Accedi Registrati

Login to your account

Username *
Password *
Remember Me

Create an account

Fields marked with an asterisk (*) are required.
Name *
Username *
Password *
Verify password *
Email *
Verify email *

L'abbraccio di Giorgia Meloni e Matteo Salvini in piazza nel 2019

L'abbraccio di Giorgia Meloni e Matteo Salvini in piazza nel 2019  © LaPresse

Diffidiamo, da sempre, dei sondaggi. Soprattutto quelli elettorali. Nel corso della storia, anche recente, si sono moltiplicati i casi di errori clamorosi, che poi hanno portato a commettere altri errori. Perché i sondaggi sono così, mai neutri. Tuttavia possono indicare una tendenza – politica, sociale, culturale, economica – soprattutto quando si riscontra una continuità nei periodici rilevamenti. Come ad esempio quella che indica una preminenza delle forze politiche di centrodestra e di destra.

Nell’ultimo sondaggio Ipsos, Berlusconi, Meloni e Salvini arrivano (o meglio, arriverebbero), al 50 per cento dei voti degli italiani. Ed è un dato – se lo accettiamo, se lo prendiamo per buono – abbastanza preoccupante. Anche perché confermerebbe quello che una parte dell’opinione pubblica democratica sostiene da tempo, l’essere, l’Italia, un paese di destra.
Se condividiamo questo “scatto fotografico” dobbiamo comunque dire che una buona parte degli elettori resta su posizioni progressiste.

Ma è un dato di fatto che non può consolarci. Allora dovremmo cercare di capire le ragioni che spingono la crescita delle destre. La risposta non è semplice, semmai complicata dal fatto

Commenta (0 Commenti)

Aveva 82 anni, figlio del partigiano Leonida, ex parlamentare di Democrazia proletaria, una vita passata nella sinistra milanese, da dirigente e da semplice militante

 

Se n'è andato questa notte Franco Calamida, 82 anni, ex parlamentare di Democrazia proletaria, una vita passata nella sinistra milanese, da dirigente e da semplice militante. La sua storia politica, lui che era figlio del partigiano Leonida, nasce nella sinistra lombardiana del Psi ma poi è tra i fondatori dei Comitati unitari di base ai tempi del Sessantotto. Così decide di rinunciare a una carriera dirigenziale in Philips, dov'era ingegnere, per abbracciare le lotte operaie e la causa della sinistra rivoluzionaria di Avanguardia operaia.

Negli anni successivi anima il Quotidiano dei Lavoratori, giornale di Ao e poi di Dp e riesce a entrare alla Camera con la piccola pattuglia demoproletaria. Non fu mai un partito di massa però a Milano, tra la fine degli anni Settante e gli Ottanta, Dp riusciva a toccare anche il 4 per cento dei consensi. Quando poi il partito si scioglie ed entra in Rifondazione comunista, Calamida segue la traiettoria ed è per anni consigliere comunale e vicepresidente del Consiglio a Palazzo Marino.

Fece parte di un gruppo di "sognatori di un socialismo rifondato e libertario, anticipatori di tanti temi sull'ambiente, l'antimafia, l'economia solidale, la pace. Franco aggiungeva alla radicalità di pensiero una particolare gentilezza, un rispetto per gli avversari, una sua ironia particolare, uno sconfinato amore per la ricerca, la natura, gli esseri umani", lo ricorda Alfio Nicotra, suo compagno di militanza nel Prc.

Se n'è andato questa notte Franco Calamida, 82 anni, ex parlamentare di Democrazia proletaria, una vita passata nella sinistra milanese, da dirigente e da semplice militante. La sua storia politica, lui che era figlio del partigiano Leonida, nasce nella sinistra lombardiana del Psi ma poi è tra i fondatori dei Comitati unitari di base ai tempi del Sessantotto. Così decide di rinunciare a una carriera dirigenziale in Philips, dov'era ingegnere, per abbracciare le lotte operaie e la causa della sinistra rivoluzionaria di Avanguardia operaia.

Negli anni successivi anima il Quotidiano dei Lavoratori, giornale di Ao e poi di Dp e riesce a entrare alla Camera con la piccola pattuglia demoproletaria. Non fu mai un partito di massa però a Milano, tra la fine degli anni Settante e gli Ottanta, Dp riusciva a toccare anche il 4 per cento dei consensi. Quando poi il partito si scioglie ed entra in Rifondazione comunista, Calamida segue la traiettoria ed è per anni consigliere comunale e vicepresidente del Consiglio a Palazzo Marino.

