Tensioni a est. Che nessuno pensi di risolvere questa crisi con una iniziativa «umanitaria» di bombardamenti aerei come sull’ex Jugoslavia nel 1999: dall’altra parte stavolta c’è una potenza atomica. Ma tutto è possibile, finché ci sarà, a surrogare l’inesistente politica estera dell’Unione europea la Nato, ora nel cul-de-sac
Un militare ucraino nella regione del Donetsk © AP Photo/Vadim Ghirda
A che puntata eravamo rimasti della «serie ucraina» che è tutto meno che una fiction? Di sicuro è disattesa dalla politica italiana e dal «governo di tutti». Draghi, convocato dalla Nato ha dato, nei giorni quirinalizi, la «disponibilità dell’Italia» e ieri il ministro Guerrini si è detto «pronto a tutto». A che cosa ancora non è chiaro. L’Italia dovrebbe svolgere la sua «neutralità attiva» come chiede l’articolo 11 della Costituzione, invece finora siamo navi militari nel Mar Nero e la difesa aerea del fianco est della Nato nel Baltico. Insomma «disponibili» alla guerra.
Siamo vicini al precipizio. Anche se l’annunciata invasione russa non c’è. Dalla Casa bianca la davano sicura per dicembre, poi hanno precisato che sarebbe accaduta a gennaio, ora l’ultima versione è «per metà febbraio»…L’Europa appare divisa. Un parte – Germania e Francia – azzarda una mediazione per rilanciare gli accordi di Minsk del 2015. Che vennero siglati di fronte ad una guerra civile nata dopo l’oscura rivolta di piazza Maidan, dove un ruolo centrale venne assunto dall’estrema destra ucraina, che fomentò un clima antirusso contro una parte russa e russofona della stessa popolazione ucraina – purtroppo anche dai molti leader americani accorsero su quella piazza a fare comizi antirussi, compreso lo stesso Biden. Ora il Paese è spaccato in due con tre regioni che hanno dichiarato l’indipendenza.
Ma negli accordi di Minsk emerge con chiarezza che la Russia vuole una autonomia amministrativa di quei territori all’interno della nazione Ucraina, e che non considera il Donbass russo, come la Crimea che «per sua scelta con referendum popolare» – scrisse Rossana Rossanda in un saggio sulla crisi di Maidan, ora in un prezioso e-book edito da Sbilanciamoci che lo pubblicò già nel 2014 – decise di tornare alla storica appartenenza alla Russia. Ma la guerra civile è continuata con 14mila vittime e due milioni di profughi. Un’altra parte d’Europa, i Paesi baltici e la Polonia sostenuti dalla Gran Bretagna di uno spregiudicato Boris Johnson alle prese con il Partygate, soffia sul fuoco, con invio di armi e consiglieri militari – come si rifiuta di fare la Germania – alimentando con gli Stati uniti un vero e proprio clima di guerra con false notizie. A denunciarlo è lo stesso governo ucraino e il presidente Zelensky ripetutamente: «Basta creare panico» «non è amichevole quello che fate», «l’intelligence americana fa propaganda», dicono le autorità di Kiev.
E ora siamo all’assurdo che, di fronte all’invasione che non c’è, per salvare la credibilità transatlantica siamo passati da un Biden che dichiara il 20 gennaio: «Con una incursione limitata la risposta degli Stati uniti sarebbe minore», al segretario della Nato Stoltenberg che ora ammette: «Se la Russia invade l’Ucraina la Nato non interverrà…perché non è un Paese Alleato». Siamo ad una autorizzazione all’invasione, o alla messa in chiaro delle regole del Patto atlantico inapplicabili per ora per Kiev, e quindi un implicito invito all’Ucraina ad entrare al più presto in questo gioco di guerra? «Create solo panico», insiste Zelensky, preoccupato del fronte russo ma anche di quello interno, dove i settori dell’estrema destra sono entrati con le loro milizie nella Guardia nazionale e nell’esercito e pesano nel governo – l’ex presidente Poroshenko, eroe dell’Occidente fino a poco fa, è ora accusato di alto tradimento, e arrivano rumors su arresti di un «gruppo» non meglio specificato che preparava proteste.
