Scritto da Michele Giorgio, GERUSALEMME su il manifesto
Rafah: nella città minacciata dall’offensiva israeliana ci sono 600.000 bambini. La piccola Hind Rajab, scomparsa da 12 giorni, è stata intanto ritrovata morta insieme alla sua famiglia e ai due paramedici mandati a salvarla. L’Egitto alza un muro sormontato da filo spinato per impedire la fuga nel suo territorio dei palestinesi rimasti senza più vie di fuga
GAZA. La piccola Hind Rajab, scomparsa da 12 giorni, è stata ritrovata morta insieme ai due paramedici mandati a salvarla. Secondo i media di Tel Aviv Netanyahu punterebbe a un’offensiva rapida, che finisca prima del Ramadan
Macerie a Rafah - Ansa
La speranza che Hind fosse ancora in vita e così anche i due paramedici inviati a salvarla, erano poche, quasi nulle. La notizia, temuta da tutti ma non inattesa, è arrivata ieri alle prime luci del giorno. Hind Rajab, la bimba di 6 anni scomparsa da 12 giorni, è stata ritrovata morta, sull’auto assieme allo zio Bashar Hamada, sua moglie e i loro tre figli. Tutti uccisi dal fuoco di un carro armato israeliano il 29 gennaio, mentre l’automobile era diretta all’ospedale Al Ahli di Gaza city.
Il viso dolce e il sorriso di Hind saranno tra i più ricordati tra quelli degli oltre 10mila bambini e ragazzi palestinesi uccisi dell’offensiva israeliana che ha distrutto la Striscia di Gaza facendo 28mila morti e 70mila feriti. La sua storia ha fatto il giro del mondo. La Mezzaluna Rossa aveva ricevuto l’autorizzazione ad inviare un’ambulanza a Tal Al Hawa, alla periferia di Gaza city, per salvare Hind da alcune ore intrappolata in un’auto, unica sopravvissuta delle sei persone a bordo, tra cui altri bambini, al fuoco dei mezzi corazzati israeliani. Dopo l’uccisione di zii e cugini, Hind, ferita e impaurita, aveva parlato a lungo al telefono con la mamma e un’operatrice del call center della Mezzaluna Rossa a Ramallah. La bimba aveva detto di vedere le «luci rosse lampeggianti» dell’ambulanza poco prima che la chiamata – registrata dalla Mezzaluna Rossa – fosse interrotta dal fuoco di un mezzo corazzato. Altre raffiche di mitragliatrice hanno ucciso Yusuf Zeino e Ahmed Al Madhoun, i due paramedici che malgrado il rischio della vita si erano offerti di raggiungerla.
Il ritrovamento del corpo della bambina, ha gettato un’ulteriore ombra sul futuro dei circa 600mila minori palestinesi che si trovano
Sul mensile diretto da Peter Gomez, in edicola da sabato 10 febbraio, il punto su ricostruzione e rimborsi per il disastro di maggio: su 60 mila danneggiati, poco più di duemila hanno presentato domanda d'indennizzo. Gli amministratori locali denunciano: "Procedure farraginose, così il governo spenderà meno". E l'Appennino è stato dimenticato, nonostante i proclami bucolici di Giorgia Meloni
Pochi giorni prima di Natale, a Lugo di Romagna, si sono riuniti una ventina di geometri. Obiettivo, decifrare due ordinanze del generale Francesco Paolo Figliuolo, commissario straordinario di governo per la ricostruzione e gli indennizzi per l’alluvione che a maggio ha colpito in particolare l’Emilia-Romagna. «Un rompicapo», si sfoga uno di loro, Mirko Cicognani, professionista di Faenza, su Fq MillenniuM, il mensile diretto da Peter Gomez, in edicola da sabato 10 febbraio.
Il generale Figliuolo è dipinto dai media come un uomo della Provvidenza, e la politica gli dispensa incarichi delicati, a partire dalle vaccinazioni in pandemia. FQ MillenniuM è andato a verificare il suo operato sul campo. A gennaio 2024 – documenta l’inchiesta di Natascia Ronchetti – solo poco più di 2000 fra persone e aziende avevano caricato on line le domande di indennizzo, a fronte di 60 mila danneggiati. Colpa delle procedure farraginose: «Di questo passo il governo spenderà meno di quanto previsto, perché c’è un limite oltre il quale imprese e cittadini rischiano di scoraggiarsi», afferma Davide Baruffi, sottosegretario alla presidenza della Regione. Intanto, a Faenza 750 persone vivono ancora fuori dalle loro abitazioni, danneggiate da acqua e fango.
