Intervista a Pierluigi Consorti, docente all’Università di Pisa. «La questione è che ancora non sappiamo alla fine come sarà questa legge sull’omotransfobia, quindi il tema concordatario è inesistente. Una violazione potrebbe esserci una volta approvata la legge, ma onestamente non vedo questo rischio. Se passasse così com’è non violerebbe gli accordi tra Stato e Chiesa»
Professor Pierluigi Consorti, docente all’Università di Pisa e presidente dell’Associazione dei docenti universitari di diritto canonico ed ecclesiastico, la Santa Sede sostiene che il dibattito sul Ddl Zan sia una violazione del Concordato.
La interrompo subito. Il Concordato non c’entra nulla con questa storia.
Ci può spiegare il perché?
Il Concordato è uno strumento legittimo che sta sotto il cappello della Costituzione, che a sua volta stabilisce il principio della laicità dello Stato e della separazione degli ordini, che non dovrebbero interferire l’uno con l’altro. Il Vaticano può sollevare la questione diplomatica se si dovesse ledere un diritto della Chiesa, ma in questo caso non mi sembra proprio che sia così. Stiamo parlando di qualcosa che non è nemmeno una legge, c’è un dibattito in corso in parlamento e non sappiamo cose ne verrà fuori. In pratica, uno stato straniero dice all’Italia che il dibattito sul tema deve essere indirizzato in maniera diversa altrimenti potrebbero esserci problemi. Una cosa del genere non si era mai vista e, ripeto, il tema concordatario è inesistente.
Un’entrata a gamba tesa sul dibattito parlamentare.
Sì, quello del Vaticano è un passo preventivo e, diciamo, fastidioso. La questione è che ancora non sappiamo alla fine come sarà questa legge sull’omotransfobia, quindi il tema concordatario è inesistente. Mi spiego: una violazione del Concordato potrebbe esserci una volta approvata la legge, ma onestamente non vedo questo rischio. Se passasse così com’è, un’eventuale legge Zan non violerebbe gli accordi tra Stato e Chiesa.
Il Vaticano sembrerebbe prendersela particolarmente con l’articolo 7 del Ddl Zan, quello con cui si istituisce una giornata contro l’omotransfobia. Dicono che sarebbe una sostanziale violazione dell’autonomia culturale della Chiesa.
Non capisco una cosa: questa presa di posizione vuol dire che loro sono favorevoli all’omotransfobia? Non credo sia così che vogliono intenderla. Peraltro, in Italia, com’è noto, vige la ripartizione dei poteri, principio che la Chiesa non ha. Ora la Santa Sede dice al governo di far sapere al parlamento che questo dibattito sul Ddl Zan non va bene. Sembra di stare nel ‘500 con il Papa che minaccia il re… È una richiesta che non ha nulla a che vedere con la prassi democratica contemporanea.
Di primo acchito, la risposta della politica italiana è sembrata, per usare un eufemismo, molto morbida. Come la vede?
Davanti a una cosa del genere persino Andreotti sarebbe insorto e avrebbe rivendicato il principio di laicità. Per non dire di altri leader politici come Craxi o Spadolini… Allora, va detto, c’era un’altra sensibilità sul tema e la Chiesa era molto più attenta al dibattito politico italiano. Possiamo dire che in questo momento, in Italia, si registra un’assenza di politica ecclesiastica. E anche queste sono le conseguenze.
Il segretario del Pd Enrico Letta dice che saranno valutati «con il massimo spirito di apertura i nodi giuridici» che si aprirebbero con questa nota del Vaticano.
Quella di Letta mi pare una posizione molto debole. Personalmente sono molto geloso del principio di laicità e credo che sia centrale in questo tipo di discorso. Voglio dire, se dovesse essere necessario intervenire sul Ddl Zan, come su qualsiasi altra legge, questo non deve avvenire perché lo dice la Santa Sede. Certamente dovrà intervenire il ministro degli Esteri Di Maio, e anche Draghi, che però è la prima volta che si ritrova a dover gestire un dibattito del genere».
Ci sono precedenti?
Ce n’è uno molto recente. Durante il lockdown della primavera del 2020, la Cei tirò in mezzo il concordato sulla vicenda della chiusura delle chiese. È un precedente importante, ma a mio avviso nemmeno lì il Concordato c’entrava molto.
Per come si è posto, comunque, questo intervento sul Ddl Zan apre una questione diplomatica.
