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Giovedì 8 febbraio la Struttura Commissariale arriva a Faenza. L’incontro è in programma al Cinema Sarti dalle 10 alle 17,30 per affrontare le criticità legate alle ordinanze commissariali, con particolare riferimento a perizie, piattaforma Sfinge e ristori. A oltre otto mesi dall’alluvione che ha sconvolto la città e la Romagna, la ricostruzione, soprattutto in ambito privato, procede ancora con diversi intoppi e a descrivere la situazione sono i freddi numeri: a fronte di una stima di circa 60mila richieste di rimborso, in tutte le aree colpite, ne sono in realtà arrivate alla regione circa mille e, di queste, solo un centinaio sono state reindirizzate ai comuni. «Siamo davanti a un fallimento evidente di Sfinge, commenta Marcello Arfelli del Comitato alluvionati Borgo-Sarna di Faenza – e l’incontro con la struttura commissariale è un’occasione per comprendere il motivo di questo insuccesso. Come Comitato riteniamo che Sfinge sia stata concepita per danni da terremoto e probabilmente non si adatta bene alla nostra situazione. La procedura per richiedere i ristori è burocratica e farraginosa, arrivando a dissuadere il cittadino dal presentare domanda di rimborso».

Le proposte saranno avanzate alla Struttura Commissariale in visita a Faenza

Non c’è solo l’eccessiva burocrazia però a spiegare la scarsa mole di domande presentate, per tanti cittadini colpiti semplicemente non ha senso procedere con la perizia. «Per chi ha un danno contenuto – spiega Arfelli – magari limitato a garage o cantina, eseguire una perizia non conviene perché spesso il costo della perizia, svolta da un tecnico, raggiunge o supera quello dell’intervento stesso. In questo modo il rischio è che le persone preferiscano far svolgere i lavori in nero: è paradossale, ma il modo in cui è stata concepita la procedura legata a Sfinge rischia dunque di incentivare il lavoro nero. Come Comitato la nostra proposta, per superare queste criticità, è semplificare e prevedere due scaglioni. Per danni importanti, superiori ai 20-30 mila euro, l’iter da seguire deve essere quello già previsto dalla Struttura Commissariale, con l’esecuzione della perizia, ma per danni inferiori a certe cifre sarebbe più logico applicare la procedura già sperimentata con il Contributo di Immediato Sostegno. A fronte delle spese sostenute anticipatamente, si presentano le fatture e si riceve il rimborso. Si tratta comunque di una procedura utilizzata ormai da tempo da parte della Protezione Civile e quindi collaudata».

La bocciatura sui beni mobili

A tenere banco nei giorni scorsi è stato anche il mancato rimborso dei beni mobili, con gli emendamenti al Dl Energia, su questo tema, bocciati al Senato e il presidente della Regione Stefano Bonaccini che si è detto colpito dalla decisione. «Speriamo – spiega Arfelli – che possa essere emanata il prima possibile l’ordinanza relativa ad arredamenti e beni mobili. Come Comitato abbiamo avanzato la proposta di un forfait per ogni stanza: 2.500 euro a stanza e 5mila euro per la cucina, fino a un massimo rimborsabile di 15mila euro. Per ora la proposta è stata rispedita al mittente, noi auspichiamo almeno possa essere valutata perché ci sembra un buon suggerimento. Tra l’altro, in questo modo, si potrebbe riconoscere un indennizzo anche agli inquilini, categoria esclusa da ogni tipo di ristoro e questo è davvero eticamente ingiusto».

La sicurezza futura

Sebbene non al centro dell’incontro con la Struttura Commissariale c’è poi un altro tema prioritario che interessa i faentini ed è la messa in sicurezza della città. «A marzo 2024 l’Autorità di Bacino, responsabile per l’attività di pianificazione – illustra Arfelli – dovrebbe presentare il piano di bacino, in cui saranno individuate le aree idonee alla realizzazione delle casse di espansione. Dopodiché starà alla Regione, competente a livello di ambiente fluviale, occuparsi di progettazione ed esecuzione degli interventi. Un nodo potrebbe essere rappresentato dalle trattative con i proprietari dei terreni su cui dovranno sorgere le casse di espansione e per questo sarà necessario prevedere adeguate forme di compensazione e trovare una mediazione, in modo da non arrivare al muro contro muro, perdendo tempo prezioso. Basti pensare alla cassa di espansione sul Senio, da realizzare in località Cuffiano è ferma da 22 anni. Sono tempistiche inaccettabili».