Biden è in difficoltà, al punto che in chiave «nixoniana» ha chiesto una pressione su Putin nientemeno che della Cina, l’avversario vero dell’America. Siamo alla farsa, perché magari avrebbe potuto chiedere a Putin di mettere una buona parola per la crisi di Taywan che a ben vedere è speculare, se non simile, a quella ucraina. E Putin che mosse farà ora? In realtà Putin non si è mai mosso. Lo ricorda lo stesso presidente ucraino Zelensky e lo stato maggiore di Kiev: le cose alla frontiera stanno così dal 2014, le truppe russe ammassate – che «non accerchiano la Nato ma è il contrario», dice il generale Leonardo Tricarico in una intervista Rai – non sono pronte a nessuna invasione. Partecipa a manovre in Bielorussia, e perfino a pattugliamenti nel Mediterraneo, ma le truppe russe minacciose alla frontiera ucraina sono una pressione, rischiosa certo, per ribadire che l’ingresso del Paese nella Nato sarebbe inaccettabile.
Perché dal Baltico al Mar Nero, dopo che è stato favorito l’ingresso nella Nato di tutti gli ex Paesi del Patto di Varsavia, si trova un minaccioso schieramento armato alle proprie frontiere, fatto di basi militari, rampe di missili anti-missile, truppe, stormi di aerei che insidiano la propria sicurezza. La Russia in fondo ha reagito – ha scritto Franco Venturini in un editoriale sul Corriere della Sera – come fece Kennedy di fronte all’installazione di missili a Cuba nella famosa crisi del 1962.
E come non vedere poi che l’accerchiamento atlantico serve indirettamente a sostenere proprio la tanto giustamente deprecabile autocrazia di Putin? E ora? Che nessuno pensi di risolvere questa crisi con una iniziativa «umanitaria» di bombardamenti aerei come sull’ex Jugoslavia nel 1999: dall’altra parte stavolta c’è una potenza atomica. Ma tutto è possibile, finché ci sarà, a surrogare l’inesistente politica estera dell’Unione europea la Nato, ora nel cul-de-sac. Un vecchio arnese della guerra fredda, ma riarmato fino ai denti e in cerca di nemici, mentre ora dall’altra parte ci sono competitor economici: vuol dire che ogni sanzione è un boomerang, come dimostra il caso Nord Stream: non è americano ma Biden vuole bloccarlo per vendere all’ Europa il suo Gpl. Tutto è possibile.
Commenta (0 Commenti)Sembra prevalere, specialmente in economia, il luogo comune che, assimilando i valori a “gusti” e a “preferenze”, li relega in ambito personale e privato
Attraverso le difficoltà aspre e crescenti che incontrano le democrazie contemporanee torna a riproporsi con grande forza, a dispetto di tutti i vagheggiamenti di neocentrismo, la discriminante destra/sinistra. Le difficoltà, infatti, sono di tipo materiale – indotte dalla crisi pandemica, la delocalizzazione della manifattura dai paesi occidentali, l’automazione, l’esplosione della disoccupazione e della precarizzazione gravanti soprattutto sulle donne e sui giovani – ma anche di tipo culturale (di reattività verso i cambiamenti nei costumi, il terrorismo, la microcriminalità diffusa e così via) e morale, queste ultime giudicate da Michael Sandel ancora più importanti, perché mettono in gioco, oltre ai wages e agli jobs, la social esteem ferita e tradita. Un forte disorientamento e smarrimento culturale tradiscono la coesistenza paradossale di una crisi di valori e di una domanda valoriale inevasa.