Fece parte di un gruppo di "sognatori di un socialismo rifondato e libertario, anticipatori di tanti temi sull'ambiente, l'antimafia, l'economia solidale, la pace. Franco aggiungeva alla radicalità di pensiero una particolare gentilezza, un rispetto per gli avversari, una sua ironia particolare, uno sconfinato amore per la ricerca, la natura, gli esseri umani", lo ricorda Alfio Nicotra, suo compagno di militanza nel Prc.

Negli ultimi mesi Calamida, impegnato in Milano in Comune, aveva ricordato e raccontato la sua esperienza nei Cub con un saggio pubblicato su un libro collettivo intitolato Volevamo cambiare il mondo (Mimesis). "Dopo l'assassinio di Peppino Impastato fu lui ad accorrere a Cinisi a tenere l'orazione funebre. L'ultima iniziativa a cui aveva partecipato - racconta Maurizio Acerbo, segretario del Prc - era stata proprio il 9 maggio scorso per ricordare Peppino. La sua perdita lascia un enorme vuoto di cultura e esperienza. Rimangono nel cuore di tante compagne e compagni il suo esempio di integrità morale e rigore intellettuale, la sua testimonianza di una vita spesa da militante per gli ideali di liberazione e giustizia sociale".

 

 

 

Commenta (0 Commenti)

Giustizia Sociale. In Cassazione la legge di iniziativa popolare: parte la raccolta di firme. Denominata "Next generation tax", sondaggi a favore. Fratoianni: diamo spazio ai giovani

Il segretario di Sinistra Italiana Nicola Fratoianni alla Corte di Cassazione

Il segretario di Sinistra Italiana Nicola Fratoianni alla Corte di Cassazione © Foto LaPresse

Depositata ieri mattina in Cassazione da una delegazione di Sinistra Italian la proposta di legge di iniziativa popolare per una tassazione delle grandi ricchezze e per far pagare meno chi paga regolarmente le tasse. È stato denominata «Next generation tax».
La proposta di legge ricalca l’emendamento presentato alla scorsa legge di bilancio: sostituire l’Imu e l’imposta di bollo sui conti correnti bancari e sui depositi titoli con una patrimoniale unica e progressiva sui grandi patrimoni con base superiore a 500mila euro derivante dalla somma dei beni mobili e immobili posseduti che vada dallo 0,2% al 2% per una base imponibile superiore ai 50 milioni di euro (che sale al 3% solo per il 2022 per finanziare le spese imposte dall’emergenza Covid).
Con cento banchetti in tutta Italia, parte per i prossimi mesi la raccolta di 50mila firme. «Si tratta di una proposta di giustizia che permetta di avere maggiori risorse per i giovani, per i diritti, per gli asili nido, per i libri di testo gratuiti a chi non se li può permettere», sostiene Nicola Fratoianni presentando i contenuti della proposta di legge che, sottolinea Giovanni Paglia, «non introduce una patrimoniale ma riforma quella che c’è già in Italia con una forte dose di progressività e un riequilibrio della pressione fiscale sui ceti a reddito medio e basso».
La proposta di «Next Generation tax», spiegano da Sinistra italiana, piace agli italiani, e non solo a quella di sinistra. Secondo un sondaggio commissionato a Swg, i cui dati sono stati presentati in conferenza alla Camera, la patrimoniale con le caratteristiche indicata da Si raccoglie il favore di oltre il 60% degli interpellati, con un consenso non solo tra gli elettori del centrosinistra ma anche tra quelli della Lega e di Fdi. Solo il 30% degli interpellati si dice contrario. «Il che vuol dire – sottolinea Fratoianni – che quando viene spiegata per quello che è, la gente apprezza e condivide questo tipo di patrimoniale che riequilibra un fisco ingiusto».
Fra i primi firmatari figurano anche la deputata Doriana Sarli, le senatrici Elena Fattori, Virginia La Mura, Paola Nugnes. Hanno aderito all’iniziativa il consigliere regionale della Sardegna Massimo Zedda e l’europarlamentare Massimiliano Smeriglio.
La proposta di Sinistra Italiana per una patrimoniale «è la naturale evoluzione dell’emendamento che presentammo in legge di bilancio. Mi pare molto bello che Fratoianni abbia scelto lo strumento della legge di iniziativa popolare per riproporlo. Ovviamente firmerò e sono convinto che molti elettori del Pd e tanti cittadini faranno lo stesso», dichiara il deputato Pd Matteo Orfini.