Le proposte sulla sicurezza in città: il muro di via Renaccio e un rilevato in terra lungo via Cimatti

sopralluogo faenza 6 febb

In attesa di un piano che possa mettere in sicurezza Faenza e far dormire sonni più tranquilli a chi vive nelle aree colpite lo scorso maggio, resta necessario attuare alcuni interventi per mitigare, fin da subito, il rischio idraulico e per questo il Comitato Borgo-Sarna sta collaborando con il Comune che, come dichiarato dal vice sindaco Fabbri alla nostra testata, non vuole restare a guardare, in attesa della presentazione del piano da parte dell’Autorità di Bacino. «Il muro in via Renaccio – commenta Arfelli – ormai prossimo alla conclusione è sicuramente un progetto che consente di innalzare il livello di sicurezza. Un’altra proposta che abbiamo avanzato è quella di realizzare un rilevato in terra lungo la salita di via Cimatti, accanto alla sede stradale, per proteggere il Borgo da eventi alluvionali analoghi a quello del 2-3 maggio. Si tratta di un’opera – conclude – dai costi contenuti, facile da realizzare, ma che innalzerebbe sensibilmente la sicurezza idraulica, portando benefici ad un’area colpita duramente per ben due volte».

Samuele Bondi

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IL LIMITE IGNOTO. Scarica di missili sull’Ucraina, 4 morti a Kiev. Aiuti a rischio, Zelensky studia contromisure. Il capo della diplomazia Ue Borrell in visita nella capitale: «La mia giornata è iniziata in un bunker»

Vigili del fuoco al lavoro sul condominio colpito dall’attacco russo su Kiev foto Ap Vigili del fuoco al lavoro sul condominio colpito dall’attacco russo su Kiev - Ap

Mosca invia un messaggio chiaro all’Ucraina e ai suoi alleati: la guerra non è in pausa. Una pioggia di missili e droni hanno colpito diverse città ucraine ieri mattina mentre l’Alto segretario per gli Affari esteri dell’Ue, Josep Borrell, stava discutendo con le autorità locali degli aiuti militari e del sostegno finanziario a Kiev. Stando alle dichiarazioni dello staff di Zelensky, la Russia ha lanciato missili da crociera e balistici e droni di tipo Shahed (i famosi droni kamikaze) contro sei regioni dell’Ucraina, uccidendo almeno cinque civili e ferendone quasi altri 50, tra cui una donna incinta.

NELLA CAPITALE si è registrato il bilancio più drammatico: almeno 4 morti e 40 feriti, secondo il Servizio di emergenza nazionale. Le vittime sono state colpite dai resti di una testata che si è schiantata contro un alto palazzo residenziale, causando un incendio che ha sventrato gli appartamenti di diversi piani. Due linee elettriche danneggiate durante l’attacco hanno lasciato senza corrente circa 20 mila famiglie sulla riva orientale del fiume Dnipro e si è trattato della prima interruzione di corrente significativa nella capitale dall’inizio dell’anno, dove l’allarme non era così alto da molto tempo.

«Ho iniziato la mia giornata in un rifugio antiaereo» ha dichiarato Borrell, «ma questa è parte della realtà quotidiana dell’Ucraina dopo quasi due anni di guerra». Successivamente, il rappresentante estero dell’Ue ha visitato un impianto di produzione di droni dell’aeronautica e ha raccolto dati sulle «necessità più urgenti» per la Difesa di Kiev.

Il Ministero della Difesa russo ha dichiarato di aver utilizzato le solite «armi di precisione» contro le fabbriche ucraine che producono droni marini e sistemi d’arma. E come da copione: «Tutti gli obiettivi sono stati colpiti».

