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Von der Leyen guarda alle europee e cede subito alla protesta dei trattori sui pesticidi e sulle emissioni di Co2. Ritirato il testo che avrebbe imposto un taglio del 50% sui fitosanitari entro il 2030 e cancellato il calo del 30% di diossido di carbonio in agricoltura

BRUXELLES. Von der Leyen, spaventata dalle proteste degli agricoltori, cede sui fitosanitari e annacqua le raccomandazioni sulla Co2: ritirato il testo Sur che avrebbe imposto un taglio del 50% dell’agrochimica entro il 2030 e silenzio sul calo del 30% di diossido di carbonio in agricoltura

La marcia dei trattori a Strasburgo, in basso Ursula von der Leyen La marcia dei trattori a Strasburgo, in basso Ursula von der Leyen - Ap e Ansa

«Afuera» (come direbbe l’argentino Milei) il testo sul taglio del 50% dell’uso di pesticidi in agricoltura, minimizzazione dell’obiettivo della riduzione delle emissioni di gas a effetto serra per il 2040 – meno 90% rispetto al 1990 – che sarà raggiunto anche se non facciamo niente di speciale e continuiamo «la traiettoria 2030», oltre al grande silenzio sul necessario calo del 30% di produzione di Co2 in agricoltura.

Ursula von der Leyen preoccupata per la sua rielezione alla testa della Commissione, così come il suo partito, il Ppe, è spaventato dalle proteste dei trattori che rischiano di gonfiare i consensi all’estrema destra alle prossime elezioni europee di giugno, mette precipitosamente nel cassetto alcuni pilastri del Green Deal.

IERI, LA PRESIDENTE della Commissione ha cominciato con i pesticidi, uno degli elementi della protesta degli agricoltori in Europa, che urlano contro l’eccesso di norme: ha annunciato il ritiro del testo Sur (Sustainable Use Regulation) che avrebbe imposto un taglio del 50% dell’agrochimica entro il 2030, del resto già bocciato nel novembre scorso dal parlamento europeo (il Ppe lo aveva annacquato drasticamente, troppo per la sinistra, così tutti hanno votato contro).

«La Commissione farà proposte più mature», ha detto von der Leyen, senza però sbilanciarsi su

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ITALIA. Al raduno sulla Nomentana agricoltori da Abruzzo e Toscana: «Siamo vittime della grande distribuzione e delle politiche verdi»

I trattori a Roma: «No al fotovoltaico e ai governi filo-Ue» Il raduno dei trattori a Roma - La Presse

I primi trattori sono arrivati a Roma, il più grande comune agricolo d’Europa, ieri di prima mattina. Hanno superato il Grande Raccordo Anulare, l’autostrada che circonda ad anello la città, e si sono sistemati su una collinetta e un piazzale lungo la via Nomentana, nel quadrante nord-est della capitale. Provenivano dall’Abruzzo, dalla Toscana e alcuni di loro dall’agro romano. Velio Contu, un allevatore di origini sarde proprietario di azienda con un migliaio di pecore a Guidonia, poco lontano, ha fatto gli onori di casa prendendosela, in ordine alfabetico, con gli ambientalisti «teorici», gli animalisti «che difendono gli orsi e non le persone», la burocrazia statale, le organizzazioni di categoria e i sindacati «che sono i peggiori».

Gli allevatori abruzzesi – arrivati da Montesilvano e da Pescara – sono arrivati per protestare, tra le altre cose, per il problema dei branchi di lupi che sgozzano le pecore e dei cinghiali che devastano i terreni. «Ci aspettiamo che il governo decida almeno un abbattimento della fauna selvatica», dicono.

Il minimo comune denominatore per tutti è la contestazione delle politiche agricole europee «che consentono le importazioni di materie prime geneticamente modificate o trattate con pesticidi che da noi sono vietati» e delle associazioni come Coldiretti «che non fanno i nostri interessi». Molti di loro vi sono iscritti, «ma solo perché siamo costretti».

Molti ce l’hanno con gli espropri dei terreni per impiantare pannelli fotovoltaici, altri chiedono la cancellazione dell’accisa sul gasolio, circa 13 centesimi al litro che diventano una cifra importante su un pieno da 500 litri per un trattore. Tutti esprimono un malessere rivolto a un governo di destra che in gran parte hanno votato e che, sostengono, finora li ha delusi perché non li ha protetti di fronte a quello che ritengono il vero nemico: l’Unione europea da cui, per paradosso, prendono molti contributi economici.