Tutto quanto avrebbe avuto più senso se a intervenire fosse stata la Cei o un vescovo italiano, che avrebbero potuto legittimamente dire la loro e entrare nel dibattito politico. Peraltro, se vogliamo parlare di Concordato, lì si stabilisce che sia proprio la Conferenza episcopale a rappresentare la Chiesa italiana verso lo Stato. Questo, al di là del merito, mi pare proprio un intervento a gamba tesa e basta. L’aspetto diplomatico è decisamente stonato, e in ogni caso vorrei ricordare che quando la Santa Sede si è messa di traverso rispetto ai diritti civili, penso all’aborto e al divorzio, non ci ha proprio guadagnato.
Parla il padre del celebre operaio di carta: "Nei capannoni della logistica non avrebbe il tempo di parlare e non saprebbe con chi farlo". "Landini ha ragione quando dice che oggi il lavoro è disprezzato"
ROMA - Francesco Tullio Altan, si muore in fabbrica e sui piazzali della logistica, ci si scontra tra precari. Che direbbe oggi il suo Cipputi di fronte a questa situazione del mondo del lavoro? «Nulla, temo. Intanto perché da quel che capisco in quei capannoni ci sono ritmi folli e non avrebbe nemmeno il tempo di parlare con qualcuno. E poi perché non saprebbe con chi parlare, né sul posto di lavoro nè fuori, perché fuori ci si disperde. Cipputi non ha più compagni, è sempre solo». L’operaio più famoso d’Italia, nato 45 anni fa con un segno di penna e approdato anche sulla Treccani come simbolo di un’intera categoria, si è perso - racconta il suo autore - e non si trova più. Non può essere tra i capannoni agli snodi delle autostrade, non sfreccia tra i rider che consegnano le nostre cene a domicilio, non ha più accanto “il Binis”, “il Bigazzi”, “lo Stavazzi”, il collega con mille nomi ma sempre la stessa tuta, a cui affidare di fronte a un tornio o a una pressa le sue fulminanti battute.
Maurizio Landini, il segretario generale della Cgil, ha detto su Repubblica che ormai «il lavoro è disprezzato». Lo è davvero? «Sì, sono d’accordo. Soprattutto perché il lavoro oggi è talmente parcellizzato, talmente ridotto a rapporti di una singola persona non più contro il padrone, ma con una sorta di entità superiore che sta sopra, che diventa difficile opporsi a qualcosa: è possibile ricattare e sfruttare chi lavora in tutte le maniere, anche nuove».
Lei che esperienza aveva della fabbrica nel ‘76, quando nasce Cipputi? «Molto esterna, ma i Cipputi li vedevo in giro per Milano, sui tram. Qualcuno alle Feste dell’Unità veniva da me a dire. “Sono io il tuo personaggio” e in effetti gli assomigliava anche. Era forse l’ultimo periodo di qualcosa che durava da decenni e che poi si è perso».
Cipputi negli anni ha votato la sinistra, poi forse si è innamorato della Lega... «No, il mio Cipputi mai. Di sicuro molti altri Cipputi sì».
E loro avranno anche scelto i 5 Stelle in questi anni «Credo proprio di sì. Visto il consenso che hanno avuto per forza di cose dovevano avere anche tanti Cipputi come elettori».
Oggi Cipputi chi voterebbe? «Da quel po’ che lo conosco secondo me voterebbe Pd, è la sua storia. Ma non vorrei parlare per conto di un altro».
Al Pd e al sindacato chiederebbe di occuparsi dei diritti di chi è in quei capannoni e di quelli dei rider? «Di sicuro sì, ma non so che soluzioni potrebbe offrire. Siamo davvero in un momento complicato dove il lavoro è disprezzato sia da chi lo dà sia da chi lo fa. La nobiltà del lavoro di fabbrica, che magari era ripetitivo e pesante ma dove si capiva il senso di quello che si stava facendo e c’era il piacere di farlo bene, adesso si è persa. Ora l’unico senso di portare un pacco in fretta è di poterne portare un altro dopo».
Landini dice anche che così è a rischio la tenuta della democrazia. È una previsione azzardata? «No, alla lunga è possibile. Quando non c’è un senso di comunità e ognuno va per conto suo non si controlla più niente».
Cipputi si vede ormai meno tra i suoi personaggi... «Sì. La presenza sua e dei suoi colleghi si è diradata, se non per occasioni un po’ istituzionali come il Primo maggio o la Costituzione, dove si va a richiamare la vecchia guardia da difendere. Ma di sicuro si parla meno della sua categoria».