Commenta (0 Commenti)

Acqua pubblica. La politica è rimasta sorda e non ha rispettato la decisione del popolo italiano. In questi 10 anni abbiamo avuto 8 governi, ma nessuno si è azzardato a ripubblicizzare l’acqua

Roma, luglio 2010. Un momento della manifestazione per la consegna delle firme oer il referendum dell’acqua pubblica

Roma, luglio 2010. Un momento della manifestazione per la consegna delle firme per il referendum dell’acqua pubblica  © LaPresse

Ritengo importante celebrare il decimo anniversario del Referendum (11-12 giugno 2012) per sottolineare il grande coraggio che ha avuto il popolo italiano nel votare con due Sì e quasi all’unanimità (95,8%) a quelle due domande referendarie: l’acqua deve uscire dal mercato e non si può fare profitto sull’acqua. È stato l’unico popolo in Europa a tenere un referendum sull’acqua e a vincerlo. Il popolo italiano non si è lasciato ingannare, né dalla stampa, né dalle televisioni, né dai partiti (salvo poche eccezioni), schierati per la privatizzazione. La battaglia iniziò da un piccolo gruppo di attivisti che si oppose alla privatizzazione decretata dall’allora governo Berlusconi.

Quel gruppo capì subito che, se si voleva ottenere una vittoria, bisognava impegnarsi perché nascesse un vasto movimento popolare. Questo si è potuto realizzare attraverso il lavoro capillare dei comitati che, con uno sforzo straordinario, si impegnarono a informare i cittadini utilizzando mille stratagemmi e iniziative.

Quanta creatività! Una delle iniziative più indovinate fu la legge di iniziativa popolare, scritta dagli stessi comitati, che raccolse oltre 400.000 firme consegnate trionfalmente alla Corte Costituzionale a Roma. Questo ci aprì la porta alla vittoria referendaria, raggiunta grazie alla capacità del movimento di fare rete, partendo dai comitati cittadini, dai coordinamenti regionali, dal Forum con la sua preziosa segreteria. È stata questa capacità di lavorare insieme a determinare il buon esito della lotta fino al felice epilogo.

Purtroppo, la politica è rimasta sorda e non ha rispettato la decisione del popolo italiano. In questi dieci anni ben otto governi si sono susseguiti alla guida del paese, ma nessuno si è azzardato a ripubblicizzare l’acqua. Sono rimasto soprattutto sconcertato dall’inerzia dei Cinque Stelle e anche il presidente della Camera Roberto Fico ha disatteso le promesse fatte al Forum quando si insediò, cioè quella di legare la sua presidenza alla ripubblicizzazione dell’acqua. La portavoce alla Camera dei 5S ha scritto su questo giornale (8/06/21), sottolineando le azioni portate avanti dal suo Movimento. Ma quello che si chiedeva ai 5Stelle era l’obbedienza al Referendum: una legge per la gestione pubblica dell’acqua che non è stata fatta. Trovo altrettanto strano che si vanti di aver trovato cinque miliardi (in verità sono 4,38) destinati ai lavori per migliorare le condizioni delle reti idriche.

Ma la portavoce del M5S ha letto il Pnrr del governo Draghi? Così è scritto nel testo: “Il quadro nazionale è ancora caratterizzato da una gestione frammentata e inefficiente delle risorse idriche, e da scarsa efficacia e capacità industriale dei soggetti attuativi nel settore idrico, soprattutto nel Mezzogiorno.” Quei 4,38 miliardi andranno alle multiutility del centro-nord (Acea, A2A, Iren e Hera) per gestire industrialmente le acque del Meridione, in barba al Referendum! E questo di fronte a un pauroso surriscaldamento del Pianeta che avrà come prima vittima il bene più prezioso che abbiamo: “sorella acqua.”

