di Roma, autrice di una delle autovalutazioni da censura, dice: «Il numero di battute a disposizione era limitato e pago un eccesso di sintesi. Rettificherò quel passaggio. Sono stata onesta nel rappresentare un dato oggettivo: al Visconti ci sono pochi studenti stranieri e non abbiamo disabili. Volevo dire che la didattica ordinaria, così, è più semplice: recuperare l’italiano di uno straniero chiede risorse e tempo. Credo che tutti gli studenti, ricchi e poveri, debbano crescere insieme e credo nella multiculturalità ».
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PALESTINA. Si diffonde la notizia dell’arrivo di camion umanitari nel nord affamato. Non ci sono gli aiuti, ma i mitra. Israele: «Indagheremo». Case fatte saltare e lavori in corso nella futura «zona cuscinetto». Usa ed Egitto chiedono di fermarsi
All’ospedale al-Shifa, ieri, alcune delle persone rimaste ferite alla rotonda Kuwait di Gaza City - foto Ap
In migliaia si sono diretti alla rotonda «Kuwait», in un sobborgo settentrionale del capoluogo Gaza city. «L’hanno fatto per la fame – ci diceva ieri Safwat K., un collega palestinese a Gaza – Nel nord non c’è cibo, manca tutto, quelli che hanno deciso di restare, nonostante l’ordine di evacuazione giunto dagli israeliani, non sanno come sfamarsi. Quando hanno saputo che sarebbero arrivati degli autocarri carichi di aiuti umanitari si sono precipitati sul posto».
Ma ad attenderli non c’era alcun camion con i tanto necessari generi di prima necessità. In quella zona, ha proseguito Safwat K., c’erano solo i mezzi corazzati israeliani, che hanno aperto il fuoco: «I morti sono almeno 25, temo che il bilancio aumenterà, alcune delle decine di feriti sono in condizioni critiche».
Non è ancora confermato ma pare che tutto sia partito da sms giunti sui cellulari di diverse persone nel nord di Gaza che annunciavano l’arrivo degli aiuti alla rotonda «Kuwait». Poi sarebbe cominciato un rapido passaparola tra le case ancora in piedi e quelle danneggiate dove vivono in condizioni disumane numerose famiglie che non sanno dove andare.
IN POCHI MINUTI un fiume di esseri umani bisognosi di cibo e acqua si è messo in marcia. I primi colpi, sparati da mitragliatrici pesanti sono arrivati pochi minuti dopo. Il panico
Commenta (0 Commenti)WORKFARE. «Se non sei disponibile a lavorare – ha detto la presidente del Consiglio Giorgia Meloni - non puoi pretendere di essere mantenuto con i soldi di chi lavora ogni giorno». Un pensiero ricorrente quando si vuole governare i poveri e non liberare la società dalla povertà
La presidente del Consiglio Giorgia Meloni - Ansa
L’odio dei poveri ha un motore: il lavoro. Quello che c’è ed è precario, brutale, pagato sempre peggio, talvolta persino gratuito. E, soprattutto, il lavoro che non c’è. Quello che i poveri definiti «occupabili» – cioè considerati «abili al lavoro» – devono inseguire, iscrivendosi alla cabala di corsi di formazione, sperando che portino a un lavoro, qualsiasi esso sia. E anche a 350 euro, sperando che arrivino. Perché nemmeno l’iscrizione a un corso potrebbe garantirlo, dicono le cronache di queste settimane.
Chi, tra gli «occupabili», si trova in questo girone infernale, ieri ha ricevuto un supplemento di pena da Giorgia Meloni nel «premier time». «Se non sei disponibile a lavorare – ha detto – non puoi pretendere di essere mantenuto con i soldi di chi lavora ogni giorno».
La frase è emblematica . Vuole dire che la povertà è colpa di chi non vuole lavorare. Perché è noto che oggi, chi tra i poveri lavora, sta bene. Si riscatta dalla colpa della povertà. Si emancipa dal bisogno. È assunto nel paradiso delle merci e ne gode beato. Di bestialità simili è disseminatala storia del capitalismo. Le dicevano già tra il 1597 e il 1601, quando Elisabetta I varò le prime «leggi sui poveri» in Inghilterra. Oggi, è cambiata l’epoca, ma siamo ancora allo stesso punto. I poveri, anche quando lavorano, non escono dalla povertà. Li chiamano working poors. L’anglismo serve a infiocchettare l’odiosità di una vita bisognosa, ma non serve a evitare gli insulti quando qualcuno perde il lavoro e non ne trova un altro.
La frase è anche lacunosa. Meloni, infatti, non ha detto che il suo governo è intervenuto sui criteri che regolano la «disponibilità a lavorare» del povero. Criteri che non riguardano la volontà di un individuo, ma che sono usati per condannarlo moralmente contrapponendolo a chi «lavora ogni giorno» e, magari, arriva a considerare «scroccone» o «lazzarone» chi riceve un sussidio.