INTERROGAZIONE PARLAMENTARE DEL VERDE BONELLI. La convenzione firmata il 29 ottobre nel pieno dell’offensiva una «pessima pagina»
Sull’intesa siglata in piena offensiva israeliana tra Eni e governo israeliano per estrarre gas nelle acque di fronte alla Striscia di Gaza, il leader dei Verdi Angelo Bonelli ha presentato un’interrogazione parlamentare e chiesto un’urgente audizione del governo e di Eni S.p.A., affinché «spieghino come sia possibile aver firmato contratti che prendono risorse appartenenti al popolo palestinese».
Alla premier Giorgia Meloni, al «governo Eni-Meloni», viene chiesto conto in particolare di «una scelta che «non può – secondo il co-portavoce di Europa Verde e deputato di Avs – che riempirci di vergogna». L’interrogazione allega l’appello-denuncia dei gruppi palestinesi per i diritti umani Adalah, Al Mezan, Al-Haq e PCHR, che hanno dato mandato allo studio legale Foley Hoag LLP di Boston di comunicare a Eni e alle altre società coinvolte una diffida dall’intraprendere attività in queste acque. Evocando il rischio di complicità in crimini di guerra.
La firma della convenzione con cui Eni e altre società internazionali e israeliane hanno ottenuto la licenza a operare all’interno della zona marittima G, al 62% palestinese, è stata annunciata dal Ministero dell’Energia israeliano lo scorso 29 ottobre. Quella del governo secondo Bonelli è una «nuova pessima e inaccettabile pagina dell’operato predatorio nello sfruttamento di risorse naturali in termini di approvvigionamento energetico e non curante delle norme del diritto internazionale».
Scritto da Chiara Cruciati, INVIATA A GERUSALEMME su il manifesto
Israele non ascolta nessuno e ordina di evacuare l’ultimo lembo della Striscia. Netanyahu annuncia un’«operazione massiccia» di terra a Rafah, dove si sono rifugiate 1,4 milioni di persone, 600mila i bambini. È il passo finale per svuotare Gaza dai palestinesi. Che non hanno dove cercare salvezza: l’Egitto blinda il confine
FUORI TUTTI. Inascoltati gli appelli disperati dell’Onu e delle ong internazionali. Un milione e mezzo di palestinesi sfollati non hanno altro rifugio. Progetto già imbastito il 13 ottobre scorso. L’Egitto fortifica i confini. Unrwa: «Tragedia senza fine»
Una strada di Rafah dopo un bombardamento aereo israeliano - Ap/Fatima Shbair
Si può essere felici a Rafah? Sami lo è: ha girato tutta la città e tutta Khan Yunis, per giorni, con una missione. Trovare un po’ di zinco, merce rara perché «l’ha comprato tutto il Qatar». Ci è riuscito e ha costruito una cucina.
Da qualche giorno è in funzione, sforna già 2.500 pasti caldi nel fazzoletto di costa che è al-Mawasi, 14 chilometri per uno, dove gli sfollati palestinesi dal sud sono un fiume che non si ferma mai. Sami riesce con fatica a telefonare a Meri Calvelli, cooperante a Gaza che con la sua ong, Acs, e il sostegno di reti di solidarietà italiane ha mandato giù i soldi necessari a inventarsi una cucina tra le tende di al-Mawasi.
LE TELEFONA ed è felice, perché ora ci sono quattro cuochi e 13 volontari che ogni giorno danno da mangiare a 2.500 persone. Senza gas, perché di gas nella Striscia non ce n’è, si cucina a fuoco vivo.
«Riso, verdure, lenticchie vengono distribuiti nelle tende dai responsabili degli accampamenti – ci dice Meri – così che la gente non debba accalcarsi». Le attrezzature sono state fornite dal World Central Kitchen, realtà internazionale che si occupa di sfamare chi ha fame nei contesti di povertà e disastri naturali, ora anche in quelli di conflitto.
«La cucina la gestisce Mohammad, un cuoco che aveva partecipato alle nostre formazioni, aveva anche seguito uno stage di pizza acrobatica in Sicilia». Era rientrato a Gaza poco prima del 7 ottobre con il sogno per niente celato di aprire un ristorante tutto suo. Adesso Mohammad gestisce una cucina di guerra.