ANCHE LA CITTÀ COSTIERA di Mykolayiv è stata di nuovo bersagliata dopo qualche settimana di relativa quiete. Il raid ha danneggiato «circa 20 edifici residenziali e infrastrutture pubbliche», secondo il governatore locale Vitaly Kim, uccidendo un uomo e ferendo 6 persone. A Kharkiv, nel nord-est del Paese, un raid di missili S-300, di solito destinati alla contraerea ma in questa guerra usati anche per scopi offensivi (e quindi molto imprecisi) hanno ferito alcune persone senza però causare vittime. I missili hanno raggiunto anche Leopoli, poco distante dal confine polacco, causando un forte incendio.

IL PROLUNGARSI DELLA GUERRA ha obbligato i vertici ucraini a ripensare alla strategia per contrastare la maggiore disponibilità di armamenti delle forze del Cremlino. L’aiuto dell’Occidente è vitale e l’ostruzionismo dei repubblicani alla Camera di Washington ha bloccato di nuovo i 60 miliardi che avrebbero potuto dare un po’ di respiro all’esercito ucraino. Il mese scorso il presidente Zelensky aveva chiarito che «difesa aerea e sistemi di guerra elettronica in grado di fermare i droni nemici» sono le priorità di Kiev. La «lista della spesa» la chiamava qualcuno in modo dispregiativo a inizio guerra.
Ma è evidente che queste forniture sono l’ossatura su cui si regge la resistenza ucraina all’incessante martellamento russo. La conformazione stessa del fronte, lungo circa 1.500 km, obbliga a tenere le posizioni su diverse direttrici e gli uomini in prima linea hanno bisogno di riposarsi. Soprattutto in vista di una possibile nuova offensiva in forze dei russi che, secondo diversi analisti, potrebbe iniziare non appena le condizioni metereologiche lo permetteranno.

Il ghiaccio per ora ha letteralmente congelato il fronte, a eccezione delle zone di Avdiivka e di Kupiansk, ma la primavera è vicina. Quindi, e di nuovo, per Zelensky si tratta di una corsa contro il tempo.

TRA L’ALTRO IERI LA MISSIONE di monitoraggio dei diritti umani delle Nazioni unite in Ucraina ha dichiarato che le vittime civili della guerra hanno ricominciato a crescere dopo un periodo di calo l’anno passato. A gennaio i funzionari dell’Onu hanno documentato 158 morti e 483 feriti tra i civili, con un aumento del 37% rispetto a novembre del 2023. Complessivamente, secondo l’Onu, finora il conflitto con la Russia è costato la vita a 10 mila civili ucraini e ne ha feriti quasi 20 mila

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FABBRICHE A RISCHIO. Non accadeva da 14 anni, nel pieno del durissimo scontro tra Sergio Marchionne e la Fiom Cgil. La stop operaio di un'ora al termine di una partecipatissima assemblea. "Mobilitiamoci come gli agricoltori, il nostro futuro è incerto e non ci danno risposte". Da lunedì l'ennesima cassa integrazione per 2.260 addetti, fino al 30 marzo. La Fiom: dal 2027 non ci saranno più modelli, la fabbrica si sta spegnendo

 La Fiom Cgil di Mirafiori

A Mirafiori l’ultimo sciopero spontaneo con corteo interno degli operai risaliva a 14 anni fa, nel pieno del durissimo scontro tra Sergio Marchionne e una Fiom Cgil che per cinque anni, dal 2010 al 2015, fu letteralmente espulsa dagli stabilimenti Fiat. Basta questo dato per capire l’impatto della presa di posizione degli operai della linea 500 elettrica, che hanno incrociato le braccia per un’ora e sono usciti in corteo dalla porta 2 dello stabilimento torinese. Una protesta avviata al termine della partecipatissima assemblea organizzata dalla Fiom – in contemporanea con quella a Pomigliano – come primo atto di una campagna di ascolto in tutto il gruppo Stellantis, dopo le parole dell’ad Carlos Tavares che non ha dato alcuna garanzia sull’occupazione e sulla tutela degli stabilimenti italiani, in particolare proprio Mirafiori e Pomigliano.

