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Il caso. La protesta di Cgil, Cisl e Uil in piazza Montecitorio a Roma, scontro con Confindustria. Appalti: «Stop massimo ribasso, ora la norma sulla responsabilità in solido»

La protesta dei sindacati ieri a piazza Montecitorio a Roma

La protesta dei sindacati ieri a piazza Montecitorio a Roma  © LaPresse

Licenziare dal primo luglio senza chiedere la cassa integrazione oppure chiederla e licenziare alla scadenza del 31 dicembre di quest’anno. Quello che è stato presentato dal governo come un «compromesso» sul blocco dei licenziamenti per motivi economici è stato contestato ieri dai sindacati Cgil, Cisl e Uil in un presidio a piazza Montecitorio.

L’oggetto dello scontro con i confederali sarebbe il prolungamento del blocco solo per un paio di mesi, fino alla fine di agosto 2021, come del resto aveva annunciato il Ministro del Lavoro Andrea Orlando aveva infatti annunciato la proroga del divieto. «Non sono venute meno le ragioni che un anno fa avevano dato luogo al blocco dei licenziamenti – ha detto dal palco il segretario generale della Cisl Luigi Sbarra – Gli ammortizzatori sociali non sono stati rinnovati, le politiche attive non sono state avviate. In particolare, non sono stati finanziati adeguatamente i contratti di solidarietà e non è stata prolungata la durata della Naspi – L’atteggiamento del governo di queste ore non convince. Hanno confermato al 1 luglio nel Dl Sostegni bis lo sblocco dei licenziamenti per tutto il sistema industriale e dell’edilizia. Quella norma va cambiata. Abbiamo già chiesto incontri ai gruppi parlamentari per chiedere loro nel prossimo passaggio parlamentare di prorogare almeno fino al mese di ottobre il blocco».

L’offensiva di Confindustria e dei suoi portavoce sui media, avvenuta nell’ultima settimana, è stata rintuzzata dal segretario della Uil Pierpaolo Bombardieri: «Se qualcuno vuol far saltare coesione sociale, siamo pronti a reagire. Questa attuale non è una mediazione. È la posizione di Confindustria, inaccettabile anche perché si vuole dare libertà di licenziare quando il 70 per cento delle risorse per affrontare la pandemia sono state date alle aziende in modo non selettivo».

«Anche a Confindustria diciamo che per noi il primo luglio non può essere il giorno in cui partono i licenziamenti. Se dovessero non cambiare la norma, diciamo che non siamo disposti ad accettare passivamente, a subire i licenziamenti – ha detto il segretario generale della Cgil Maurizio Landini che, insieme a Sbarra e Bombardieri, ha incontrato ieri il presidente della Camera Roberto Fico – Non è accettabile che dal primo luglio le imprese possano scegliere tra cassa integrazione e licenziamenti». La stessa scelta potrebbe tuttavia darsi anche dopo il 28 agosto, oppure dal primo gennaio dell’anno prossimo. Su questa partita pesa l’ imminente dichiarazione di fine emergenza pandemica dopo la quale sarà dichiarato il ritorno all’ordine del mercato. E, dunque, alla convinzione fanatica per cui i licenziamenti sarebbero la premessa per nuove assunzioni dettate dalla ritrovata «crescita», e non il primo passo verso la razionalizzazione del sistema produttivo e nuove povertà. È quello che sta avvenendo nel mondo del lavoro precario dove è stata persa la maggioranza del milione di posti di lavoro durante la pandemia. Nel paese del Jobs Act nessuno ha pensato a riformare questa legislazione, né a garantire l’estensione del «reddito di cittadinanza» almeno al milione di lavoratori diventati poveri nell’ultimo anno.