Assai influente su tutto ciò è stato ed è il “pluralismo dei valori”, conquista irrinunciabile della modernità – in quanto opponentesi al dominio della tradizione e di tutti i vincoli naturalistici: la famiglia, il clan, la razza, la nazione – ma che nella versione del “secolarismo liberale” ha finito con l’identificarsi con una sorta di ostracismo dato alla discussione dei valori nella sfera pubblica, il quale, a sua volta, è in non piccola misura causa dei processi di “depoliticizzazione” e “dedemocratizzazione” in atto, alimentati dalla ibridazione reciproca tra neoliberismo e populismi.
Sembra essere arrivato alla sua definitiva imposizione un luogo comune (nella cui coltivazione si è distinta la disciplina economica) risalente da molto lontano, che sancisce “de gustibus non est disputandum” e che, assimilando i valori a “gusti” e a “preferenze” – dei quali, appunto, in quanto espressioni del tutto personali e private, non è possibile disputare – estende ai valori l’interdizione alla disputa e all’esame critico pubblici, da condurre in modi aperti, argomentati, razionali.
In effetti, il secolarismo liberale – che, con la speranza di neutralizzare le pulsioni distruttive delle guerre di religione, ha confinato le credenze metafisiche e le convinzioni assolute, dunque anche quelle valoriali, in un territorio extrapolitico e extrapubblico, nella sfera privata – ne opera una sorta di privatizzazione che lega la loro apprezzabilità a uno statuto di mutismo politico, inducendo a calare un velo di trascuratezza e di sottovalutazione su dissensi pregni di credenze significative su cosa è vero e cosa è falso, cosa è giusto e cosa è ingiusto, cosa è moralmente apprezzabile e cosa no.
L’esito di questa sottrazione al discorso pubblico delle questioni valoriali si risolve in una difficoltà di loro sottoposizione all’argomentazione, all’esame critico, alla verifica razionale, al dibattito collettivo, al dialogo intercomunicativo. La cecità morale si trasforma in cecità cognitiva e viceversa, così come (lungo il filone Nietzsche-Heidegger-Schmitt-Foucault) il nichilismo morale è l’altra faccia del nichilismo logico, il “tutto è permesso” l’altra faccia del “non c’è alcuna verità”, arrivando fino alla mancanza di rispetto per la verità nel comportamento dei repubblicani americani che hanno venduto la loro anima a Trump, inventore della politica della “postverità”.
Qui oggi c’è una latitanza, e pertanto una responsabilità, di tutto il pensiero – economico, politico, filosofico – specie di quello di matrice illuministica ed umanistica che fu, invece, alla base delle battaglie di libertà e di giustizia del mondo moderno, a partire dalle grandi Rivoluzioni americana e francese, le cui categorie chiave – libertà, eguaglianza, fraternità – sono profondamente morali, per arrivare al rinnovamento costituzionale degli Stati nel Novecento, dopo le catastrofi delle due guerre mondiali.
Troppo spesso oggi si confonde la linfa antidogmatica, antifondamentalista, liberatrice della modernità con l’accettazione del relativismo e si escludono i valori dall’ambito del razionalmente tematizzabile e indagabile, separandoli dalla conoscenza e dalla ricerca.
Ben diverso è sempre stato l’approccio sostenuto dalla scuola di Francoforte fondata da Horkheimer e Adorno, oggi proseguito da Habermas, che vi ha collocato il fondamento della sua proposta di “patriottismo costituzionale”, e dai suoi allievi. Axel Honneth, per esempio, fa del recupero della dimensione valoriale e simbolica la base della sua proposta di un socialismo con “corposa concezione etica” fondato sulla riscoperta radicale del valore del lavoro, grazie al quale critica anche il marxismo tradizionale per la sua grave opacità quanto alla considerazione delle ricadute politico-morali del capitalismo e per il suo “monismo economicista disperante”, nel quale non rimane più “nessun spazio legittimo né per l’autonomia dei singoli, né per la ricerca intersoggettiva di una volontà comune”.