Per rubare una battuta proprio a Cipputi al collega che gli annuncia uno sciopero: «Facciamogli un po’ vedere chi eravamo». «È così. In questa frammentazione è difficile trovare un emblema di chi lavora. Oggi quello che un tempo era Cipputi non appartiene più a un gruppo grande che ha dei valori, delle prospettive e delle idee, ma il suo è un vivere alla giornata, un cercare di farcela».
Lei da un quarto di secolo organizza anche il Premio Cipputi, fino a quest’anno ospitato dal Torino Film Festival e che ora passa a Bologna. Perché? «Che non fosse più a Torino l’ho saputo da una telefonata dove mi si diceva che il premio non c’era più perché costava. E siccome non costa nulla, se non un paio di notti in albergo, sono rimasto perplesso. Poi Bologna mi ha detto che l’avrebbe ospitato e io ho accettato volentieri perché è una città a me carissima, dove ho passato l’infanzia».
Meno Cipputi tra i suoi personaggi, addio al Cavalier Banana, i celebri ombrelli messi in ombra dall’enorme ombrello globale che è il Covid. Il virus monopolizza anche lei? «Non si parla d’altro e anche io devo parlare di questo, il mio lavoro forse è diventato un po’ più difficile».
Questo governo di unità nazionale dove tutto si tiene e le differenze si diluiscono che impressione le dà? «Di qualcosa che ci deve essere perché non c’erano altre strade».
Di Draghi si fida?
«Mi pare una persona competente. Meno competenti forse sono altri con lui».
Draghi riuscirà a portarci - perdoni l’altro plagio - a essere un Paese normale invece che straordinario? «Quello sarebbe davvero un miracolo».
È raro vedere a fine giugno una mobilitazione sindacale: evidentemente la situazione è davvero grave, e non solo per il braccio di ferro sul blocco dei licenziamenti
Il tono trionfalistico con cui il segretario del Pd ha commentato l’esito delle primarie non fa presagire nulla di buono, semmai indica la distanza che lo separa dalla realtà del paese. Come dimostra il fatto che i tre sindacati, Cgil, Cisl e Uil, siano costretti adesso a scendere in piazza per manifestare contro un governo nel quale il primo azionista (politico) è il Pd.
Sembra un paradosso, in realtà non lo è, perché se nasce una coalizione formata da Pd, 5S, Art.1, Italia Viva, Lega e Forza Italia, si fatica persino a sperare che lo sguardo sia rivolto verso chi vive solo del proprio lavoro. Gli interessi preminenti e dominanti sono invece altri.
Molti considerano Mario Draghi una specie di taumaturgo capace di traghettarci fuori dal disastro economico-sociale aggravato dalla tragedia della pandemia. Di sicuro si tratta di una persona preparata, capace di scelte economiche espansive e drastiche (come ha dimostrato nel corso degli ultimi anni in cui ha guidato la Bce). Tuttavia la sua è una storia tutta interna al capitalismo e certamente il lavoro non è la sua barra perché a indicargli la rotta sono gli investimenti, gli interessi, il Pil, il rating nazionale, le aziende (che infatti gli esprimono un alto gradimento, inversamente proporzionale all’opposizione riservata al governo Conte).
Non si può chiedere a chi ha nel suo Dna una formazione, un’esperienza, una credibilità apprezzata dalle banche e nel concerto internazionale, di stravolgere la propria immagine, indossando la tuta da lavoro. Semmai questa ipotetica tuta dovrebbe indossarla il Partito democratico, che, viceversa, appare sempre più coinvolto nelle logiche di potere che stravolgono chi è abituato a stare da troppo tempo nelle stanze dei bottoni, dove conta soltanto la capacità di decidere, influenzare. E di vincere (sempre meno) la battaglia del potere.
Il lavoro è, dovrebbe essere, comunque la chiave di volta politica, sociale, economica, perfino culturale di un partito che dice di difendere questo mondo. Però così non è.
Altrimenti Maurizio Landini, segretario generale della Cgil, non direbbe che “ora domina lo sfruttamento, la precarietà l’insicurezza del lavoro…il tempo di vita e di lavoro viene piegato al mercato e al profitto. Questa assenza di vincoli sociali mette a rischio la tenuta democratica di un Paese”. Perciò la Cgil, insieme a Cisl e Uil, manifesterà sabato prossimo in tre città, Torino, Firenze e Bari, per un appuntamento che, seppure non richiamerà grandi numeri, può diventare un segnale importante.
È raro vedere a fine giugno una mobilitazione sindacale: evidentemente la situazione è davvero grave, e non solo per il braccio di ferro sul blocco dei licenziamenti. Per quanto il presidente del consiglio, nel corso dei suoi incontri europei di questi giorni, insista sul tasto della coesione sociale, nulla sembra rendere concreta questa ripetuta evocazione.