Nel corso della settimana i sindacati sono riusciti ad ottenere la cancellazione del massimo ribasso. Ma non la ritengono sufficiente. «Abbiamo anche chiesto introduzione di una precisa norma per cui l’appaltatore deve essere responsabile in solido non solo per quello che accade ai suoi dipendenti ma per tutti i lavoratori che lavorano sul medesimo progetto» ha detto Landini – Il costo del lavoro non può essere elemento di valutazione nell’assegnazione degli appalti, bisogna applicare ccln e combattere i contratti pirata»,

Le tutele sociali restano una promessa. Ieri in piazza Landini ha citato il problema. Nella riforma «universalistica» degli ammortizzatori sociali, annunciata entro la fine di luglio dal ministro del lavoro Orlando, il criterio base dovrebbe essere: «I diritti non sono legati alla forma del lavoro. Stesse tutele, stessi diritti». Dalle linee generalissime di un provvedimento rinviato già dal governo «Conte 2», tale riforma sarebbe incardinata in una torsione workfarista dello Stato sociale sbrindellato che esiste in Italia. Si punta tutto sulle «politiche attive del lavoro» che dovrebbero, in un universo parallelo, reinserire i licenziati o i cassaintegrati in un nuovo ciclo produttivo o della formazione. Tuttavia questo sistema non esiste. Il fallimento del progetto grillo-leghista del governo «Conte 1», basato sul cosiddetto «reddito di cittadinanza», ha rinviato di anni la sua realizzazione. L’Anpal è stata commissariata, i centri per l’impiego sono al palo. E si continua a sperare nella miracolosa congiunzione astrale per cui la fine del blocco dei licenziamenti dovrebbe coincidere con l’avvio delle politiche attive del lavoro che avrebbero bisogno di un rodaggio di almeno cinque anni. Quelli che si è dato il piano di «ripresa e resilienza» che, entro il 2026, si propone di fare partire ciò che non è iniziato nel 2019. Progetti vasti e confusi. Le loro vittime sono già designate.

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Prima mondiale. La multinazionale anglo-olandese deve tagliare le sue emissioni di gas serra. Subito. È il terzo schiaffo giudiziario in pochi mesi. Il gigante petrolifero è il nono inquinatore globale. I primi dieci sono tutti nel business dei combustibili fossili. Intanto, sempre riguardo agli investimenti "oil only", azionista "attivista" riesce a cacciare due direttori del Cda della Exxon

La gioia di Donald Pols, direttore dell’associazione ambientalista olandese Milieudefensie (Difesa ambientale), dopo la sentenza 

La gioia di Donald Pols, direttore dell’associazione ambientalista olandese Milieudefensie (Difesa ambientale), dopo la sentenza  © Ap 

È UNA PRIMA MONDIALE, gioiscono i capi di Milieudefensie (Difesa ambientale, in olandese). Perché Shell è il nono inquinatore mondiale. E perché non sono solo i governi a dover rispettare gli Accordi di Parigi sul clima. Ora anche le aziende, almeno quelle che hanno fatturati come il pil di un piccolo-medio stato.

Milieudefensie è nata come associazione di scienziati nel 1971, oggi è la branca olandese di Amici della Terra e dichiara 90mila iscritti. Con 300mila dollari di budget per avvocati, ricerche ed esperti, ha sfidato una delle quattro più grandi compagnie del pianeta, che fattura 260 miliardi di dollari l’anno in 140 paesi. L’ha sfidata in casa sua – il quartier generale e a Houston, in Texas, ma la sede fiscale è L’Aja. E l’ha sfidata sulla base del «danno imminente» e della preminenza del danno collettivo sull’interesse aziendale, e anche questa è una prima.

Perché Shell non ha fatto niente di illegale, ha stabilito la giudice Larisa Alwin. Ma siccome il 95% dei suoi investimenti sono e continuano ad essere spesi per trivellare petrolio o per cercarne altro, e da decenni si è a conoscenza dei danni dei gas serra, i generici impegni non bastano più: troppo evidente il danno in arrivo per i cittadini olandesi (e magari per tutti quelli che respirano un’aria simile), troppo lieve l’impegno per contrastarlo – la definizione del giudice è «intangibile, indefinito e non vincolante». Quindi la sentenza: taglio del 45% dei gas serra entro il 2030, sia i vostri che quelli provocati dai vostri prodotti. Fate come volete, scrive il giudice, ma tagliate.

LA MULTINAZIONALE anglo-olandese – nata nel 1907 per contrastare lo strapotere della Standard Oil di Rockefeller e adeguatasi molto in fretta alla sua prassi industriale – ha espresso «disappunto» e annunciato ricorso, sulla base tra l’altro del fatto che a dover dar retta agli Accordi di Parigi sono i paesi che li hanno firmati e non le aziende. I più grandi e inquinanti firmatari di quegli accordi, peraltro, erano gli Stati uniti, e appena Trump divenne presidente li stracciarono di gran carriera. Perché dovrebbe conformarvisi un’impresa, che ha negli azionisti i soli elettori che contano?