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Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella con il Presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati e il Presidente della Camera Roberto Fico, in occasione della comunicazione dell'esito della votazione per l'elezione del Presidente della Repubblica © LaPresse
Nella campagna quirinalizia che, nel gennaio del 2015, portò all’elezione di Sergio Mattarella, eravamo stati bombardati dalla retorica sulla necessità di eleggere un Capo dello Stato di levatura internazionale, di grandi relazioni nel mondo dell’economia e della finanza (era l’identikit in cui si poteva riconoscere Amato). Dopo sette lunghi anni, gli ultimi due segnati dalla tragedia della Pandemia e da 145mila morti, puntualmente, come un mantra, abbiamo assistito alla replica della medesima narrazione per spingere Mario Draghi sull’alto Colle. Ma poi le fitte schiere draghiane, di destra e di sinistra, a poche ore dall’accordo sulla rielezione di Mattarella, si sono dissolte nella fitta nebbia del politichese.
Leggi tutto: Mattarella e lo schiaffo ai partiti - di Norma Rangeri
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Moni Ovadia
Alcuni anni or sono, ebbi la preziosa occasione di incontrare la grande testimone del genocidio ruandese dei Tutsi, Yolande Mukagasana, una donna straordinaria. Il privilegio di quell’incontro si trasformò in un’amicizia che continua ancora oggi. Yolande è autrice di un memoriale di eccezionale valore Not my time to die, tradotto in italiano con il titolo indovinato di La morte non mi ha voluto.
In questa opera racconta della sua terrificante esperienza che fortunatamente sfociò in un esito positivo. Nel corso di una delle volte che ebbi occasione di vedere Yolande, notai che portava come ciondolo una stella di Davide. La cosa mi incuriosì e le chiesi se per caso fosse ebrea. La sua risposta fu uno dei primi stimoli che mi spinse a dare vita ad un progetto che desse voce alle memorie di tutte le genti e di tutti gli uomini che sono stati vittime di genocidi, stragi di massa, persecuzioni sistematiche. Yolande rispose che quel ciondolo gli ricordava che anche loro,
Leggi tutto: Dalla memoria ebraica alle memorie - di Moni Ovadia
Commenta (0 Commenti)Crisi ucraina. Macron ha incontrato Scholz e sentirà Putin. Oggi vertice con la Russia sul Formato Normandia nato dopo la guerra nel Donbass. Gli europei - che non ritirano le famiglie dei diplomatici - sorpresi dalle nuove prese di posizione Usa contro Mosca: allerta militare, blocco export di tecnologie, stop uso del dollaro. Penalizzano l’Ue
Ieri, incontro Emmanuel Macron-Olaf Scholz a Berlino. Oggi, riunione del «Formato Normandia» all’Eliseo, un tentativo di ridare vita al dialogo tra Russia, Ucraina, Francia e Germania, un «modello» nato dopo la guerra del Donbass nel giugno 2014, che nel febbraio 2015 ha portato agli accordi di Minsk e all’accordo di cessate il fuoco.
Venerdì Macron avrà un colloquio telefonico con Putin. L’Europa cerca di ritrovare uno spazio, per pesare sulla situazione che rischia ogni giorno di degenerare, dopo il periodo di messa ai margini, quando Washington e Mosca hanno brutalmente riesumato il clima di guerra fredda e di rapporti tra «superpotenze».
LA UE HA DIFFICOLTÀ a trovare una linea comune tra chi propone una de-escalation e i paesi più esposti, Baltici e Polonia (appoggiati dalla Gran Bretagna, in questi giorni molto bellicista).
Gli europei si muovono con difficoltà, per tenere in piedi una linea che concili tentativo di dialogo con la Russia da un lato e dimostrazione di forza dall’altro, come si è visto dalla lista dei rinforzi militari di alcuni Stati europei, presentata due giorni fa dal segretario della Nato, Jens Stoltenberg, che assicura che Svezia e Finlandia stanno bussando alla porta dell’Alleanza, resuscitata da Putin.