Difficile dire quanti altri sfollati arriveranno ad al-Mawasi nei prossimi giorni, già adesso contarli è quasi impossibile, il flusso è continuo.
Arriveranno perché il governo israeliano non sente ragioni, nemmeno quelle dell’alleato statunitense che ritiene Rafah una linea rossa: ieri pomeriggio il primo ministro Netanyahu ha inviato una nota stampa per dire che nella città più a sud di Gaza sono operativi «quattro battaglioni di Hamas» e che «l’intensa attività richiede che i civili siano evacuati dalle zone di combattimento».
PER QUESTO, conclude la breve nota, «ha ordinato all’esercito e alla sicurezza di sottoporre al gabinetto un piano combinato per l’evacuazione della popolazione e
IL LIMITE IGNOTO. Il capo di stato maggiore era l'antagonista più pericoloso del presidente. Contrario alla carneficina di Bakhmut. Forse ora inizierà la sua carriera politica
Valerii Zaluzhny - Ap
Tutto come da copione, con tanto di ultima scena dal finale aperto. Zaluzhny è stato licenziato, Zelensky l’ha cacciato liberandosi finalmente del suo antagonista più pericoloso. Il popolarissimo capo di stato maggiore che ha dato il suo volto e la sua mente alla Difesa dell’Ucraina ieri è stato scaricato. Al suo posto Syrsky, l’attuale capo delle forze di terra, criticato aspramente per la sconfitta di Bakhmut, poco amato dai soldati al fronte per le sue «fissazioni tattiche» che in diversi frangenti hanno inviato interi battaglioni a morire per conquistare pochi metri o una posizione non fondamentale.
E INTANTO al fronte la confusione e lo scoramento regnano sovrani. Due anni di vita sospesa a difendere un Paese che poi mette alla porta uno dei suoi uomini più validi solo per una bega di potere? C’è chi è pronto a giurare che il presidente Zelensky alla lunga sconterà le ripercussioni di questa decisione.
Zaluzhny è un eroe di guerra troppo scomodo perché possiede una sola delle caratteristiche del buon soldato, quella sbagliata in questa fase della guerra. È un combattente valoroso ed è completamente devoto all’esercito ma non obbedisce tacendo. Anzi, parla e, secondo Zelensky, troppo. La prima volta è stata durante l’assedio di Bakhmut: Zaluzhny sosteneva la necessità di ritirarsi e mettere in salvo più soldati possibile in modo da poterli riutilizzare in seguito. Zelensky fu categorico: fino all’ultimo uomo. In questa decisione il presidente fu spalleggiato da Syrsky che sul campo eseguì pedissequamente la volontà del leader, provocando non poco scontento tra i soldati ucraini in quell’area convinti di essere ormai diventati le vittime sacrificali di una nuova Mariupol. Ma è stato l’articolo dello scorso ottobre pubblicato sull’Economist a far precipitare la situazione. In quella lunga analisi il generale dichiarava, prima di chiunque altro, che la controffensiva «non era andata come previsto» e che al fronte si era ormai allo stallo. Poi è stata la volta delle critiche contro il governo per aver smantellato il sistema dei centri di reclutamento e aver reso «impossibile lavorare».
ZALUZHNY è stato il primo, e finora unico, uomo di potere in Ucraina che abbia apertamente criticato Zelensky dall’inizio della guerra. Il che non rappresenta un merito in sé, ma lo diventa se riguarda la vita di migliaia di persone. Non spetta a noi assegnare meriti e demeriti ma è un fatto che un gruppo capace ha possibilità di vittoria maggiori di un singolo che si circonda di fedelissimi.
È questo il pericolo principale: dopo due anni di guerra, con la legge marziale in vigore (e appena prorogata), la guerra che non accenna a finire e gli alleati occidentali che potrebbero defilarsi Zelensky rischia di diventare un dittatore. Cerchiamo di fuggire la banalità della critica fine a sé stessa. È indubbio che il peso del quale il presidente ucraino si è fatto carico dal 24 febbraio del 2022 è enorme. È altrettanto evidente che sul piano diplomatico e comunicativo è riuscito a ottenere dei successi impensabili. Zelensky si è fatto simbolo della nazione ed è stato uno dei pilastri che della resistenza ucraina. Ha assunto poteri straordinari che la maggior parte degli ordinamenti democratici prevedono, il che non rende la sua gestione eticamente peggiore o migliore di quella di altri stati in guerra. Ma ora si trova di fronte a un bivio: mettere a tacere il dissenso o lasciare che si possa dire «non sono d’accordo». Soprattutto se a dirlo è qualcuno che ha combattuto al suo fianco la stessa guerra e che ha permesso diverse vittorie.
