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Dialogo Sociale. Intesa su emendamenti al decreto Sostegni bis. Ma i tempi sfasati rispetto al via libera del 1° luglio rischiano di vanificare l’alleanza. Landini: alla luce di questo problema si rende necessaria la riapertura del tavolo con Draghi. L’ex ministra Catalfo: siamo totalmente d’accordo. Letta: purtroppo non c’è un monocolore Pd

Una manifestazione dei lavoratori ex Ilva a Genova

Una manifestazione dei lavoratori ex Ilva a Genova  © Foto Ansa

In una giornata poi sconvolta dalla notizia della morte di Guglielmo Epifani, i sindacati incassano l’appoggio di M5s e Pd nella loro battaglia per il prolungamento del blocco dei licenziamenti.
Da una parte gli emendamenti annunciati dai pentastellati, dall’altra la richiesta di Maurizio Landini di un nuovo incontro con Draghi.

«C’È BISOGNO CHE IL GOVERNO convochi un nuovo tavolo. Crediamo che riforma degli ammortizzatori sociali, proroga del blocco dei licenziamenti ed estensione delle tutele a tutte le forme di lavori debbano essere oggetto di una trattativa specifica con palazzo Chigi», ha detto il segretario generale della Cgil Maurizio Landini al termine del confronto con i parlamentari M5s.
Motivo principale della richiesta di Landini sono i tempi sfasati – sottolineati alla Cgil dalla delegazione pentastellata – della discussione e conversione in legge del decreto Sostegni uno che prevede lo sblocco dei licenziamenti dal primo luglio. «La discussione parlamentare del decreto sostegno inizierà oltre il 30 giugno – spiega Landini – . Il parlamento delibererà oltre la metà del mese di luglio ma dal primo di luglio si potrà licenziare e dunque anche le modifiche che noi proponiamo entreranno in vigore dopo», ha sottolineato Landini. «Alla luce di questo ulteriore problema, ancora di più si rende opportuna e necessaria la riapertura del tavolo da parte del governo», ha sottolineato anche il leader Uil Pierpaolo Bombardieri che nel pomeriggio è stato ricevuto da Mattarella per i 70 anni della Uil. «È urgente riattivare il confronto con il governo per neutralizzare il rischio licenziamenti dal primo luglio», sottolinea la Cisl.

UN ALLEATO NEL GOVERNO Landini sa di averlo. Si tratta del ministro del Lavoro Andrea Orlando, autore della mediazione dell’allungamento del blocco dei licenziamenti al 28 agosto poi cancellata dal decreto Sostegni bis per le pressioni di Confindustria e Lega, accolte da Draghi. Orlando ieri ha cercato di rilanciare il tema utilizzando però un altro argomentno: quello delle diversità di settori. «C’è una coalizione ampia in cui si tratta di tenere insieme posizioni anche diverse, ho visto che si sta facendo strada un ragionamento sulla selettività rispetto ad alcune filiere – ha detto Orlando – . Se questo ragionamento c’è io sono pronto: naturalmente bisogna sempre ricordare che, se bisogna intervenire, va fatto subito perché i tempi sono abbastanza stretti». Domenica anche il ministro dello Sviluppo leghista Giancarlo Giorgetti aveva aperto alla possibilità di prolungare il blocco per alcuni settori come il tessile e la moda.

IN REALTÀ PERÒ LA PROPOSTA di Cgil, Cisl e Uil è generale e non prevede distinguo rispetto ai settori: proroga del blocco dei licenziamenti fino a fine ottobre in attesa di una riforma degli ammortizzatori sociali in senso universalistico.

Due posizioni molto diverse e dunque difficilmente conciliabili. Per questo Landini chiede un incontro con Draghi, consapevole che, in una maggioranza composita, qualsiasi modifica debba essere decisa dal presidente del consiglio.