Ieri, gli europei sono stati sorpresi dalle nuove prese di posizione statunitensi, lo stato di allerta militare e le minacce Usa, che si sono detti pronti a bloccare l’esportazione di tecnologie di ogni tipo verso la Russia, fino a proibire l’uso del dollaro (e non seguono il ritiro delle famiglie di diplomatici Usa).
Per il momento, in attesa di conoscere il contenuto della lettera che Washington si prepara a spedire a Putin, la Commissione studia possibili nuove sanzioni, in caso di invasione dell’Ucraina.
C’È L’OPZIONE DI DIMINUIRE la dipendenza della Ue dal gas e dal petrolio russo (rispettivamente 46,8% e 20%). Per la Germania, resta in sospeso c’è l’apertura della pipeline North Stream 2. La Cdu, all’opposizione, adesso si oppone al North Stream 2, che Scholz continua a definire «progetto privato», mentre il ministro dell’Economia e del Clima, Robert Habeck, parla di «errore sul piano geopolitico».
Gli Usa hanno sempre ostacolato il North Stream 2 e adesso puntano il dito contro quella che definiscono l’ambiguità tedesca (titolo di qualche giorno fa del Wall Street Journal: «La Germania è un alleato affidabile degli Usa? Nein». La Ue è ben consapevole che le sanzioni alla Russia avranno conseguenze nei Paesi europei più che negli Usa.
I 27, A FINE RIUNIONE dei ministri degli Esteri a Bruxelles lunedì, in presenza video del segretario di stato Usa, Antony Blincken, hanno annunciato un piano «importante» e «preparato», in caso di invasione.
Alla conclusione della multi-telefonata tra Biden e i leader di Francia, Germania, Gran Bretagna, Polonia, Commissione e Consiglio europeo (alla fine ha partecipato anche Mario Draghi, in forse fino all’ultimo), è stato sottolineata l’importanza di trovare una soluzione diplomatica, ma anche evocati i «preparativi» per imporre «conseguenze importanti e costi economici severi alla Russia».
Macron, che ieri a Berlino ha sottolineato la «solidarietà all’Ucraina», insiste sulla «necessità di adoperarsi collettivamente a favore di una de-escalation rapida» con la Russia. La Francia propone un «dialogo rafforzato», ma al tempo stesso partecipa (con l’annuncio di un possibile invio di truppe in Romania sotto comando Nato) alle manovre militar-diplomatiche per mettere in guardia in modo credibile la Russia.
Alla riunione del Formato Normandia all’Eliseo, oggi, in questione le richieste russe (nessun nuovo allargamento della Nato e ritiro delle forze dell’Alleanza Atlantica dai Paesi entrati dopo il 1997). Ma è anche in questione la legge «di transizione» ucraina, che riguarda Donbass e Crimea, in vista della loro «reintegrazione» sotto l’autorità di Kiev e che definisce la Russia «Stato aggressore e occupante», non conforme agli accordi di Minsk.
Nei prossimi giorni, i ministri degli Esteri di Francia e Germania andranno in Ucraina. Oggi, il commissario Ue all’allargamento, Oliver Varhelyi, è a Kiev, in sostegno alla «sovranità» e all’«integrità territoriale» dell’Ucraina, a cui la Ue ha destinato 1,2 miliardi per la difesa (e 6 miliardi di investimenti, che si aggiungono ai 17 miliardi di finanziamenti versati dal 2014).
Commenta (0 Commenti)Turno di Morte. Il dramma di Udine porta sinistra e sindacati a chiedere di cambiare gli attuali Percorsi di orientamento. Altre vittime a Torino e Roma in età da pensione. La tragedia di Udine scoperchia il tema sicurezza dei ragazzi. A Firenze blitz contro Confindustria
L'elisoccorso alla fabbrica di Udine dove è morto il 18enne Lorenzo Parelli © Foto Ansa
La striscia di sangue sul lavoro in Italia non si ferma mai. Più di tre morti è la media giornaliera da oltre vent’anni. L’attenzione mediatica e dell’opinione pubblica al fenomeno è invece un fiume carsico che riappare ogni qual volta la morte colpisce più persone o lavoratori in zone mediatiche più sensibili. In un’altalena che mostra la trasversalità del fenomeno alla morte di un 18enne venerdì, ieri sono arrivate le notizie di quelle di due operai sessantenni: tutti e tre si sarebbero salvati se fossero stati a scuola o in pensione, come normale che sia.