“Mobilitiamoci come gli agricoltori – hanno proposto alcuni operai – il nostro futuro è incerto e non ci danno risposte”. Per certo, come racconta il segretario nazionale responsabile automotive dei metalmeccanici Cgil, Samuele Lodi, “la partecipazione alle assemblee è stata straordinaria, perché c’è forte preoccupazione per le dichiarazioni di Tavares. Una preoccupazione da affrontare in modo solidale, senza distinzioni di sigle sindacali”.

Le rassicurazioni del presidente del gruppo John Elkann sugli impegni italiani di Stellantis non convincono affatto gli operai della fabbrica torinese, dove alla cig prevista inizialmente dal 12 febbraio al 4 marzo si è aggiunto lunedì un ulteriore mese, dal 4 al 30 marzo, di cassa integrazione per 2.260 addetti delle linee della 500 elettrica e della Maserati. Così in assemblea il segretario generale della Fiom torinese Edi Lazzi, il numero uno della Cgil Piemonte, Giorgio Airaudo, e Gianni Mannori responsabile Fiom Mirafiori, hanno fatto il punto di una situazione più che allarmante.

“Per quanto sappiamo oggi – ha spiegato Airaudo – dal 2027 Mirafiori non avrà più prodotti. Se non arriveranno nuovi prodotti e non ci sarà un’inversione di tendenza sul mercato europeo, la fabbrica sarà ridotta al lumicino”. E questo in una realtà dove “sono 17 anni che dura la cig, l’occupazione complessiva è passata da 20mila a 12mila lavoratori, e negli ultimi anni 1.500 impiegati, tecnici e ingegneri hanno lasciato l’azienda. Ora basta, vogliamo un piano per Mirafiori che ci porti a 200mila vetture, come richiesto dalla piattaforma unitaria, e dia garanzie occupazionali per il prossimo decennio”.

“Non possiamo assistere al lento, inesorabile spegnimento degli stabilimenti – tira le somme Lodi – Stellantis non può continuare a non dare risposte. Dopo la richiesta congiunta di Fiom, Fim e Uilm di un incontro alla presidente del Consiglio e all’ad Tavares, le lavoratrici e i lavoratori chiedono di continuare a mettere in campo iniziative che spingano le istituzioni a tutelare produzione e lavoro. Anche perché al momento il tavolo al ministero non ha prodotto i risultati sperati”

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IL LIMITE IGNOTO. Le rassicurazioni del ministro degli Esteri Kuleba servono a poco

Kiev, «reset» ai vertici: non solo Zaluzhny. Si dimette la ministra Laputina 

«Non penso che eventuali cambiamenti nel governo possano avere ripercussioni sulle relazioni con i nostri partner perché rispettano il diritto del presidente di prendere queste decisioni» ha dichiarato ieri il ministro degli Esteri ucraino Kuleba. Eppure i timori ci sono e le rassicurazioni di un fedelissimo di Zelensky valgono a poco. Stando alle parole dello stesso presidente, infatti, a breve ci sarà un vero e proprio «reset». Non solo il capo di stato maggiore: i vertici del ministero degli Interni, della Difesa e alcune agenzie governative già tremano.

È stata finalmente sdoganata la possibilità che a sostituire Zaluzhny, che secondo alcune indiscrezioni potrebbe essere licenziato ufficialmente già domani, con l’attuale capo dei servizi segreti militari Kyrylo Budanov. Ciò dimostrerebbe che gli equilibri interni i vedevano Zelensky e i servizi contrapposti ai militari.Oppure che il governo centrale cerca un capro espiatorio per l’attuale stallo militare. Intanto lunedì si è dimessa, senza specificare il perché, la ministra per i Veterani, Yuliia Laputina. Per molti è solo del primo segnale.