Ma «ci sarà un giudice a Berlino»: come il mugnaio settecentesco bistrattato dal suo conte si rivolse a Federico II, così la piccola Milieudefensie ha congregato un altro po’ di associazioni – tra cui Greenpeace – e si è rivolta al giudice dell’Aja. E ora gli imperi dei combustibili fossili devono guardarsi da una pioggia di cause simili nelle rispettive sedi fiscali. L’avvocato di Milieudefensie, Roger Cox, già lo teorizza: «Raccogliete il guanto di sfida», ha detto, chiedendo di aprire cause così ovunque sia possibile.

CHE SHELL È IL NONO INQUINATORE mondiale lo dice il Carbon Majors Database. I primi dieci sono tutti nei combustibili fossili e da soli fanno oltre un terzo della percentuale dei gas serra mondiali: China Coal (14,3%), Saudi Aramco (4,5%), Gazprom (3,9), National Iranian Oil (2,3%), ExxonMobil (2%), Coal India (1,9%), Pemex Mexico (1,9%), Russia Coal (1,9%), Royal Dutch Shell (1,7%), China national petroleum (1,6%).

La causa è iniziata lo scorso 1 dicembre e Shell, sicura di vincere, aveva presentato il suo calendario contro i gas serra che prevedeva di tagliare le emissioni carboniche del 20% entro il 2030, per arrivare a emissioni zero entro il 2050. Ma per taglio, il gigante petrolifero intendeva più che altro l’impiego di una tecnologia detta Ccs (Carbon capture & storage), che prevede di “catturare” l’anidride carbonica nell’aria e ficcarla in profondi pozzi sotterranei per i secoli dei secoli amen. Una tecnologia non ancora completamente disponibile. Per la quale comunque la Norvegia, grande e socialdemocratico produttore di petrolio, sta trivellando i suoi stessi mari nella fabbricazione di queste cisterne per rifiuti sempiterni – e sui cui anche l’Italia sembra contare per spendere un po’ dei soldi europei per l’ambiente.

È COMUNQUE IL TERZO SCHIAFFO giudiziario a Shell in pochi mesi. Lo scorso gennaio un tribunale olandese aveva condannato la multinazionale a compensare le vittime del disastro provocato dalla perdita di un oleodotto in Nigeria una decina di anni fa, e in febbraio la corte suprema della Gran Bretagna aveva reso possibile a migliaia di nigeriani di fare causa a Shell per danni ambientali nei tribunali inglesi.

E non è la sola batosta ecologica per i top petrolieri mondiali. Per la prima volta al mondo, due direttori nel consiglio d’amministrazione di Exxon – la più grande compagnia petrolifera americana, uno dei quattro big del mondo – sono stati cacciati da un azionista “attivista” che protestava per i pervicaci investimenti oil only dei gigante del greggio, quello che più di tutti si ostina a investire solo in petrolio e niente – ma proprio niente – in energie alternative (perdendoci anche, che è il vero motivo della cacciata). L’hedge fund “Engine N. 1” ha guadagnato i voti di un gruppo di potentissimi fondi-pensione americani e ha vinto due posti nel cda, estromettendo due dirigenti “nemici”.  È la prima volta che un azionista vince una battaglia ”ambientale”, ma è solo l’inizio.

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Battaglia Sociale. Sindacati edili a Montecitorio nel giorno dell’ennesimo morto: un portuale a Salerno. Landini: il governo faccia marcia indietro. Per evitare la mobilitazione Cgil, Cisl e Uil chiedono il ritiro del massimo ribasso e subappalti liberi

 

Nel giorno dell’ennesimo morto sul lavoro, davanti a Montecitorio i sindacati degli edili si sdraiano per terra inscenando ciò che succede quotidianamente nei cantieri della penisola. E, assieme ai vertici confederali, avvertono il governo sul decreto Semplificazioni: se non ci saranno modifiche su subapplati, il ritorno del massimo ribasso e appalti integrati sarà sciopero generale.