La morte di Lorenzo Parelli, il primo caduto dell’alternanza scuola-lavoro, ha aperto la voragine sulle condizioni in cui i ragazzi affrontano i «Percorsi per le competenze trasversali e l’orientamento»: 210 ore minime nel triennio per gli istituti professionali che spesso diventano 500, come richiesto da Confindustria e associazioni datoriali, contente di avere manodopera gratuita da formare.
ANCHE PER QUESTO IERI BLITZ di precari e disoccupati davanti alla sede di Confindustria a Firenze. Esposti striscioni e cartelli e intonati slogan: “La vera emergenza 4 morti sul lavoro al giorno”, “Lorenzo uno di noi”, “4 morti sul lavoro al giorno gridano vendetta”.
«La morte di un ragazzo di 18 anni durante un’esperienza di stage provoca profondo dolore – ha detto ieri il ministro Patrizio Bianchi -. Incidenti come questo sono inaccettabili, come inaccettabile è ogni morte sul lavoro. Il tirocinio deve essere un’esperienza di vita“.
MA MOLTE FORZE POLITICHE e sindacati chiedono se non di cancellare almeno di rivedere profondamente l’alternanza scuola-lavoro. «Invece di messaggi di cordoglio che sanno tanto di ipocrisia, la politica dovrebbe finalmente aprire una riflessione seria sull’utilità della vecchia alternanza scuola-lavoro, oggi Pcto. Un sistema che non funziona: in questi anni abbiamo visto esperienze che si sono rivelati percorsi astrusi, o sfruttamento di fatto dei ragazzi fino all’inserimento mascherato e anticipato di giovani nel mondo del lavoro», denuncia il segretario di Sinistra Italiana Nicola Fratoianni.
«La pratica dell’alternanza scuola lavoro va rivista. Non possiamo pensare di esporre i nostri studenti allo sfruttamento, o peggio a incidenti. Lo studente friulano è morto lavorando gratis per maturare crediti formativi. La Scuola è altro», commenta Rino Di Meglio, coordinatore nazionale della Gilda degli insegnanti.
«La morte del giovane Lorenzo Parrelli non deve mettere in discussione i percorsi trasversali per le competenze e l’orientamento ma va avviata rapidamente una riflessione per evitare che possano accadere di nuovo tragedie come questa», dichiarano in una notai M5s commissione Cultura alla camera .
La procura di Udine intanto «ha aperto un procedimento per l’ipotesi di omicidio colposo allo stato a carico del datore di lavoro» per «addivenire ad una compiuta ricostruzione della dinamica dell’infortunio mortale» con «approfondimenti per individuare eventuali ulteriori profili di responsabilità anche a carico di altre figure aziendali. Nei prossimi giorni verrà disposta l’autopsia sul corpo di Lorenzo», conclude la nota della Procura.
NEL FRATTEMPO LA MATTANZA sul lavoro però non si ferma neanche di sabato. E ieri registra due nuovi morti. A Rivarolo Canavese (Torino), a morire è stato Vincenzo Pignone, operaio specializzato di 59 anni. La tragedia è avvenuta questa mattina alla Silca, storica azienda di stampaggio. L’uomo è caduto dentro la sabbiatrice, un macchinario che si usa per pulire i pezzi dello stampaggio. L’altro episodio è, invece, avvenuto venerdì in un capannone industriale di Santa Procula, vicino Pomezia, in provincia di Roma. A perdere la vita Salvatore Mongiardo, un operaio di 64 anni precipitato da una altezza di cinque metri. L’uomo era intento ad installare alcuni cavi elettrici su una cella frigorifera.
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