Rispetto all’incontro con i parlamentari pentastellati Landini ha detto di avere incontrato la disponibilità a recepire alcune delle richieste in sede di conversione del decreto sostegni bis. In particolare il segretario della Cgil ha parlato di «disponibilità da parte del M5s a presentare emendamenti che vadano in direzione delle nostre richieste su blocco dei licenziamenti, estensione dei contratti di solidarietà (non solo a chi ha perso fatturato del 50% ma a tutti), condizionalità dei sostegni alle imprese al mantenimento dell’occupazione, contratti di espansione e governance del Pnrr», ha illustrato Landini.

USCENDO DALL’INCONTRO ha parlato anche l’ex ministra del lavoro M5s Nunzia Catalfo. «Abbiamo incontrato i sindacati e ascoltato le loro istanze, dalla riforma delle politiche attive, agli ammortizzatori sociali. Si è parlato della cassa integrazione e del blocco dei licenziamenti. C’è la necessità di prolungare il blocco per alcuni mesi, e sono necessità assolutamente condivisibili», ha detto la ex ministra che sulla riforma degli ammortizzatori sociali aveva imbastito un dialogo costruttivo con Cgil, Cisl e Uil.
Difficile comunque immaginare oggi che in fase di conversione del decreto Sostegni bis il governo Draghi possa dare parere favorevole ad un emendamento che prolunghi il blocco dei licenziamenti.

C’ERA MOLTA ATTESA per la posizione che avrebbe tenuto Enrico Letta. Purtroppo però l’incontro pomeridiano al Nazareno fra la delegazione ai massimi livelli del Pd e i tre segretari generali di Cgil, Cisl e Uil si è interrota alla notizia della morte di Guglielmo Epifani proprio nel momento in cui il segretario Pd avrebbe dovuto rispondere alle richieste dei sindacati: «Purtroppo non c’è un monocolore Pd», è l’unica battuta che ha fatto il segretario Pd.

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L'opinione. Il modo di una proposta conta. Quella del segretario Pd sollevata solo nella sfera mediatica, ha affievolito il dibattito pubblico su un tema così rilevante in una settimana o poco più

Enrico Letta

 

Come nasce, oggi, una proposta politica? E con quali conseguenze? I giornali, i talk-show, le interviste e – buoni ultimi – i social media sono sempre più il luogo scelto per proposte politiche «d’impatto», sui temi più vari.  Silvio Berlusconi è stato il gran maestro del genere, dal palcoscenico di «Porta a Porta». Matteo Renzi è l’allievo più abile e spregiudicato. Giorgia Meloni e Matteo Salvini, oggi, sono gli interpreti più efficaci.

La proposta di Enrico Letta, relativa all’aumento della tassa di successione a beneficio della «dote per i diciottenni», nasce nel contesto di un’intervista a Massimo Gramellini, anticipata con un tweet «Su @7Corriere lancio proposta di dote per i diciottenni. Per la generazione più in crisi un aiuto concreto per studi, lavoro, casa. Per essere seri va finanziata non a debito (lo ripagherebbero loro) ma chiedendo all’1% più ricco del paese di pagarla con la tassa di successione».

POCHI GIORNI dopo, Letta è ospite del programma di Fabio Fazio, dove rilancia l’idea. La prima reazione è di Mario Draghi, che rimanda al mittente la proposta: «Non è questo il momento di prendere soldi ai cittadini ma di darli». Alla replica del Segretario Pd: «Draghi fa il Premier di una maggioranza eccezionale, io faccio il leader di un partito di sinistra. Questo intervento deve entrare in una riforma fiscale complessiva», segue colloquio «franco e cordiale» tra i due. Questo il canovaccio della rappresentazione.

IL CONTENUTO della proposta è stato poi variamente commentato sui media, vecchi e nuovi: chi la ritiene finalmente una proposta sinistra, chi la giudica troppo di sinistra, chi ne denuncia l’impianto neo-liberale che si affida all’auto-imprenditorialità, chi ne mette a nudo l’incertezza delle coperture, chi la bolla come inutile, velleitaria o dannosa.
Il binomio fiscalità-ricchezza è un tema-tabù, in realtà più per la classe politica che per la popolazione dal momento che un sondaggio SWG riporta che il 50% degli italiani è d’accordo con la proposta di aumentare il prelievo fiscale (per eredità e donazioni maggiori a 5 milioni), mentre la destinazione dei proventi a un fondo giovani desta maggiori perplessità (40% dei consensi).