NELLA NOTTE FRA MARTEDÌ E IERI al porto di Salerno è morto Matteo Leone. L’operaio trentenne lavoratore della Compagnia Portuale, molto conosciuto in città, nel primo pomeriggio di martedì era stato investito al Molo 10 da una macchina operatrice, probabilmente un carrello. Durante la notte è spirato all’ospedale di Salerno: troppo gravi le lesioni riportate. Matteo Leone due anni fa aveva sconfitto la leucemia ma contro l’insicurezza sul lavoro non ha potuto fare niente.

I sindacati dalle due della scorsa notte hanno indetto uno sciopero di 24 ore per i lavoratori del porto di Salerno. «È inaccettabile – commentano – che un giovane possa morire mentre compie il proprio dovere, perché lavoro non deve significare morte. La strage di lavoratori non si ferma e le parole di condanna non servono a nulla, occorre fare qualcosa», denunciano Filt Cgil, Fit Cils e Uilt. Per questo i portuali di tutta Italia si sono fermati un’ora ne alle 12 con le sirene che hanno suonato a lutto.

Nel pomeriggio alle 16 invece davanti Montecitorio – ma anche in tante altre piazze: Palermo, Napoli, Ancona, Bergamo e Alessandria – i sindacati edili hanno manifestato al grido: «Fermate le stragi nei cantieri». Nella settimana di mobilitazione nazionale che i sindacati dedicano al tema della sicurezza sul lavoro, ieri era il giorno degli edili, in cima a tutte le classifiche di rischio.

«Le norme inserite nel decreto del governo riguardanti la liberalizzazione dei subappalti e il massimo ribasso – hanno detto chiaro e tondo i leader delle categorie di settore, Alessandro Genovesi per la Fillea Cgil, Vito Panzarella per la Feneal Uil e Franco Turri per la Filca Cisl – non ci lasciano alternative, contro il ritorno alla legge della giungla nei cantieri sarà mobilitazione generale. Questa giornata è dedicata all’emergenza delle morti sul lavoro, cresciute nei nostri settori del 70% nel bimestre gennaio-febbraio 2021 rispetto al 2020. Anche in questa occasione ribadiamo a gran voce le richieste contenute nella nostra piattaforma presentata al governo per il rilancio delle costruzioni nel segno della qualità del lavoro e dell’impresa».

QUANTO AL DECRETO Semplificazioni la posizione dei sindacati degli edili è molto precisa: se il governo ritirerà dal testo gare al massimo ribasso, deregolamentazione del subappalto e limiterà l’appalto integrato (progettazione ed esecuzione ad un unico committente) alle sole opere complesse, Fillea Cgil, Feneal Uil e Filca Cisl sono disponibili ad aprire un tavolo con il governo sulla legge delega che entro l’anno dovrà rivedere il Codice degli appalti, come da impegno nel Pnrr che non prevedeva l’accelerazione dell’ultima settimana.
Al presidio anche il segretario generale della Cgil Maurizio Landini. «Siamo qui in piazza per dire basta morti sul lavoro – ha esordito – . Dovrebbe entrare nella testa di tutti che la liberalizzazione degli appalti e la logica del massimo ribasso sono quelle determinano un lavoro insicuro, che è quello che in alcuni casi provoca le morti sul lavoro».

LANDINI È TORNATO anche sul decreto Sostegni bis – pubblicato in Gazzetta Ufficiale martedì sera e in vigore da ieri – e sulla cancellazione della proroga al 28 agosto del blocco dei licenziamenti prevista inizialmente dal ministro Orlando e cancellata da Draghi dopo le pressioni di Confindustria.

«Non condividiamo la mediazione del governo perché dal primo luglio si può riniziare a licenziare – attacca Landini – . Per una parte del mondo del lavoro la data è il 31 ottobre e continuiamo a pensare che quello sia limite per tutti e che bisogna usare questi mesi prima di agosto per fare una riforma degli ammortizzatori sociali. Il governo convochi le parti sociali. Su questo tema non siamo per impedire alle aziende di riorganizzarsi, quello che diciamo e che è possibile farlo senza ricorrere ai licenziamenti». «Sta partendo una lettera in cui chiediamo a tutte le forze politiche in parlamento», spiega Landini, di trovare soluzioni. E avverte se sul blocco dei licenziamenti «la posizione non si cambia, valuteremo quale iniziative mettere in campo, non ne escludo neanche una. Non si può cambiare il paese contro e senza il mondo del lavoro».