Da Tokyo la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha provato a fargli da sponda: si è detta disponibile a un confronto e ha attaccato l’«ideologia green», sostenendo che «molta della rabbia degli agricoltori viene da una visione ideologica della transizione ecologica che ha pensato di poter difendere l’ambiente combattendo gli agricoltori».

In realtà, il malessere degli agricoltori – tutti imprenditori che sono proprietari anche di centinaia di ettari di terreni e di allevamenti con centinaia e a volte migliaia di animali – è dovuto al fatto che non riescono più a determinare il prezzo delle materie prime, che invece viene fatto dalla grande distribuzione. «Il mercato è controllato dalla grande industria e dall’Unione europea», dice uno di loro. «Chiediamo al governo che imponga che le materie prime dei prodotti made in Italy siano davvero italiane», dice Roberto Rosati, un imprenditore agricolo del teramano. Gli agricoltori propongono anche che gli appalti pubblici delle mense ospedaliere e scolastiche obblighino le aziende fornitrici a usare solo prodotti italiani.

A fine giornata al presidio sulla Nomentana si contavano più o meno 700 trattori ed entro giovedì se ne attendono 1.500. Alle porte della capitale gli agricoltori si sono radunati pure a Cecchina, Formello e Valmontone. Un altro presidio, organizzato dal Comitato agricoltori traditi della zona pontina, è in preparazione all’ingresso sud di Roma. Il loro leader Danilo Calvani ieri ha partecipato a un incontro in questura per stabilire modalità e tempi di un corteo, tra giovedì e venerdì, «probabilmente anche con trattori».

L’atteggiamento delle forze dell’ordine è molto morbido, ma è arrivata pure l’indicazione ai manifestanti di sfilare senza i trattori, o con una presenza simbolica, e di evitare blocchi stradali non concordati.

Alla presentazione del festival di Sanremo, anche Amadeus si è schierato con i manifestanti, dicendo che se verranno li ospiterà sul palco. «Se ci farà salire sul palco io sono pronto a venire» gli ha risposto Tonino Monfeli, il coordinatore della protesta che per alcuni giorni ha bloccato il casello autostradale di Orte

 

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60 ASSOCIAZIONI SCRIVONO AL GOVERNO. La norma impatta su 10 milioni di persone

Non autosufficienza, «riforma da cambiare»

Patto per la Non Autosufficienza, 60 organizzazioni hanno scritto alla premier Meloni per chiedere la revisione della legge in materia. Il 25 gennaio il Consiglio dei ministri ha presentato il decreto legislativo per dare attuazione alla riforma dell’assistenza agli anziani non autosufficienti.

La norma impatta su 10 milioni di persone: 3 milioni e 800mila anziani, i loro familiari e i caregiver. Katia Pinto, presidente di Federazione Alzheimer Italia: «Il decreto tradisce lo spirito della legge. Cancella alcuni punti fondamentali (come l’introduzione di un modello di servizio domiciliare specifico per la non autosufficienza) e ne rimanda altri, quali la riforma dei servizi residenziali.

LA REDAZIONE CONSIGLIA:

La bufala dell’Alzheimer infettivo

Introduce un Sistema nazionale per la popolazione anziana non autosufficiente, che però riguarda solo i servizi e interventi sociali: la legge delega prevedeva una programmazione integrata con quelli sanitari e monetari». Con la prestazione universale, sbandierata dal governo, viene introdotto un nuovo aiuto economico ma «riguarderà solo over 80 con elevato bisogno assistenziale e ridotte disponibilità economiche: meno di 30mila persone nel 2025 e neanche 20mila nel 2026. Senza intervenire sull’indennità di accompagnamento, la misura più diffusa ma meno efficace»

 

 

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SENATO. Niente unità tra i leader del centrodestra, a depositare gli emendamenti è stato il governo

Premierato, la Lega fa melina Mentre il buio si infittisce

 

«Buio» è la parola che accompagna gli emendamenti sul premierato che recepiscono gli accordi nel centrodestra, depositati ieri mattina in Senato. Innanzitutto perché costituzionalizzano le crisi di governo al buio, le più temute in ogni Paese. In secondo luogo perché l’oscurità avvolge la logica politica di questi testi, sui quali il partito perdente, Fdi, plaude con Giorgia Meloni mentre il partito vincente, la Lega, tace. L’unico modo per accendere la luce è procedere cronologicamente nel racconto della giornata di ieri.