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«Nessun negoziato con Hamas, l’unica vittoria è militare». Al termine di un inutile colloquio con l’inviato Usa, Netanyahu gela le speranze di Gaza e quelle delle famiglie degli ostaggi. Via libera ai tank israeliani verso Rafah: due milioni di civili palestinesi in trappola

INVADO AVANTI. Dopo ore di colloquio con Blinken, il primo ministro insiste: l’unica vittoria è militare. Rabbia delle famiglie degli ostaggi. Rifiutata la proposta di Hamas, 135 giorni di pausa, ma al Cairo il team israeliano continua a dialogare. Gaza in trappola conta 27.708 uccisi, 12mila sono bambini: una mattanza

Sopra le macerie di Rafah foto Ap Sopra le macerie di Rafah - Ap/Mohammed Talatene

Il poster «Bring them back», riportateli indietro, il primo ministro israeliano Benyamin Netanyahu ce l’ha sotto il naso. Di fronte alla sua residenza, al numero 35 di Azza Street (Via Gaza, vuole il fato), ne hanno appeso uno, promemoria giornaliero. Un altro lo hanno legato a uno dei balconi della palazzina in cui vive.

Grigia e decadente, non diresti mai che lì dentro ci abiti un primo ministro. Lo dice la sicurezza fuori, metal detector, guardie armate, barriere metalliche.

È QUI che si ritrovano spesso i familiari dei 136 ostaggi ancora a Gaza, almeno 32 uccisi secondo le ultime dichiarazioni ufficiali. È anche a loro che ieri il premier si è rivolto nella conferenza stampa serale, seguita all’incontro – l’ennesimo – con il segretario di stato Usa Antony Blinken.

Si è rivolto a loro per dirgli che si mettano pure l’anima in pace: nessun negoziato con Hamas. Il premier è apparso in tv alle 19.30 ora locale per un lungo giro di parole che ha preferito al «no» secco un rifiuto implicito: la vittoria «decisiva» è «nelle nostre mani, è una questione di mesi»; «Non c’è altra soluzione» alla distruzione totale

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GAZA. Hamas ha dato la sua risposta alla proposta di cessate il fuoco emersa al vertice di Parigi. Israele la esamina. Biden la descrive come «esagerata».
 

Rana Al Faqeh, del call center di emergenza della Mezzaluna rossa a Ramallah, ha provato in tutti i modi a restare in contatto con Hind Hamada, ha fatto di tutto per rassicurare la bambina che, terrorizzata, riferiva al telefono dell’avvicinarsi di un carro armato israeliano. Poco prima anche la mamma, Wissam, aveva provato a calmare la figlia che lei stessa aveva messo sull’auto di uno zio diretto, con la cugina 15enne Layan e altri due bambini, al rifugio dell’ospedale Ahli a Gaza city. «Il carro armato è accanto a me. Si sta muovendo», ha gridato Hind. Rana ha cercato di mantenere la calma. «È molto vicino?», ha domandato. «Molto» ha risposto Hind con un filo di voce. «Verrai a prendermi? Ho tanta paura». La bambina in quel momento era in vita, ferita alla mano come aveva detto alla mamma, ma circondata dai cadaveri dei suoi parenti uccisi, pensano alla Mezzaluna rossa, da una raffica sparata dal mezzo corazzato contro l’auto. Poi, dopo urla di paura registrate dal call center, da Hind è giunto solo il silenzio. Di lei non si è saputo più nulla, così come si sono perse le tracce di Yousef Zeino e Ahmed Madhoun, i due paramedici che non avevano esitato a salire sull’ambulanza per tentare di raggiungere la bambina anche se non era stato possibile localizzare con precisione l’automobile. «Dov’è Hind? Dove sono Yousef e Ahmed? Sono ancora vivi? Vogliamo conoscere il loro destino», ha scritto ieri la Mezzaluna rossa su X.