LETTA NON È CERTO un ingenuo e, come fa da tempo, prova a riposizionare il Pd un po’ più a sinistra, su un tema delicatissimo. Non lo fa, però, dentro il partito o nel tessuto vivo della società. Neppure chiede al partito di farlo in Parlamento. Ma solleva il tema nella sfera mediatica, osserva il posizionamento degli avversari interni ed esterni e decide come proseguire. La sinistra Pd non pare critica verso questa (pre)tattica: per una volta che il Pd si posiziona sul terreno economico-sociale con nettezza per la redistribuzione, vale la pena sostenerlo. Ma, come detto, il modo conta. Anzi, fa la differenza. I media si nutrono di politicismo, osservano la realtà con le categorie della politica e ne adottano le categorie concettuali e i quadri di senso (sul tema con riferimenti ai giornali, si veda: L. Bobbio e F. Roncarolo (a cura di) I media e le politiche, Bologna, Il Mulino, 2015). Sono più interessati agli schieramenti che ai contenuti, alle alleanze che le proposte segnalano e ai confini che creano o spostano, più che al loro merito intrinseco.

Il politicismo ha importanti conseguenze. Anzitutto, sminuisce la trattazione delle politiche pubbliche e le subordina alla politica. L’analisi delle politiche, dei loro dettagli e implicazioni tecniche è così affidato alle dichiarazioni dei leader politici. Si lascia il palcoscenico ai politici generalisti, mentre gli esperti, anche se di parte, hanno pochissimo spazio: i discorsi di contenuto, quando ci sono, durano lo spazio di un mattino.

IL DIBATTITO PUBBLICO sulla proposta di Letta, infatti, si è affievolito in una settimana o poco più. Il cosiddetto «teatrino della politica» ha qui le sue radici: i media sono più realisti del re e filtrano la «notiziabilità» attraverso la logica amico/nemico. Letta sta giocando questa partita: sa che per fare spazio alle proposte le deve politicizzare, mostrandone la rilevanza nel gioco politico più generale. In questo caso, come in altri, marcando la distanza da Salvini («anche se siamo al Governo insieme, siamo diversi») e dalle correnti filo-renziane o centriste («io faccio il leader di un partito di sinistra»). In questo modo, però, i quadri generali prevalgono sul merito degli argomenti, le identificazioni emotive oscurano le riflessioni e il dibattito pubblico. Il rischio è quello di bruciare la proposta e di non lavorare, con metodo e pazienza, all’agenda politica per il post-Draghi.

Il vantaggio può essere quella di riuscire a portare la proposta dentro la negoziazione immediata, utilizzandola come testa di ponte. Ma la posta in gioco, in questo caso, è duplice: la riforma complessiva della fiscalità e il sostegno ai giovani. Aspetto, quest’ultimo, su cui Letta insiste da tempo.
L’esito della eventuale negoziazione con Mario Draghi potrebbe quindi finire con una rinuncia al primo per ottenere in cambio il secondo. Anche perché è sui giovani che Letta potrà avere più facilmente il consenso interno del partito, che ha da tempo rinunciato a fare della fiscalità un tema identitario. A prescindere dall’esito, un punto a sfavore della discussione pubblica a vantaggio della mediatizzazione della politica.

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La sentenza. È molto probabile che le accuse a Vendola possano rientrare. Ma non c’è dubbio che la sentenza per disastro ambientale ha un enorme valore. Semmai è giunta con molto ritardo

L'acciaieria

 

La storia dell’Ilva è emblematica della Storia d’Italia. E, in questo contesto, Vendola può considerarsi protagonista e vittima di una fase di questa storia che è anche storia della sinistra.