E non è solo un problema per il sud del mondo ma coinvolge anche il Nord. L’Italia rischia di perdere il 50% dell’acqua potabile entro il 2040. I ricchi troveranno qualche soluzione, ma gli impoveriti del Sud del mondo sono destinati a morire? Se l’acqua venisse privatizzata, saranno i poveri a pagarne le conseguenze. Se oggi abbiamo 20-30 milioni di persone all’anno che muoiono di fame, domani, con queste politiche di privatizzazione, potremo avere cento milioni di morti di sete. Le prime avvisaglie di questo processo le abbiamo avute lo scorso dicembre quando l’acqua è stata quotata in borsa in California e poi a Wall Street. Questo è un peccato di onnipotenza: la follia dell’uomo.

Per questo i comitati dell’acqua di tutta Italia, domani 12 giugno, celebreranno a Roma con una manifestazione nazionale alle 15,30 in piazza Esquilino, per ricordare a tutti la disattesa applicazione del referendum da parte del governo italiano. A Napoli, unica grande città ad obbedire al referendum, con una azienda speciale pubblica(Abc), l’appuntamento è per oggi alle ore 18 davanti al Municipio.

Mi appello alla coscienza di Draghi perché utilizzi quei 4,38 miliardi di euro per ripubblicizzare la nostra “sorella acqua” (i nostri esperti hanno calcolato che si può fare con molto di meno). Papa Francesco scrive nella sua enciclica Laudato Si’: “Questo mondo ha un debito sociale verso i poveri che non hanno accesso all’acqua potabile, perché ciò significa negare ad essi il diritto alla vita radicato nella loro inalienabile dignità”. È la prima volta che un Papa parla dell’acqua come “diritto alla vita” (un termine usato in campo cattolico per l’aborto e l’eutanasia). Privatizzarla equivale a vendere la propria madre. Difendiamo tutti la nostra comune Madre

Commenta (0 Commenti)

Centrosinistra. Intervista a Loredana De Petris

Loredana De Petris

 

Loredana De Petris, senatrice eletta in Leu, quest’oggi alle 17.30 insieme al suo collega Francesco Laforgia e al deputato Luca Pastorino discuterà con Giuseppe Conte e Beppe Sala e di ecologia e questioni sociali. È l’occasione per fare il punto sull’azione del governo Draghi e sui rapporti tra le forze di centrosinistra della maggioranza. Ma prima di arrivare all’agenda politica, De Petris commenta il passaggio in prima lettura, al senato, del testo che inserisce in Costituzione la tutela dell’ambiente. «Più che di una modifica si tratta di un aggiornamento – dice De Petris – Cosa che stanno facendo di tutto il mondo. La Francia, ad esempio, sta inserendo queste cose nel preambolo. L’articolo 9 della Carta era stato scritto benissimo dai padri e dalle madri costituenti e la giurisprudenza costituzionale ne ha dato un’interpretazione estensiva. Ma la Costituzione si occupava di tutela dell’ambiente solo nell’articolo 117 come modificato nel 2001 a proposito di competenze tra regioni e stato. I Verdi fin dagli anni novanta parlano di inserire nella Costituzione la tutela dell’ambiente, degli ecosistemi e della biodiversità. La pandemia e i cambiamenti climatici ci dicono che un modello di sviluppo basato sulla rapina delle persone e delle risorse sta minando le basi della vita. E l’Italia tra i paesi del G20 è al sesto posto nella classifica del rischio ambientale».

Tutto ciò come si applica su transizione ecologica e Pnrr?
Il Pnrr contiene cose positive. Ma altre non vanno bene, su energie rinnovabili e capitale naturale e biodiversità, ad esempio, siamo in ritardo. Il piano Next generation Eu tiene insieme la transizione ecologica e le infrastrutture: su questo, come sulle semplificazioni, servono più risorse.

Ci sono diverse critiche nei confronti del ministro Cingolani, addirittura qualcuno tra i 5 Stelle ha parlato di sfiducia individuale nei suoi confronti.
Le critiche probabilmente sono più legate al suo essere tecnico più che ministro. Ci sono ancora ambiguità su progetti che ancora non abbiamo visto, su trasporti e mobilità bisognerebbe investire su mobilità locale e invece si spostano risorse sulle grandi infrastrutture. In più, sono critica su semplificazioni, che aprono agli appalti al massimo ribasso e che pongono coi subappalti questioni di sicurezza. Per non parlare del rilascio della autorizzazioni alle trivelle mentre è ancora in corso la redazione del Piano per le aree idonee. Ancora: vogliono di nuovo cambiare la Valutazione di impatto ambientale. E sono preoccupata dalla sovrintendenza speciale. Infine, bisogna prorogare il blocco dei licenziamenti.