Tra gli analisti c’è chi sostiene che ora Zaluzhny inizierà la sua carriera politica. I sondaggi sembrano assegnargli una popolarità addirittura maggiore di quella di Zelensky. Anche per questo, probabilmente, il presidente ha scelto di metterlo alla porta. Senza contare che dietro le quinte c’è il capo dei Servizi segreti militari, l’imprevedibile Budanov. Non ancora così popolare, e probabilmente il suo ruolo non lo renderà mai una celebrità, ma temutissimo.
IL DILEMMA è il solito che accompagna la storia degli uomini di potere: meglio un uomo capace ma critico o un mediocre fedele? La strada imboccata ieri da Zelensky sembra orientarsi verso la seconda opzione. Ma attenzione, la storia finora ci ha insegnato che generalmente si tratta di una strada senza uscita
Scritto da Chiara Cruciati, INVIATA A GERUSALEMME su il manifesto
STRISCIA DI SANGUE. Famiglie, bambini, anziani, laici e ultraortodossi: in migliaia all’iniziativa organizzata da soldati e gruppi dell’estrema destra
In una abitazione distrutta dalle bombe a Rafah, nel sud di Gaza - foto Said Khatib/Getty Images
Dopo un’ora dall’inizio della manifestazione centinaia di persone continuano a farsi strada sulla collina che ospita le istituzioni israeliane. La Marcia della Vittoria non riesce a tagliare il traguardo desiderato, 50mila partecipanti, ma è comunque un successo: lì sul selciato che conduce alla Knesset e alla Corte suprema ce ne sono 10-15mila. Decisamente di più di chi scende in piazza in solidarietà con le famiglie degli ostaggi israeliani a Gaza.
Non scontato per un’iniziativa lanciata appena due settimane fa da un’organizzazione composita, che ruota intorno ai neonati Reservists until Victory (Mahal HaMiluimnikim): riservisti, soldati di ritorno da Gaza, rabbini, attivisti di destra ed ex militari del gruppo Ad Kan, e poi Mothers of Soldiers, Lobby 1701, il Tikva Forum, uniti sotto lo slogan «Andare avanti fino alla vittoria».
VITTORIA SIGNIFICA, spiega la soldatessa che apre gli interventi, la distruzione di Hamas, solo con l’esercito dentro Gaza si porta a casa il risultato. Un messaggio condiviso dai vertici governativi e da un pezzo di società israeliana: nessun negoziato, la guerra vada avanti. A impressionare, però, è la piazza: sembra più un happening, che un ritrovo di gente che chiede di fare la guerra. Famiglie, genitori con i figli ancora sui passeggini, anziane coppie, ragazzini. Laici e ultraortodossi, soldati in uniforme e civili con il fucile. Signori di mezza età in cravatta e giovani universitarie con le sneakers. Cittadini normali. Ci sono i papà che fanno ballare le figlie sulle spalle, ragazzini che portano una barella con sopra un elmetto da soldato, le file per ritirare il cartello con la foto di un soldato morto a Gaza.
IMMAGINI degli ostaggi, no: «Bisogna accettare qualche sacrificio per vincere», riassume Alex mentre distribuisce adesivi. «Netanyahu non provi a uscire da lì, va finito il lavoro o sarà stato sangue sprecato», spiega una giovane donna. Dal palco intanto si alternano gli interventi, insistono su una parola, «Vittoria», la gridano e sotto applaudono tutti sventolando migliaia di cartelli «Il mio amico non è morto invano». L’angoscia che accompagna la quotidianità post-7 ottobre, lo choc che tanti israeliani tentano di trasmettere, qui si fa euforia. La piazza canta, balla al ritmo della musica pop sparata dal palco, tiene il tempo con le trombette e improvvisa picnic. Il motivo, forse, lo centra Yonathan, 60 anni e baffi già bianchi: «Siamo diventati mainstream. Le nostre idee sono diventate mainstream». Dopotutto i riferimenti sono gli stessi dell’ultradestra al governo, del nazionalismo religioso e il sionismo messianico, ma anche del Likud: i palestinesi come gli amalek, vanno cancellati. «Si parla di finire la guerra, creare uno stato palestinese – diceva alla vigilia Matan Wiesel, uno degli organizzatori – Se non occupiamo e controlliamo il territorio del nemico, manderemo un messaggio alla regione: Israele è debole».