L’Italsider è nata negli anni Sessanta, inizio dei «trenta gloriosi», per favorire lo sviluppo del sud agricolo. Col mito dell’industria pesante sola portatrice di lavoro e sviluppo e generatrice di insediamenti abitativi affiancati ai siti produttivi per ospitare le famiglie di dipendenti. Una fase con un intreccio perverso ed inestricabile di vita-lavoro-produzione in cui qualità dello sviluppo e della vita non rientravano nei parametri di valutazione economica e sociale. Nel sud soprattutto, perché lì più grande era la sete di sviluppo.

Fu solo dopo una ventina di anni che si cominciò a prendere coscienza dei problemi dell’ambiente e della salute, la «nuova contraddizione», si disse, dopo quella di classe. E, per la sinistra «industrialista» e per il sindacato, non fu facile accettare un ridimensionamento della centralità del lavoro in nome della salute e dell’ambiente.

Fu allora, in una manifestazione «contro» la centrale nucleare che si voleva costruire a Montalto di Castro – alla quale partecipammo come segreteria della Cgil Lazio dopo un difficile e vivace dibattito interno tra le diverse anime del sindacato – che conobbi il giovane Vendola. Intervenne con le capacità oratorie che lo hanno sempre distinto, sostenendo le ragioni dell’ambiente e della salute. Mi colpirono allora la passione e l’intelligenza politica di questo ragazzo che sapeva convincere e trascinare e parlare il loro linguaggio ai tanti giovani presenti. E per il sindacato furono una scossa ed uno stimolo salutare.

Quel ricordo si affaccia oggi che Vendola viene condannato perché avrebbe voluto «ammorbidire la posizione dell’agenzia sulle emissioni e sui danni prodotti dall’Ilva». Lui che aveva fatto della Puglia una regione all’avanguardia nello sforzo di dare alla istituzione locale un ruolo di controllo nel territorio e nella difficile gestione del rapporto lavoro, salute, ambiente.

E lo aveva fatto nel silenzio e nella latitanza di uno Stato che su una materia tanto delicata scaricava il peso delle decisioni sugli enti locali. E in un fase di travaglio che attraversava la sinistra, il sindacato, i cittadini e che turbava la coscienza delle singole persone e dei militanti della sinistra in particolare. Non fu una passeggiata allora cercare di conciliare le ragioni del lavoro con quelle della salute e dell’ambiente, non mancarono contrasti a sinistra e quella esperienza politica originale si dispiegò in quel mare mosso di timori e possibili errori. Poi il tempo aveva fatto maturare le coscienze e, non ultima, la pandemia aveva accresciuto la consapevolezza della «salute innanzitutto».

Anche per questo c’è sgomento oggi a sinistra. Un protagonista di quel travaglio e di quel cambiamento diventa vittima e complice, insieme ai padroni, del disastro ambientale che ha cercato di contrastare. Nel turbamento ci sono le ragioni dell’affetto e della stima per la persona. Ma c’è anche il rischio di altra disaffezione e delusione.

Spero e ritengo molto probabile che in sede di appello le accuse a Vendola possano rientrare. Ma non ci possono e debbono essere dubbi: la sentenza che condanna per disastro ambientale ha un valore che non è esagerato definire storico. Semmai è arrivata con molto ritardo. Ma è un punto di svolta che obbliga a fare le scelte sempre rinviate. Quindi impone che quello sgomento diventi forza. Per affermare: mai più tolleranza contro tutto ciò che produce danni all’ambiente naturale ed umano. Quindi piena responsabilizzazione del nuovo governo perché la sostenibilità, chiave di volta, del Pnrr, divenga scelta operativa immediata. La migliore solidarietà a Vendola consiste nel proseguire la battaglia perché una volta per tutte si avvii la riconversione di quel sito industriale.