Riuscirà il parlamento a correggere tutto ciò?
Il parlamento è messo in una posizione ancillare. Le critiche a Cingolani e al Pnrr hanno bisogno che l’intergruppo che avevamo immaginato con M5S e Pd abbia una sua soggettivazione politica. Bisogna far vivere quella che avevamo chiamato alleanza strategica. Per lavorare meglio oggi e per costruire una coalizione per il futuro di questo paese.

Oggi ne parlerete con Conte.
Siamo molto interessati a capire il progetto di Conte, in questi anni abbiamo avuto un buon rapporto. Aveva lanciato l’alleanza per lo sviluppo sostenibile, all’interno della quale c’è bisogno di costruire la terza componente: quella ambientalista. Ci sarà anche Beppe Sala, che ha aderito alla carta dei valori dei Verdi europei. Insisto: contribuire come sinistra ecologista a costruire questo progetto significa anche trovare il modo di contare di più nel governo Draghi, visto che non tutto è lineare. Abbiamo invitato altre esperienze territoriali. Non abbiamo la priorità di darci nomi, ora si tratta piuttosto di assumere un punto di vista largo e superare la frammentazione riaffermando la natura strategica dell’alleanza con Pd e M5S.

Ci crede al fatto che Conte voglia imprimere una svolta moderata al suo M5S?
In questo paese credo che di moderato non ci sia rimasto più nessuno, soprattutto se si vuole dare una svolta ecologista. Credo che conte voglia parlare a quelli che tali vengono considerati.

Commenta (0 Commenti)

Attenti ai dinosauri. La rubrica digitale a cura della Task Force Natura e Lavoro

Illustrazione

Illustrazione  © Costanza Fraia

L’occasione del varo e dell’attuazione del PNRR in Italia, degli interventi di rilancio dell’economia post-COVID 19 in Europa, negli USA, in Cina e gli effetti indotti nel mondo stanno creando condizioni speciali, irripetibili, perché quella che è stata battezzata “transizione energetica” sia attuata concretamente e con i tempi scanditi da accordi internazionali ineludibili.

 I fatti

È ormai accettato dalla opinione pubblica mondiale la considerazione che, per contenere entro limiti ritenuti accettabili i danni economici e sociali causati dal cambiamento climatico, dobbiamo azzerare le emissioni di gas serra entro il 2050. Questa necessità è stata innanzitutto riconosciuta da 190 Paesi del mondo, che hanno firmato gli Accordi di Parigi nel 2015. Molto faticosamente e attraversando indenni l’era Trump, profondo oppositore anche di questa decisione, i dettami dell’Accordo sono diventati irreversibili e obbligatori.

Per contribuire per la sua parte a raggiungere questo obiettivo, l’Europa si è imposta il traguardo intermedio – entro il 2030 – di riduzione dei gas serra del 55% rispetto al 1990.

Clamorosamente, considerata la tradizionale posizione filo-petrolifera e fossile in generale, l’IEA (International Energy Agency, Agenzia Internazionale dell’Energia), nel suo recente rapporto “Net Zero 2050 – A Roadmap for the Global Energy Sector” afferma ufficialmente che, per ottenere questo risultato, occorre che a partire dal 2021 non venga approvato lo sviluppo di nessun nuovo giacimento di petrolio o gas. E sì che l’IEA è sempre stata, in passato, paladina della funzione centrale delle fonti fossili per lo sviluppo dei sistemi economici e della marginalità delle fonti rinnovabili.

La posizione dell’ENI

Confinamento della CO2

La posizione più critica, ma insieme cruciale, rispetto al conseguimento di questi obiettivi e al rispetto di queste decisioni è ovviamente quella delle compagnie Oil&Gas; in Italia, dell’Eni.