LO RIPETE da giorni la Marcia, partita il 4 febbraio dal kibbutz di Zikim e documentata su Facebook e X: foto di manifestanti in calzoncini mescolate ai videomessaggi di soldati sul campo, rabbini vicini ai movimenti di destra e genitori di militari caduti. Chiedono di riempire le piazze per riempire i cannoni: «La fine dei giorni è alle porte, quando apparirà il Messia tutti si inchineranno al Creatore». Gaza va spazzata via. Gaza se la cava fin troppo bene. E giù video dell’enclave palestinese girati prima del 7 ottobre ma spacciati per attuali, con mercati pieni di gente allegra, ristorantini di shawarma e camion in viaggio tra strade senza né macerie né crateri.
Gli obiettivi della Marcia, messi nero su bianco, sono gli stessi di un pezzo significativo di governo israeliano, quelli di Smotrich e Ben Gvir e le loro conferenze per la ricolonizzazione di Gaza e in forma più sottile quelli di Netanyahu: «Terra: assicurarsi la vittoria nella campagna sottraendo un territorio significativo alla Striscia di Gaza e annetterlo allo stato di Israele; Nemico: la distruzione di Hamas e l’incoraggiamento dell’immigrazione della popolazione “non coinvolta” di Gaza; Assistenza: al nemico non va fornita assistenza logistica». Ovvero gli aiuti umanitari che gruppi aderenti alla Marcia – in prima fila le Mothers of Soldiers – stanno bloccando, spesso con successo, al porto di Ashdod e al valico di Kerem Shalom. In breve: ricolonizzazione della Striscia ed espulsione della popolazione palestinese, e fino ad allora carestia e malattie.
Degli ostaggi israeliani non sembra esserci l’ombra: anche questo concetto si fa sempre più mainstream, solo la metà degli israeliani – secondo gli ultimi sondaggi – ritiene una priorità la loro liberazione (intanto ieri sera le famiglie erano a Tel Aviv a chiedere di nuovo un accordo).
GAZA è lontanissima, molto più di un’ora e mezzo di auto. Sopra il cielo di Gerusalemme non si sentono nemmeno i caccia, passano sopra la Cisgiordania. La città di Rafah è il punto più lontano di tutti. La notte prima della Marcia è stata pesantemente bombardata, soprattutto la zona ovest.
«UN’ESPANSIONE delle ostilità – avvertiva ieri l’ong Norwegian Refugee Council – può trasformare Rafah in un bagno di sangue e distruzione». Sessantatré km² che ospitano già 1,4 milioni di civili, due terzi dell’intera popolazione di Gaza. La Striscia che si rimpicciolisce allarma le Nazioni unite. Ieri Volker Turk, alto commissario per i diritti umani, ha avvertito Israele che la creazione di una zona cuscinetto attraverso la distruzione a tappeto di migliaia di edifici civili ammonta a crimine di guerra (sarebbero 3mila, secondo fonti ministeriali palestinesi, gli edifici dati alle fiamme nelle ultime settimane dall’esercito israeliano, spesso documentati sulle piattaforme social dagli stessi soldati).
E INTANTO si continua a morire: 27.840 palestinesi uccisi, a cui si aggiungono migliaia di dispersi. Tra le vittime anche una ragazzina di 14 anni, uccisa da un cecchino israeliano fuori dall’ospedale Nasser di Khan Yunis. Sembra fosse uscita per cercare dell’acqua.
PERCHÉ L’OSPEDALE è da giorni completamente assediato: 300 medici, 450 feriti e 10mila sfollati chiusi dentro, senza viveri; fuori c’è il fuoco dei cecchini, raccontano i giornalisti nelle vicinanze. Che, da parte loro, piangono un altro collega: Nafez Abdel Jawad, della Palestine Tv, è stato ucciso in un raid aereo con il figlio, a Deir el-Balah. È il 123esimo reporter ammazzato dal 7 ottobre scorso, certifica Reporter senza Frontiere: «L’esercito israeliano ha decimato il giornalismo palestinese»