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Autonomie. Un consiglio a Letta, pur non richiesto. Non sprechi energie su temi di poco o nessun rendimento reale, come i regolamenti parlamentari anti-voltagabbana, o la sfiducia costruttiva. Si concentri sull’essenziale: un buon sistema elettorale proporzionale, una solida legge sui partiti politici, e magari una clausola di supremazia statale, che copra anche il regionalismo differenziato, nel Titolo V della Costituzione

 

La ministra Gelmini in audizione il 26 maggio presso la Commissione bicamerale per il federalismo fiscale ci informa che riparte il circo dell’autonomia differenziata, e che ha istituito a tal fine commissioni e gruppi di studio. Sarà riproposta con aggiustamenti la legge-quadro già messa in campo dal suo predecessore Boccia, si definiranno i livelli essenziali delle prestazioni e i fabbisogni standard in vista dell’attuazione del federalismo fiscale. Il tutto con le opportune concertazioni per evitare dissensi e contrasti. L’accoglienza in Veneto è stata trionfale (Corriere del Veneto, 30 maggio, e Nuova Venezia, 31 maggio). Celebra la ripartenza anche Zaia sul Corriere della Sera di ieri, con accenti che potremmo persino definire in qualche punto minacciosi.

Abbiamo già ampiamente censurato la proposta Boccia di legge-quadro, oltre che più in generale il metodo seguito sul regionalismo differenziato. Non ci ripeteremo. Cogliamo invece una novità. Nell’audizione la sen. Ricciardi (M5S) chiede lumi sulla perequazione a livello comunale di cui all’art. 119 Cost. per i territori con minore capacità fiscale per abitante. Nell’art. 119 uno dei cardini è che l’ente locale disponga di risorse sufficienti al finanziamento integrale delle funzioni. Ma nel 2015 la perequazione a livello comunale viene arbitrariamente limitata al 45.8%, come riferisce Marco Esposito nei suoi libri Zero al Sud e Fake Sud. La senatrice – alcuni parlamentari meritoriamente studiano – chiede come e quando si arriverà al 100%. La stupefacente risposta è: probabilmente mai, a causa del necessario rispetto degli equilibri di bilancio.

E il finanziamento integrale di cui all’art. 119? Ci chiediamo se la ministra Gelmini abbia letto il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), che dovrebbe essere voce primaria dell’indirizzo di governo. Sul punto parla di un processo in corso, senza porre tetti arbitrari all’attuazione. Conta, altresì, quel che dice per il federalismo fiscale a livello regionale. È “in corso di approfondimenti da parte del Tavolo tecnico istituito presso il Mef. Il processo sarà definito entro il primo quadrimestre dell’anno 2026”.

Ma allora di cosa parla la Gelmini? Come si può far ripartire il regionalismo differenziato, che impatta sulla distribuzione territoriale delle risorse, se il contesto di riferimento non sarà definito prima del 2026? E come – per ampliare il tema – inciderà la riforma fiscale, altro punto cruciale nel rapporto con la Ue? È ovvio che con essa potrà essere modificata la riferibilità ai territori dei proventi tributari, con ricadute a cascata sull’assegnazione delle risorse. Un momento meno opportuno per rilanciare il regionalismo differenziato non potrebbe davvero esserci.

La domanda è: qual è l’indirizzo di governo sul regionalismo differenziato e il suo rapporto con il Pnrr? Lo vogliamo segnalare a Letta, che nel suo libro Anima e cacciavite sottolinea il fallimento della tesi della locomotiva del Nord, cara agli economisti contigui ai circoli economici e finanziari: “non sto dicendo che la locomotiva deve essere depotenziata, rallentata, per ragioni di uguaglianza. Sto dicendo che la priorità è rendere forti prima di tutto i vagoni, altrimenti è tutto il treno che deraglia”. Sembra di leggere un testo Svimez – per l’occasione declassata dalla stampa veneta prima citata a “ufficio studi” – sul Sud come secondo motore del paese in una prospettiva euromediterranea, per il rilancio dell’Italia tutta. Ma il segretario ha un problema in casa, di nome Bonaccini.