Tuttavia la mobilitazione sindacale di sabato può funzionare da spartiacque per il futuro dello stesso governo, dal momento che Pd e Art.1 sanno bene che è in gioco non solo la loro credibilità, bensì il significato stesso della loro presenza dentro questo anomalo governo. Bloccare i licenziamenti non è dunque solo un atto dovuto, dopo un anno e mezzo di paralisi da Pandemia, ma un messaggio a quell’Italia che si riconosce nel principio fondativo della Costituzione, a quella parte del paese che crede nella centralità e nella tutela del lavoro, un principio-cardine messo in discussione dal ventennio berlusconiano (che considerava la Costituzione una cartaccia comunista), in poi.
Un’appartenenza e una identità che, è bene ricordarlo, non ha nulla di ideologico. Anzi. Perché riguarda la sopravvivenza di milioni di persone (ridotte in povertà pur lavorando), perché coinvolge la vita sociale, protegge i diritti della maggioranza dei cittadini, alimenta l’economia di un Paese. Difficile capire come possano, le forze democratiche, progressiste, di sinistra, non rendersi conto che difendendo il lavoro, difendono anche la loro incerta sopravvivenza.à
Il segretario generale della Cgil in un'intervista a Repubblica parla della morte del giovane sindacalista Adil Belakhdim e della situazione del lavoro in Italia: "Domina lo sfruttamento del lavoro, la precarietà del lavoro, l'insicurezza del lavoro. Una sequenza di leggi ha portato al punto in cui ci troviamo. Il governo ci convochi e faccia ripartire il dialogo sociale"
In Italia “si è passati dalla tutela del lavoro al disprezzo del lavoro” e “così si mette a rischio anche la tenuta della democrazia“. Il segretario generale della Cgil, Maurizio Landini, usa toni duri per denunciare l’attuale situazione lavorativa e sociale, ribadendo al governo la necessità di cambiare “leggi balorde” e di ascoltare le richieste dei sindacati, a partire dalla piazza del 26 giugno che chiederà la proroga del blocco dei licenziamenti. Landini, intervistato da Repubblica, parte ovviamente dalla morte del giovane sindacalista Adil Belakhdim e dalla “guerra della logistica”. Di picchetti, “anche molto duri, ne ho fatti tanti nella mia vita sindacale”, racconta il leader Cgil, ma “mai e poi mai ho visto un camionista forzare un picchetto, travolgere i lavoratori fino ad ucciderne uno. Mai ho assistito a qualcosa di simile“.
Le giaculatorie della Lega con le ricorrenti richieste di pene più severe e di trattamenti penali più afflittivi e di riduzione delle garanzie giudiziarie sono rivolte esclusivamente nei confronti dei soggetti deboli (immigrati, rom, clochard). Ad esse fa da contrappeso una accanita resistenza quando l’azione giudiziaria lambisce i colletti bianchi o il ceto politico.
Con il deposito dei quesiti in Cassazione è iniziato il percorso dei sei referendum sulla giustizia promossi dal partito radicale e dalla Lega. Ci si potrebbe stupire di una iniziativa congiunta da parte di forze politiche che esprimono opzioni politico-culturali profondamente differenti sui temi della giustizia e dei diritti dei cittadini; opzioni che secondo un linguaggio corrente, vengono qualificate con le espressioni contrapposte di giustizialismo/garantismo. Si tratta di qualificazioni tanto imprecise quanto scorrette.
In realtà il c.d. “giustizialismo” della Lega (e di Fratelli d’Italia) e il c.d. “garantismo” coltivato dai radicali (e da Forza Italia) sono due facce della stessa medaglia. Le giaculatorie della Lega con le ricorrenti richieste di pene più severe e di trattamenti penali più afflittivi e di riduzione delle garanzie giudiziarie, sono rivolte esclusivamente nei confronti dei soggetti deboli (immigrati, rom, clochard), ad esse fa da contrappeso una accanita resistenza quando l’azione giudiziaria lambisce i colletti bianchi o il ceto politico. Per converso l’esasperazione dei radicali per le garanzie procedurali lascia trasparire una forte diffidenza per l’esercizio della giurisdizione.