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Libertà d'Impresa. Cancellato il compromesso sull’allungamento al 28 agosto voluto dal ministro Orlando. A 4 giorni dal consiglio dei ministri, le pressioni della destra producono la retromarcia sul testo. Nota serale di palazzo Chigi annuncia la gratuità della cig fino a fine anno per le imprese che non licenziano. Il Pd abbozza: confermata la nostra impostazione

 

A quattro giorni di distanza dall’approvazione in consiglio dei ministri del decreto Sostegni bis Lega e Confindustria vanno a caccia del ministro del Lavoro Andrea Orlando e ottengono da palazzo Chigi la cancellazione del suo compromesso sui licenziamenti.

DOPO GIORNI DI SOMMOVIMENTI, sul Sole24Ore ad Orlando era stata formulata un’accusa che ha del surreale: lo stesso ministro del lavoro del Pd avrebbe inserito la norma che prevede il prolungamento del blocco al 28 agosto per le aziende che chiederanno la cassa Covid a giugno surrettiziamente all’ultimo momento. Una tesi bislacca che come corollario avrebbe il fatto che Mario Draghi si sarebbe fatto sorprendere o – addirittura – avrebbe assistito inerme e inconsapevole alla conferenza stampa successiva in cui lo stesso Orlando spiegava la norma a favore di giornalisti e telecamere.

Carlo Bonomi

Questo è stato sostenuto in un retroscena uscito sul quotidiano ieri, imbeccato adeguatamente da Confindustria e dalla Lega.

Le cose naturalmente non stanno così. La norma è stata discussa in consiglio dei ministri e approvata all’unanimità. È vero invece che molti componenti del governo non ne abbiano capito il contenuto e, ancor di più, nei giorni seguenti siano stati richiamati all’ordine da Carlo Bonomi e sodali che volevano tornare a licenziare da fine giugno, come previsto dal decreto Sostegni uno.

Aveva cominciato sabato la sottosegretaria leghista al lavoro Tiziana Nisini sostenendo che la norma «così come scritta dal ministro Orlando non è condivisibile». A lei dava manforte Il Sole 24 Ore confindustriale che ipotizza modifiche in fase di effettiva stesura del testo del decreto.

Ieri la questione è scoppiata politicamente. Da una parte un rincorrersi di imprecisate fonti di governo che parlavano di modifiche alla norma – il decreto non è ancora stato pubblicato in Gazzetta ufficiale – e dall’altra il Pd schierato a difesa di Orlando, a partire dal segretario Enrico Letta: «Sulla questione cruciale del blocco licenziamenti e della cig ho letto critiche superficiali e ingenerose nei confronti del Ministro Andrea Orlando, che lavora, su tema delicato per milioni di italiani, con tutto il nostro sostegno e apprezzamento».

MA A SERA È ARRIVATO LA NOTA di palazzo Chigi a confermare la cancellazione della norma: sparisce la data del 28 agosto e viene resa gratuita la cassa integrazione ordinaria fino alle fine dell’anno. «All’esito di un percorso di approfondimento tecnico svolto sulla base delle proposte del Ministro Orlando in Cdm che prevedono un insieme più complessivo di misure per sostenere le imprese e i lavoratori nella fase della ripartenza, è stata definita una proposta che mantiene la possibilità per le imprese di utilizzare la Cassa integrazione ordinaria, anche dal primo luglio, senza pagare addizionali fino alla fine dell’anno impegnandosi a non licenziare».

PER NON ALZARE completamente bandiera bianca e ammettere la sconfitta, la nota è stata subito seguita da un’altra fatta uscire da «fonti Pd di governo» che rivendicano come «il pacchetto lavoro approvato nel decreto Sostegni bis conferma l’impostazione data dal ministro Orlando con una serie di opzioni a disposizione delle aziende, alternative ai licenziamenti», a partire «dalla cig ordinaria gratuita fino a fine anno per le imprese che si impegnano a non licenziare» per passare «al contratto di rioccupazione a tempo indeterminato, dal rafforzamento del contratto di solidarietà al contratto di espansione per favorire la staffetta generazionale nelle aziende fino agli sgravi contributivi del 100% per i lavoratori assunti nei settori del commercio e del turismo».