ALLE 10 DI IERI in Commissione Affari costituzionali di Palazzo Madama andavano depositati gli emendamenti al ddl Casellati. La prima sorpresa è stata il fatto che a presentarli non sono stati i capigruppo della maggioranza, come ripetutamente annunciato, per sancire l’unità di intenti, bensì il governo. Perché? Qualcuno si è sfilato? La ministra Casellati, in serata, ha dichiarato che gli emendamenti «hanno avuto il via libera da tutti i leader».

Non si capisce, però, perché i partiti abbiano rinunciato a un atto che rendeva evidente l’accordo. Chi ha chiesto che i testi fossero presentati dal governo? Domanda non peregrina perché quando è il governo a presentare un atto parlamentare si riaprono i termini per i sub emendamenti. Le opposizioni ne hanno già depositati 2mila e ora gli si dà la possibilità di depositarne altrettanti.

IL BUIO È FITTO perché gli emendamenti sono stati benedetti da Fdi, con Giorgia Meloni, da Fi, con Maurizio Gasparri, e dai centristi con Antonio De Poli, mentre la Lega, pur sollecitata, ha taciuto. Li ha fatti depositare dal governo proprio per far allungare i tempi di esame, e ricattare sul passo lento con cui l’Autonomia differenzia ha iniziato a muoversi alla Camera? Tuttavia il buio è ancora più fitto sui contenuti degli emendamenti, in particolare sempre sulla questione del secondo premier, subentrante a quello eletto e sfiduciato.

LA REDAZIONE CONSIGLIA:

La nuova Italia disegnata dalla destra

La nuova versione del centrodestra stabilisce che in caso di sfiducia «con mozione motivata» (un caso mai accaduto) si vada automaticamente allo scioglimento anticipato delle Camere. È il simul stabunt, simul cadent che piace a Meloni. Poi viene normata la classica crisi extraparlamentare: in questo scenario il premier presenta «dimissioni volontarie» e può scegliere o di passare la mano (la classica staffetta in un clima di maggioranza ancora unita), oppure «può proporre, entro sette giorni, lo scioglimento delle Camere al Presidente della Repubblica, che lo dispone».

E ora arriva l’oscurità: non viene detto nulla sul caso più frequente, quello di una fiducia posta dal premier e negata dalle Camere, per esempio su un decreto o su una Finanziaria. Che succederebbe in tal caso? Non c’è «mozione motivata» di sfiducia, quindi non si va automaticamente al voto. Ma non sono neanche dimissioni volontarie: nella fiducia negata le dimissioni sono un atto dovuto. Il premier allora dovrebbe salire al Quirinale per le dimissioni e potrebbe chiedere di nuovo l’incarico per sé per un nuovo tentativo, ma il Capo dello Stato potrebbe negarglielo vista la sfiducia appena incassata, preferendo il «premier di scorta» espresso dalla medesima maggioranza.

In ogni caso, al netto del conflitto tra il premier eletto e il Presidente della Repubblica, si aprirebbe una crisi al buio, di quelle che piacevano ai capicorrente della Dc. Di certo non esistono sfiducie serie e sfiducie «facciamo per finta». A dirlo è un esponente della stessa maggioranza, Marcello Pera, che ha anche messo in guardia dal procedere solo in vista del referendum: anche se supera questo scoglio, ha detto, la riforma verrebbe impallinata dalla Corte costituzionale, perché lede «un principio supremo dell’ordinamento», appunto «il rapporto fiduciario Governo – Parlamento». Qualcuno una luce l’ha accesa.

QUANTO ALLE OPPOSIZIONI, il Pd e Avs hanno presentato rispettivamente 800 e mille emendamenti annunciando ostruzionismo con Andrea De Giorgis e Peppe De Cristofaro ma hanno anche depositato proposte che si ispirano al modello tedesco; M5s e Azione hanno scelto solo la prima strada, rispettivamente con 16 e 20 emendamenti, anch’essi ispirati al cancellierato. Quindi benché uniti nella proposta, sono disuniti su come contrastare il cammino delle destre