Guardiamo alla nostra compagnia: in totale contrasto con il quadro sopra descritto, invece di programmare una progressiva diminuzione della produzione e un riposizionamento della sua “mission” in una prospettiva di abbandono delle fonti fossili, nel  suo piano di sviluppo al 2050 l’ENI prevede un aumento delle esplorazioni che porterebbero “2 miliardi di barili di olio equivalente (boe) di nuove risorse nel piano quadriennale” e una crescita della produzione con una media di circa 4% all’anno nell’arco del piano”.

C’è da dire che i piani delle altre grandi Oil&Gas non differiscono da quelli dell’ENI. E ciò può spiegarsi solo con la loro certezza che i combustibili fossili continueranno ad essere centrali per il funzionamento dell’economia mondiale, anche perché esse faranno di tutto perché così sia.

Lo strumento per ottenere questo risultato lo hanno chiaramente individuato nella CCS (Carbon Capture and Storage, Cattura e Stoccaggio del Carbonio) (1). E per questo sono a caccia di finanziamenti pubblici per metterla in atto. E già, finanziamenti pubblici, perché, a parte tutte le altre limitazioni di cui si dirà nel seguito, si tratta di una tecnologia molto costosa ed economicamente ben lontana dalla convenienza.

Cosa c’è che non va in questo programma delle grandi Compagnie e, per l’Italia, dell’ENI che, non dimentichiamolo, è una partecipata dello Stato italiano, che quindi ne è azionista e, per quel che conta in questo contesto, ha una golden share? Non vanno molte cose.

  1. Si perpetua il modello di sviluppo che ci ha portato alla situazione attuale; un modello basato sull’uso di risorse energetiche non rinnovabili, con un approccio lineare del tipo estrai-trasforma-usa-getta che è in contrasto con il modello di funzionamento del sistema Terra di cui facciamo parte, ed è in contrasto con il concetto di economia circolare, pilastro -ormai ineludibile- del Green Deal Europeo. Infatti, adottando la CCS, invece di buttare nell’atmosfera il rifiuto, in questo caso la CO2, lo si sotterra. Certo, la soluzione è attraente per chi la adotta, che guadagna due volte: una volta vendendo gli idrocarburi e la seconda sotterrandone il rifiuto.
  2. Si sottraggono risorse finanziarie allo sviluppo delle rinnovabili, che sono l’unica strada per riportare il nostro sistema economico e sociale in un alveo di sostenibilità, di coerenza con le leggi che regolano il sistema Terra e con i pilastri su cui si fonda il Green Deal Europeo.
  3. È una soluzione dilatoria, che trasferisce a chi verrà dopo di noi il problema del contenimento delle emissioni di gas serra. Infatti, cosa ce ne faremo delle emissioni di CO2 che oggi vogliamo sotterrare nel giacimento esausto quando lo avremo completamente riempito? I posteri si dovranno riproporre il problema e dovranno necessariamente risolverlo con le fonti rinnovabili. E allora perché non farlo subito, spendendo di meno ed eliminando un passaggio inutilmente costoso?
  4. È un approccio poco efficiente, perché richiede l’uso di grandi quantità di prodotti chimici (amine) che poi debbono essere recuperati, riciclati, con grande consumo di energia (fossile). Una indagine condotta su 11 impianti sperimentali di CCS già realizzati ha evidenziato che, tenendo conto delle perdite, e delle emissioni di CO2 conseguenti all’uso dell’energia occorrente per il processo, con la CCS l’immissione netta di anidride carbonica in atmosfera si riduce di una quota che va dal 63 all’82%, a seconda del tipo di impianto (2). Dunque, la CCS non azzera le emissioni dovute alla combustione, ma le riduce, e questa riduzione ha un costo economico molto elevato.
  5. Sotterrare la CO2 e contemporaneamente estrarre nuovo gas o petrolio dal giacimento significa usare la CO2 per produrre ciò che poi genererà altra CO2che si dovrà sotterrare. C’è qualcosa che non funziona in questo modello, non funziona per la comunità; certamente funziona, e benissimo, per aumentare i profitti a spese della comunità, che paga.
  6. Non è dimostrata la capacità dei serbatoi naturali di stoccaggio di trattenere efficacemente la CO2 per tempi lunghi; una graduale e silente fuoriuscita in atmosfera vanificherebbe il progetto. Non c’è esperienza per impianti su larga scala.
  7. Comporta un grande consumo di suolo per l’impianto di cattura e per i gasdotti di trasporto.
  8. È un approccio pericoloso, perché:
    1. Non sono noti gli effetti sismici di tale operazione; secondo alcuni ricercatori si genererebbe una sismicità indotta, e il rischio è ancora maggiore in una zona vulnerabile come la costa di Ravenna, dove sono in corso significativi fenomeni di subsidenza. Un evento sismico potrebbe creare fratture attraverso cui la COstoccata potrebbe sfuggire, ritornando in atmosfera; ciò comporterebbe non solo l’azzeramento del beneficio della CCS ai fini del contenimento del riscaldamento globale, ma il rilascio di ingenti quantitativi di CO2 non solo renderebbe vano il tentativo di ridurre la concentrazione di CO2 nell’atmosfera, ma produrrebbe effetti gravissimi per la popolazione (soffocamento).
    2. I siti di stoccaggio di CO2 possono diventare potenziali obiettivi terroristici.