Di preciso, parliamo dell’abbassamento della soglia dell’indicatore della situazione economica equivalente (Isee): da 9.360 a 6 mila euro annui. Non è una questione tecnica, ma politica. È questa norma ad avere escluso gli «occupabili» dall’accesso al «supporto per la formazione e per il lavoro», la misura a loro destinata, parallela all’«assegno di inclusione» destinato ai poveri ritenuti «inabili al lavoro». I dati sono stati forniti da Meloni: su 249 mila potenziali «occupabili» che percepivano il reddito di cittadinanza, solo 55 mila hanno presentato domanda, poco più del 22% della platea. «È possibile che alcune di queste persone abbiano trovato lavoro privatamente – ha detto la presidente del Consiglio – ma è possibile anche che alcune di loro non cercassero un’occupazione o preferissero lavorare in nero: questa è la ragione per la quale sono molto fiera del lavoro che abbiamo fatto».
Quale lavoro possa trovare chi ha un reddito Isee superiore ai 6 mila euro ma inferiore a 9.350 euro, è immaginabile. E non sorprenderebbe il fatto che sia «in nero». Meloni, anche qui, non ha detto l’essenziale: il problema non si porrebbe, se ci fosse un datore di lavoro disposto ad assumere con un contratto e non a sfruttare «in nero»; se ci fosse un governo disposto a disboscare la giungla dei contratti precari; se ci fosse un Welfare con un reddito di base, un sistema fiscale giusto, sanità e scuola pubbliche non stritolate nella morsa dell’aziendalizzazione. E un’«autonomia differenziata» all’orizzonte che farebbe un macello.
Progetto pericoloso, ma riflettiamo sulle piazze vuote
Attribuire le responsabilità di un sistema alle sue vittime è lo scopo di chi vuole governare i poveri e non liberare la società dalla povertà. C’è chi è «fiera» di averlo fatto, come Meloni. A chi, invece, oggi la critica basterebbe ricordare che una soglia più alta non serve ad «abolire la povertà» come pure è stato detto da un balcone di palazzo Chigi
Commenta (0 Commenti)MIGRANTI. Approvato il ddl di ratifica, che adesso andrà in Senato. La Corte costituzionale albanese rinvia l’esame del ricorso al 29 gennaio
Edi Rama e Giorgia Meloni firmano il protocollo d'intesa - LaPresse
La Camera dei deputati ha approvato il disegno di legge di ratifica del protocollo Roma-Tirana per la costruzione di centri di trattenimento per migranti in territorio albanese. 155 i voti favorevoli, 115 i contrari, due gli astenuti. Adesso il provvedimento governativo dovrà passare anche in Senato, dove l’iter di approvazione si annuncia ancora più rapido.
La maggioranza è stata compatta nel sostenere il progetto fortemente voluto dalla premier Giorgia Meloni. Tutti gli emendamenti, ordini del giorno e pregiudiziali di costituzionalità e merito presentati dalle opposizioni sono stati respinti. «Con l’approvazione del ddl si traccia la rotta per nuove politiche migratorie e difesa dei confini», ha affermato il capogruppo di Fratelli d’Italia Tommaso Foti.
Secondo i partiti del centro-sinistra l’intesa è uno spot elettorale di Meloni in vista delle europee anche perché rimangono problemi logistici, incongruenze giuridiche e costi spropositati. Per ora sono calcolati complessivamente in quasi 700 milioni di euro in cinque anni, ma lieviteranno ancora quando saranno chiarite tutte le voci di spesa.
A pieno regime nei centri in Albania saranno «delocalizzati» fino a 3mila migranti contemporaneamente. Nell’ipotesi del governo dovrebbero alternarsi mensilmente, ottenendo la protezione e il trasferimento in Italia oppure il rigetto della domanda d’asilo e il rimpatrio, al termine delle procedure accelerate di frontiera. Ipotesi di ritmo che difficilmente potrà avere riscontro nella realtà.
Il governo ha manifestato l’intenzione di trasferire solo uomini soccorsi in acque internazionali – sbarcando in Italia minori, donne e gli altri soggetti vulnerabili – ma sulle procedure di screening, presumibilmente a bordo delle navi, restano grandi punti interrogativi legali e operativi.
Intanto la Corte costituzionale di Tirana, che sta esaminando il ricorso delle opposizioni parlamentari albanesi, ha rinviato al 29 gennaio l’esame del protocollo. Nell’udienza di ieri i ricorrenti hanno chiesto di presentare nuove prove, citando anche le obiezioni sollevate da Amnesty. La sentenza deve arrivare entro il 6 marzo
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