LA CRUDA REALTÀ PERÒ È QUESTA: un’azienda che sta uscendo dalla crisi con la norma voluta da Orlando doveva attendere il 28 agosto. Ora potrà licenziare dal primo luglio. Vincono Bonomi e la Lega su tutta la linea.

In realtà la norma proposta da Orlando un problema lo aveva. Creava un disallineamento tra le imprese che chiedono la cassa Covid – gratuita – a giugno e non potevano licenziare fino a fine agosto da una parte e le aziende che chiederanno la cassa integrazione ordinaria – scontata proprio ai sensi della stessa norma – che non possono licenziare (giustamente) finché utilizzano l’ammortizzatore sociale.

DETTO QUESTO, SI TRATTAVA di un aspetto minimale rispetto all’importanza del blocco che viene difeso dai sindacati, nonostante per Cgil, Cisl e Uil rimanga la richiesta della proroga ad ottobre quando dovrebbe arrivare la riforma degli ammortizzatori sociali che permetterebbe di gestire meglio le certe ristrutturazioni aziendali.

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Trivelle. Intervista al vicepresidente di Legambiente sulla ripresa delle trivellazioni e il piano di ripresa e resilienza del governo: "La proposta italiana sul clima è inadeguata. Il «Pnrr» investe poco sulle città, l’edilizia pubblica e la mobilità sostenibile e cifre enormi sull’edilizia privata o l’alta velocità"

Edoardo Zanchini (legambiente)

Edoardo Zanchini, vicepresidente di Legambiente, ieri in un’intervista televisiva il ministro della transizione ecologica Roberto Cingolani ha detto di avere «parlato con Legambiente, Greenpeace, c’è un accordo sul recovery piuttosto buono sui contenuti principali, ovviamente tutto è migliorabile». Di quale accordo sta parlando e quali sono i contenuti?
Credo si riferisca all’obiettivo di ridurre le emissioni di anidride carbonica del 70% entro il 2030 che anche noi condividiamo. Ma noi non abbiamo fatto alcun accordo con il ministero. Anche perché di fatto il «Recovery» è stato approvato senza un significativo confronto con la società e il parlamento. La proposta italiana sul clima è inadeguata. Sulle rinnovabili si dovrebbero installare sei gigawatt l’anno per realizzare gli obiettivi europei entro il 2030. Con il «Recovery» si installeranno circa 4 gigawatt. Non sono sufficienti. Non si fanno scelte per accelerare sul fotovoltaico in un paese che ha circa 170 mila ettari da bonificare. Non ci sono scelte che permetterebbero di sviluppare l’eolico offshore galleggiante che potrebbe allontanare gli impianti di molte miglia dalle coste. Il «piano di ripresa e resilienza» non dice nulla su questi impianti.

Quali sono a suo avviso gli altri punti critici del «piano nazionale di ripresa e resilienza»?
Le infrastrutture. Si investe molto poco sulle città e sulla mobilità sostenibile. A differenza di quanto accade con l’alta velocità dove si investono 25 miliardi di euro. E poi c’è il capitolo dell’efficienza energetica. Nel piano del governo ci sono obiettivi vaghi, anche se sono previste risorse enormi, in particolare sull’edilizia privata. Il problema è che non c’è quasi niente sull’edilizia pubblica. Mi sembra che ci siano poche idee sulla transizione che riduce consumi energetici degli edifici, facendo a meno del metano per riscaldarli.