 Riforestazione

Ma non è solo con la CCS che l’ENI intende continuare a estrarre e far bruciare combustibili fossili, evitando che le conseguenti emissioni di CO2 contribuiscano ad aumentarne la concentrazione in atmosfera. Il piano ENI al 2050, infatti, prevede di dare vita a grandi progetti di riforestazione nei paesi in via di sviluppo, con una progressiva estensione in grado di garantire l’assorbimento di 6 milioni di tonnellate di CO2 equivalente all’anno entro il 2024, di 20 milioni entro il 2030 e di 40 milioni all’anno entro il 2050.

Il che significa che, nei piani delle compagnie, consistenti quantità di combustibile fossile, liquido o gassoso, continueranno ad alimentare il sistema economico mondiale.

Il progetto potrebbe sembrare ragionevole, trattandosi di un tipico “nature based project”, cioè un progetto basato su principi naturali. Ma non è proprio così. Infatti:

  1. I progetti di riforestazione nei paesi in via di sviluppo possono dare luogo a forti ripercussioni sulle popolazioni locali, sui loro sistemi di sussistenza, sulla loro integrità culturale; sebbene l’ENI esplicitamente indichi che questi fattori sarebbero tenuti in conto nei progetti, ci sono seri dubbi sulla possibilità di minimizzare l’impatto sulle popolazioni locali, non foss’altro per le difficoltà intrinseche di farlo.
  2. La riforestazione su larga scala, se effettuata con l’obiettivo di massimizzare la capacità di assorbimento di CO2 da parte della foresta in tempi brevi (cioè decenni), può dare luogo a monoculture arboree che confliggono con la possibilità di garantire la necessaria biodiversità del sistema forestale nel suo complesso.
  3. Per quanto detto ai punti precedenti, i criteri di selezione dei terreni destinati a riforestazione andrebbero sottoposti al vaglio della comunità scientifica, e questo aspetto non viene menzionato.
  4. Tutte le Big Oil&Gas hanno gli stessi progetti; a questo punto, la domanda legittima è: esistono tanti terreni sulla superficie terrestre da soddisfare la fame di riforestazione di tutte le compagnie? Oppure si stanno tutte vendendo lo stesso pezzo di terra?

Ma le perplessità sul piano di sviluppo ENI al 2050 non si fermano qui. Si punta moltissimo sul metano, sia perché continuare a usare metano implica mantenere il valore di quell’asset fondamentale per la SNAM che è la rete che lo trasporta e distribuisce, sia perché il metano, unito alla CCS, permette la produzione di idrogeno blu, che l’ENI cerca di sdoganare equiparandolo a quello verde, cioè quello ottenuto mediante elettrolisi dell’acqua alimentata da energia rinnovabile. Ebbene, sappiamo che le perdite di metano lungo le tubazioni si stanno rivelando estremamente più consistenti di quanto le compagnie Oil&Gas abbiano finora voluto ammettere, e il metano è circa 30 volte più potente della CO2 come gas serra.

Recenti misurazioni effettuate attraverso i satelliti hanno portato a stimare le perdite globali di metano come paragonabili alle emissioni totali di CO2 legate all’energia dell’Unione europea. A questo proposito l’ENI, nel piano al 2050 promette un monitoraggio e controllo stringente delle perdite, almeno per quello che riguarda l’upstream, cioè prima della distribuzione. A parte le riserve sull’efficacia di questi controlli e sulle eventuali operazioni di riduzione, cosa succede delle perdite nella distribuzione?