Hind Hamada

Hind era partita da casa sua, a Gaza City, il 29 gennaio. Quella mattina l’esercito israeliano aveva intimato ai palestinesi di evacuare le zone a ovest della città e di spostarsi a sud lungo la strada costiera. Si pensa che l’auto si sia trovata inaspettatamente faccia a faccia con i carri armati israeliani, finendo sotto il fuoco dei tank. Nella telefonata registrata, la prima a rispondere è Layan. La conversazione finisce con il suono degli spari e le urla. Quando la Mezzaluna Rossa richiama, è Hind a rispondere, con la voce soffocata dalla paura. La bambina è l’unica sopravvissuta nell’auto. «Nasconditi sotto i sedili. Non farti vedere da nessuno», le dice Rana. In quelle ore la Mezzaluna Rossa a Ramallah, si appellava all’esercito israeliano affinché consentisse alla loro ambulanza di soccorrere Hind. I paramedici a un certo punto hanno detto di essere quasi arrivati nella zona con la bambina. Poi la linea si è interrotta definitivamente. Né le squadre della Mezzaluna Rossa a Gaza, né la famiglia di Hind, sono stati in grado di raggiungere il luogo che si trova all’interno di una zona di combattimento attiva controllata dall’esercito israeliano.

La storia di Hind, divenuta tra i palestinesi il simbolo di tutti i bambini di Gaza, oltre 10mila uccisi dal 7 ottobre, è stata ignorata per giorni. Ora comincia a girare e il premier israeliano Netanyahu avrebbe potuto ordinare alle sue forze armate di lasciar passare i soccorritori, in modo da cercare e recuperare i corpi della bambina e dei suoi parenti e quelli dei paramedici della Mezzaluna rossa che si ritengono morti. Il primo ministro ha altro per la testa. Ha fatto sapere di aver accolto con sdegno la notizia dell’esercitazione condotta dalle forze armate in cui è stato simulato un rapimento effettuato da coloni israeliani a danno di civili. Per questo ha subito ordinato una inchiesta, riferisce The Times of Israel, perché non è «disposto ad accettare una tale mancanza di cuore nei confronti dei nostri fratelli e sorelle in Giudea e Samaria (la Cisgiordania occupata, ndr)». A dar manforte a Netanyahu e alla destra estrema è arrivato ieri in Israele l’ultraliberista presidente argentino Milei che ha confermato la sua fama di clone di Donald Trump affermando, appena atterrato, che sposterà l’ambasciata del suo paese da Tel Aviv a Gerusalemme ovest, la zona ebraica della città.

Oggi invece giunge a Tel Aviv il segretario di Stato Blinken, alla sua quinta missione in Medio oriente negli ultimi quattro mesi. Durante una conferenza stampa ieri a Doha, dopo la tappa in Egitto, Blinken ha detto che «c’è stato qualche movimento» riguardo la possibilità di una tregua a Gaza. E che gli Stati Uniti stanno esaminando il riscontro dato alla proposta concordata a Parigi da Usa, Israele, Egitto e Qatar per una «nuova pausa umanitaria». Dagli Stati Uniti, il presidente Biden ha parlato di una risposta di Hamas «un po’ eccessiva» ma che le trattative continuano. Il premier del Qatar, Mohammed Al Thani, ha confermato da parte sua che Hamas ha dato la sua risposta ma, ha precisato, «i particolari non possono essere discussi ora». Secondo indiscrezioni, il movimento islamico continua a chiedere la fine definitiva dell’offensiva israeliana a Gaza e del blocco israelo-egiziano sulla Striscia, la ricostruzione dell’enclave e il rilascio dei prigionieri politici palestinesi in cambio della liberazione degli ostaggi.

Al Cairo e Doha, Blinken ha discusso con il presidente El Sisi e i regnanti qatarioti più di ogni altra cosa degli ostaggi israeliani a Gaza e, all’interno dell’accordo di tregua, della loro liberazione. Gli ostaggi erano e restano il tema centrale nel dibattito in Israele. E le autorità militari, a commento di un articolo del New York Times, hanno confermato che, sulla base di notizie di intelligence, 31 dei 136 ostaggi sono morti. Non solo, hanno aggiunto che potrebbero essere deceduti altri venti sequestrati

 
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