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Dopo l’alluvione, Faenza non ha bisogno di scommesse o azzardi, ma di certezze e basi solide per ripartire. La ricostruzione della città in questi mesi ha tanti volti. Il ponte bailey, il rifacimento del muro di via Renaccio, i ristori per cittadini e imprese, una nuova idea di città più sicura e sostenibile con l’ambiente. E in questo grande cantiere in continua evoluzione, contrasta vedere la ripartenza prendere la forma non solo di infrastrutture e progetti, ma anche di una nuova sala slot e scommesse, una delle più grandi in Romagna, che inevitabilmente cambierà il volto di una parte della città. Se è vero che burocrazia e leggi consentono questa apertura a certe condizioni – massimo dieci anni – dall’altro c’è necessità di interrogarsi su quale città si vuole costruire per il futuro, anche a livello politico (nel senso più ampio del termine). Se ha senso che a lato della stessa strada sorgano da una parte il campo sportivo di San Rocco, frequentato da tanti giovani, e dall’altra parte le luci evanescenti di una sala scommesse. Se ha senso, più in generale, che in una città con tante famiglie in difficoltà economiche e sociali a causa dell’alluvione, si debba ripartire non sostenendo nuove attività o commercianti di quartiere, ma da una sala slot gestita da una multinazionale arrivata dal nulla che ha come unico obiettivo massimizzare i profitti per poi andarsene dopo dieci anni.

“Ci sembra che la nuova sala slot sorga in una zona non idonea. Come parrocchia faremo il possibile per sensibilizzare su questo”

chiesetta san rocco
La chiesetta di San Rocco

La stessa domanda si è posto don Davide Ferrini, parroco di San Marco, la parrocchia all’interno della quale sorgerà la nuova sala slot, preoccupato – assieme a tante famiglie – dell’impatto che l’apertura di questa attività possa avere nel contesto sociale. Nelle ultime settimane la riapertura al culto della chiesetta di San Rocco da parte della parrocchia sembrava potesse mettere in discussione la sala scommesse in via Granarolo. Cosa che non è avvenuta. «La decisione di riaprire l’oratorio di San Rocco era già stata presa da tempo – dice don Davide – c’era stata anche una raccolta firme da parte di un comitato che aveva il desiderio di farla tornare alla sua funzione originaria. La chiesetta tornerà a essere un luogo di preghiera e di incontro per la comunità». L’oratorio di San Rocco, già appartenuto all’omonima confraternita, è stato costruito nei primi decenni del Settecento, ma da allora non ha mai ricevuto alcun tipo di manutenzione ed era in stato di totale abbandono. Il primo progetto di restauro è stato redatto nel 2001, grazie al Rotary. «Anche con questa riapertura, abbiamo voluto dare un segnale sul tema della sala slot, che ci sembra sorga in una zona non idonea» specifica il parroco.

Non solo ludopatia, ma anche rischio di spaccio e traffici malavitosi

Al di là dell’efficacia o meno dell’iniziativa, è il messaggio che don Davide ha lanciato a essere importante. «La legge prevede che le aree attorno a parchi, scuole ed edifici di culto, siano considerate aree sensibili, di conseguenza non è possibile aprire questo tipo di attività a meno di 500 metri – sottolinea -. Se c’è una legge, c’è per un motivo: ci deve essere un’area che tuteli i giovani, le zone di socialità e le funzioni religiose». «Preciso che non abbiamo fatto una crociata contro la creazione di queste attività – specifica – ma non possiamo chiudere gli occhi di fronte all’impatto che potrà avere sul nostro quartiere. Dal punto di vista sociologico le aree vicino a questo tipo di attività sono zone a forte rischio, un rischio non limitato solo alla ludopatia, ma anche allo spaccio e ad affari malavitosi che queste sale attraggono. Sappiamo, inoltre, che ci sono persone in difficoltà, che cadono in un vizio che distrugge la loro vita e non solo: anziani che si giocano le pensioni o padri che si giocano lo stipendio, ma anche delle loro famiglie. E in una città, ferita dall’alluvione, il rischio di speculare sul dramma della gente è altissimo. Sono proprio le persone più in difficoltà a rischiare di cadere nella ludopatia, pensando di poter risolvere i propri problemi con una giocata di pochi secondi. Se i cittadini portano queste criticità agli enti preposti, tramite una raccolta firme per esempio, penso debbano essere ascoltati e si debbano trovare soluzioni». E su questo, tanti cittadini sono d’accordo. «Voglio concludere dicendo – assicura il parroco – che tantissime persone di tutte le età sono venute nelle ultime settimane a ringraziarmi perché vedevano l’apertura dalla sala come un problema e un pericolo per le loro famiglie e per il loro quartiere».