Il contesto cambia rapidamente

Da quanto detto sopra si evince chiaramente che l’ENI sta conducendo una battaglia di retroguardia, disperatamente cercando, come le altre consorelle Oil&Gas, di mantenere lo status quo, cioè il proprio potere e i propri profitti, contro l’interesse generale e contro le decisioni prese dai Governi a livello mondiale.

Osserviamo che si tratta di una strategia che, a parte gli aspetti etici e sociali che pure una società partecipata dallo Stato non dovrebbe potersi permettere di ignorare, è ormai perdente perfino sul breve periodo, come dimostrano alcuni fatti recenti:

  1. La condanna della Shell da parte di un tribunale distrettuale olandese a ridurre del 45% (rispetto a quelle del 2019) le sue emissioni globali (cioè incluse quelle derivanti dalla combustione degli idrocarburi venduti), entro il 2030.
  2. Una piccolissima schiera di azionisti attivisti a favore dello sviluppo sostenibile, sostenuti da grossi azionisti come BlackRock è riuscita a sistemare ben due suoi membri nel consiglio di amministrazione della Exxon: un evento senza precedenti, che ha fortemente messo in crisi la politica della compagnia.
  3. Gli azionisti della Chevron, la seconda compagnia americana Oil&Gas per dimensioni economiche, hanno votato una risoluzione che la invita a ridurre non solo le proprie emissioni, ma anche quelle causate dai consumatori dei suoi prodotti.
  4. Dal 2017, circa 20 città, contee e Stati degli USA hanno citato in giudizio l’intero comparto industriale dei combustibili fossili, chiedendo danni per i costi locali del cambiamento climatico.

 Il riposizionamento dell’ENI

Non basta tutto questo all’ENI per cominciare a pensare seriamente a trasformare la propria mission, riposizionandosi completamente, sfruttando l’immenso patrimonio di uomini e di esperienza che ha accumulato e mettendolo effettivamente al servizio della transizione ecologica? Potrebbe approfittare dell’occasione offerta dal PNRR e dalle altre risorse che l’Europa sta mettendo in campo per realizzare il Green Deal e rappresentare un caso esemplare rispetto alle altre compagnie Oil&Gas.

I settori su cui ENI potrebbe puntare, contando sulle capacità e le eccellenze che ha già al suo interno e riorientandole, sono -tra gli altri- la chimica verde, la biochimica, l’eolico galleggiante, la trasformazione e la valorizzazione dei rifiuti organici, l’utilizzazione virtuosa del carbonio della CO2 emessa dalla combustione di combustibili fossili, incorporandolo in prodotti utili e durevoli, la produzione di plastiche durevoli, volte a sostituire materiali derivati da minerali sempre più scarsi o la cui estrazione ha un impatto ambientale elevato. E la lista non si fermerebbe qui: si può fare anche molto altro, se c’è la volontà di diventare paladini (e lungimiranti imprenditori) della transizione ecologica, invece di esserne – di fatto – gli oppositori.

Note

(1) La CCS consiste nell’estrarre la CO2 contenuta nei fumi prodotti dalla combustione degli idrocarburi (ad es.: emessi dalla ciminiera di una fabbrica o di una centrale elettrica) e immetterla in una tubazione che la trasporta da qualche parte dove viene pompata sottoterra; e sottoterra dovrebbe rimanere per sempre. In questo modo, pur bruciando combustibili fossili, la concentrazione della CO2 in atmosfera non aumenterebbe. L’operazione risulta particolarmente vantaggiosa se si pompa la CO2 in un giacimento in via di esaurimento, perché in questo modo si può “spremere” altro idrocarburo che diversamente resterebbe sottoterra. Ed è esattamente questo che prevede di fare l’ENI – come indicato nel suo piano di sviluppo al 2050 – cominciando dai giacimenti sotto l’Adriatico, di fronte a Ravenna.

(2) R. M. Cuéllar-Franca, A. Azapagic, Carbon capture, storage and utilisation technologies: A critical analysis and comparison of their life cycle environmental impacts, Journal of CO2 Utilization 9 (2015) 82–102

Commenta (0 Commenti)