Queste due culture politiche sono convergenti nell’esigenza di “addomesticare” l’esercizio della giurisdizione per superare lo scandalo del “potere diviso”, cioè quello snodo insuperabile di pluralismo istituzionale rappresentato dal sistema di indipendenza del potere giudiziario che, secondo il disegno costituzionale, non può essere assoggettato né condizionato dall’esercizio dei poteri politici di governo, né da nessun altro potere. A ben vedere si tratta di un’esigenza diffusamente condivisa. Nel suo libro “Magistrati” pubblicato nel 2009, Luciano Violante richiama la concezione della magistratura formulata quattro secoli prima dal filosofo inglese Francis Bacon, secondo il quale: «I giudici devono essere leoni, ma leoni sotto il trono». In altre parole l’esercizio della funzione giudiziaria deve essere compatibilizzato con l’esercizio del potere politico sovrano.
Non v’è dubbio che il modello di giudice, leone sotto il trono, è quello preferito dal sistema politico. I leoni sotto il trono sono feroci verso chi è sgradito al Sovrano: l’esempio è quello di un PM siciliano che sequestrò una nave di una ONG, contestando al capitano la fantastica accusa di violenza privata nei confronti del Governo italiano per averlo “costretto” ad accettare lo sbarco dei migranti salvati nel Mediterraneo. All’occorrenza questi leoni si trasformano in cagnolini quando si trovano di fronte agli abusi del Sovrano: l’esempio è quello di un altro magistrato siciliano che, a fronte della condotta di un politico che – secondo il Tribunale dei Ministri – integrava astrattamente gli estremi del reato di sequestro di persona, ha disposto l’archiviazione, invocando – a contrario – la separazione dei poteri. Certamente al leone sotto il trono non verrà mai in mente di mordere la mano del padrone. Come si fa a far rientrare i leoni sotto il trono? La risposta ce la danno i sei quesiti per i quali è stato richiesto il referendum.
Ci sarà tempo per esaminare nello specifico ciascun quesito e per valutarne l’ammissibilità sotto il profilo costituzionale. Quello che vogliamo rilevare in questa sede è che tutti e sei i quesiti sono convergenti verso lo stesso risultato attraverso gli obiettivi:
di indebolire l’indipendenza di ciascun magistrato (quesito sulla responsabilità civile diretta);
di manipolare l’esercizio dell’azione penale, creando le condizioni per sottoporre il PM al potere politico (quesito sulla separazione delle carriere);
di restringere la possibilità di coercizione penale nei confronti dei colletti bianchi (quesito sulla custodia cautelare);
di garantire “l’agibilità politica” delle istituzioni da parte del ceto politico-amministrativo che incorra in condanne penali (quesito sull’abrogazione della legge Severino);
di complicare la vita al Consiglio Superiore della Magistratura (quesito sulla abolizione della raccolta firme per la presentazione delle candidature);
di manipolare le carriere dei magistrati (quesito sui Consigli Giudiziari).
In una situazione in cui si registra una forte crisi di credibilità della magistratura, dovuta a scandali vari, ampiamente valorizzati dai media, questo potrebbe essere il momento giusto per assestare un colpo mortale al progetto costituzionale, che ha voluto un giudice indipendente a garanzia dei diritti fondamentali dei cittadini, operando una virata verso un sistema autoritario in cui le autorità di governo controllino l’esercizio della giurisdizione, secondo il modello Lukashenko. Quando questo progetto sarà compiuto, forse ci sarà ancora un giudice a Berlino (come invocato dal mugnaio di Potsdam) ma certamente non ci sarà più un giudice a Roma o a Milano capace di difendere i nostri diritti contro gli abusi dei potenti.
Probabilmente ha ragione chi le ritiene un rito stanco, ripetitivo, senza passione. E forse ha ragione anche chi cerca di trasformarle in un momento di confronto e di incontro, magari attraverso la musica in piazza.
Ma il rischio di un fiasco delle primarie è concreto, reale, come ha dimostrato la scarsa partecipazione a quelle del Pd a Torino. E a Roma, dove vengono presentati più nomi di “area Pd”, quindi non strettamente di partito, hanno così paura del fallimento, da fissare una soglia minima di votanti (almeno 50 mila).
Il timore di non centrare l’obiettivo è alto e spiega la mossa dell’apertura delle urne telematiche, molto complicate per chi ha scarsa dimestichezza con il web.
In ogni caso sembrano davvero lontani i tempi in cui le primarie marcavano una vasta presenza di popolo, quando chi andava a votare aveva almeno la sensazione di contribuire alla scelta del candidato sindaco.
Ma appunto era una sensazione: i nomi venivano comunque calati dall’alto della segreteria del partito. Tuttavia il decisionismo centralizzato, era compensato da un’ampia partecipazione, ancora a sei cifre, che avvalorava il significato dell’iniziativa.