Le trivellazioni sono ripartite. Ci spiega come siamo arrivati a questo punto?
Sono stati presentati diversi progetti per le nuove trivellazioni, il governo avrebbe dovuto individuare i criteri con cui limitare e bloccare le nuove esplorazioni. L’obiettivo è quello che è stato già fatto altrove: fissare la data entro la quale non si estrarrà più gas e petrolio, per noi dovrebbe essere il 2030. Questo è il modo per dare un segnale chiaro. Altrimenti è una ipocrisia. In Italia manca una legge analoga a quelle approvate in Francia e in Danimarca, uno dei maggiori produttori di petrolio in Europa, che stabilisca un chiaro termine ultimo di validità delle concessioni e preveda un fermo delle attività correlate e delle autorizzazioni per nuove attività di ricerca e prospezione degli idrocarburi. In Italia nessun impianto offshore ha avuto il va libera dal ministero e dalle sovrintendenze, eppure si fanno trivellazioni. Una piattaforma nell’Adriatico è considerata parte del paesaggio, mentre l’eolico è brutto. Sono questi i criteri con cui si approvano i progetti?

 
 
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"Liberalizzazione del subappalto, gare al massimo ribasso, e poi ci mancava pure l'appalto integrato, quello che affida allo stesso soggetto la progettazione e l'esecuzione dell'opera. Trovo del tutto sbagliato e grave l'orientamento che il governo sembrerebbe prendere Così si torna indietro di 20 anni, ai tempi del governo Berlusconi e del suo ministro Lunardi", ha detto il segretario della Cgil.

23 maggio 2021

"È una vera scelta indecente quella che si appresta a fare il governo" ed è per questo che siamo pronti e valutiamo lo sciopero generale. Lo dice Maurizio Landini, segretario generale della Cgil, in un'intervista a 'La Repubblica' parlando del decreto Semplificazioni e in particolare di: "liberalizzazione del subappalto, gare al massimo ribasso, e poi ci mancava pure l'appalto integrato, quello che affida allo stesso soggetto la progettazione e l'esecuzione dell'opera. Trovo del tutto sbagliato e grave l'orientamento che il governo sembrerebbe prendere. Così si torna indietro di 20 anni, ai tempi del governo Berlusconi e del suo ministro Lunardi".   

Quanto alla proposta di Letta sulla tassa di successione secondo Landini "la dote principale che si dovrebbe fornire ai giovani" è "quella di un lavoro stabile, sicuro e non precario.  Certo, il problema della riforma fiscale esiste come quello di una diversa redistribuzione della ricchezza per combattere le diseguaglianze crescenti. Penso sia di sinistra rimettere al centro il lavoro, non licenziare, investire sulla sanità pubblica e su un nuovo modello di stato sociale.

Insomma, in questa fase non puoi licenziare i padri e offrire un lavoro precario ai figli. Mi permetto di dire che serve un progetto di cambiamento di più ampio respiro".   

"Abbiamo già visto che cosa significa - prosegue il segretario della Cgil - riduzione dei diritti, scarsa qualità del lavoro" e "delle opere, maggiore insicurezza nei cantieri e il rischio di alimentare corruzione e illegalità".

Pronti allo sciopero generale? "Alcune nostre categorie unitariamente sono già pronte. Noi, conseguentemente, lo valuteremo insieme a Cisl e Uil. Al governo stiamo dicendo che non va, che sta sbagliando. Si era impegnato a discutere con noi prima di approvare le riforme e i decreti, invece non lo sta facendo.

Dunque è chiaro che se non cambia direzione ragioneremo su tutte le forme di mobilitazione necessarie, nessuna esclusa", ha detto ancora Landini.  "Noi ci stiamo giocando ora il futuro del Paese - afferma il segretario della Cgil - per ridurre i tempi bisogna fare le assunzioni, ridurre e riqualificare le stazioni appaltanti. La questione centrale deve essere quella della qualità dei progetti, non semplicemente quella dei costi. Non possiamo tornare a prima della pandemia, quel prezzo lo abbiamo già pagato. Gli investimenti e le riforme che possiamo fare, grazie alle risorse del Recovery Fund, devono  servire a cambiare il Paese e a valorizzare il lavoro. Dunque se la questione è la reingegnerizzazione dei processi delle procedure, noi siamo pronti a fare la nostra parte".

Sui licenziamenti: "È un primo passo, ma non risolutivo. Noi chiediamo la proroga del blocco generalizzato per tutti fino ad ottobre per poter definire nel frattempo la riforma degli ammortizzatori sociali" ha detto Landini, aggiungendo "Trovo inaccettabile la  logica che indica nei licenziamenti la strada per le riorganizzazioni aziendali". 

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