Samuele Marchi e Mattia Bandini

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CAMPO LARGO. Il leader pentastellato a Faenza rifiuta la collocazione a sinistra. Poi però precisa: «Sediamo ai tavoli di confronto». E Fratoianni avvisa: «Non si pensi di risolvere tutto nella dialettica tra 5 Stelle e Pd»

Conte rivendica libertà di manovra: «Il M5S gioca senza schemi» Giuseppe Conte all'assemblea regionale del M5S Emilia Romagna di Faenza - foto Twitter

Giuseppe Conte è di scena in Emilia Romagna all’assemblea regionale del Movimento 5 Stelle che si tiene a Faenza. Qui, davanti a circa 1500 persone, raccoglie l’allarme degli alluvionati e incontra i cartelli innalzati da alcuni iscritti che gli dicono come la pensano sulle prossime strategie elettorali: «Nessuna alleanza con questo Pd», portano scritto. Altri espongono addirittura il teschio, il simbolo della morte, per sottolineare la «necessaria distanza» da un accordo, si presume per le elezioni regionali dell’anno prossimo, che secondo loro significherebbe la fine del M5S.

L’EMILIA ROMAGNA rappresenta alcuni passaggi rilevanti della storia del M5S. È qui, alle regionali de 2010, che la lista pentastellata raccolse il primo risultato considerevole, un inatteso 6%, ed elesse due consiglieri regionali. È qui, con Federico Pizzarotti a Parma, che il M5S ha eletto il primo sindaco di un capoluogo. Ed è sempre qui che avvennero le prime espulsioni di massa: pare che Gianroberto Casaleggio non apprezzasse le richieste di democrazia interna (gli emiliani chiedevano che si tenesse un’assemblea nazionale, cosa vietatissima dalle regole dell’epoca) e non si fidasse di alcuni attivisti considerati, appunto, troppo vicini alla sinistra. Ma Conte ci tiene a rassicurare i suoi circa la collocazione del suo M5S: «Abbiamo coniato un’espressione, per evitare che tutti dicano ‘Sinistra, sinistra’ – dice intervenendo all’evento di Faenza – No: noi siamo nel campo progressista, siamo una forza progressista. Questa formula ci deve dare la libertà, e ce la dobbiamo prendere, di poterci muovere nell’area progressista nel pieno rispetto e nella piena coerenza dei nostri principi e dei nostri valori. Senza che nessuno ci imponga un abito che ci sta stretto». Poi è tornato anche sulle polemiche relative al suo rifiuto di scegliere tra Trump e Biden. «Intellettuali e giornalisti ci chiedono ‘dove state?’ – ha proseguito il leader del Movimento 5 Stelle – Si prendono competizioni elettorali altrui e ci chiedono di schierarci. La nostra identità è così forte che non c’è bisogno di andare a cercare altrove. A questi intellettuali, giornalisti o anche interlocutori politici che ci chiedono dove stiamo è facile rispondere: noi stiamo dalla parte della giustizia sociale, lavoriamo perché si possa recuperare risorse per operare una redistribuzione a favore di coloro che non hanno voce in capitolo e a favore di coloro che sono invisibili. Siamo dalla parte di chi vuole e deve investire per la sanità come abbiamo fatto in pandemia, e deve investire in formazione e combattere per la precarietà. Siamo dalla parte della questione morale». Detto ciò, precisa Conte, «noi siamo seduti a tutti i tavoli, per dare il nostro contributo, per confrontarci. Siamo disponibili a creare dei progetti per che siano utili per le comunità locali».

A DISTANZA replica Nicola Fratoianni, intervenendo a Bari al congresso regionale pugliese di Sinistra italiana. «L’unica possibilità è costruire un’alternativa politica, e qui casca l’asino, qui c’è il problema – afferma il segretario di Si – Il livello di insufficienza dell’opposizione politica è disarmante e possiamo dirlo con forza perché siamo quelli che con più determinazione e generosità hanno lavorato e lavorano per costruire le condizioni per una larga unità in grado di costruire l’alternativa alle destre. Non si è trovata la quadra, c’è una situazione aperta». Fratoianni ha poi rivendicato il percorso che ha condotto a scegliere Vittoria Ferdinandi come candidata unitaria a Perugia per le prossime comunali. «Si è avuto un accordo con una splendida candidatura ma nella stragrande maggioranza dei territori non ci siamo ancora – ha detto – Ma non è che il tema delle alleanze qualcuno può risolverlo tutto nella dialettica tra M5S e Pd, non funziona e non è utile nemmeno alla soluzione dei problemi. Lo dico qui oggi perché qualcuno intenda»

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