Un consiglio a Letta, pur non richiesto. Non sprechi energie su temi di poco o nessun rendimento reale, come i regolamenti parlamentari anti-voltagabbana, o la sfiducia costruttiva. Si concentri sull’essenziale: un buon sistema elettorale proporzionale, una solida legge sui partiti politici, e magari una clausola di supremazia statale, che copra anche il regionalismo differenziato, nel Titolo V della Costituzione.

Invece, investa sul Mezzogiorno. Là si vincerà o si perderà il confronto con la destra, presto o tardi che venga. Lanciare oggi un progetto forte e chiaro, impostato sul rilancio produttivo, sulla seconda locomotiva per il paese e sull’eguaglianza dei diritti potrà far uscire il Pd e il centrosinistra dalla stagnazione dei consensi in cui vivacchiano. Diversamente, la traversata nel deserto sarà lunga, e nessuno starà sereno.

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La nascita nel 1946 della Repubblica, l’elezione dell’Assemblea Costituente con il suffragio universale effettivo (con il diritto delle donne di candidarsi e votare) e la scrittura della Costituzione italiana non furono un «pranzo di gala».

Ma fu il precipitato storico di una fase drammatica e decisiva della storia d’Italia iniziata con il crollo del fascismo (dopo venti anni di dittatura politica, razziale e di classe) seguita dal collasso dello Stato monarchico (dopo tre anni di guerra mondiale a fianco dei nazisti) continuata con la Resistenza e conclusa con la Liberazione.

Il portato valoriale delle tre guerre combattute dalla Resistenza (Liberazione Nazionale; guerra civile e guerra di classe) trovò forma e sostanza nella Costituzione, configurando la Repubblica come libera e indipendente; antifascista e democratica; informata alla giustizia sociale. La «quarta guerra», quella delle donne, determinò l’assetto compiuto del nostro patto di cittadinanza con il riconoscimento della parità e dell’identità di genere.

NEMMENO la Repubblica e la Costituzione furono un approdo definitivo, esse si misurarono con un quadro della politica interna e internazionale gravido di conflitti, tensioni e spinte contrapposte sui fronti continuità/discontinuità dello Stato e rinnovamento/conservazione degli assetti di potere storicamente dati.
Così la lotta per la difesa della Repubblica e per l’applicazione della Carta divennero il fondamento dell’istanza di progresso contro i tentativi eversivi emersi all’inizio degli anni Sessanta con il governo Tambroni ed il Piano Solo e poi deflagrati con la stagione del terrorismo stragista da Piazza Fontana agli attentati alla stazione di Bologna e del treno Rapido 904. In mezzo, proprio grazie al dettato costituzionale, grandi mobilitazioni di massa determinarono altrettanto grandi conquiste sociali e civili dallo Statuto dei lavoratori al divorzio, dalla riforma del diritto di famiglia al servizio sanitario nazionale. Una connessione diretta tra eredità dell’antifascismo e modificazione dei rapporti sociali nell’Italia del trentennio post-bellico.

75 anni dopo l’Italia repubblicana contemporanea, fuori dalle retoriche celebrative dell’occasione, sembra «abitata» e stretta in una morsa dagli istinti regressivi di un ceto medio colpito dalla crisi e dagli «spiriti animali» di un capitalismo tanto predatorio quanto «straccione» di quelle classi dirigenti-proprietarie che hanno vissuto da estranee l’approdo alla democrazia costituzionale e conflittuale espressa dalla forma assunta dallo Stato tra il 1946 ed il 1948.

SONO IL NESSO inscindibile antifascismo-Repubblica-Costituzione e l’orizzonte di senso che esso ha disegnato nella storia d’Italia a rappresentare oggi, il vero convitato di pietra del discorso pubblico declinato sugli obiettivi della prossima «ripresa», o per meglio dire «ristrutturazione», che deriverà dal Piano dei fondi europei del Next Generation Eu paragonabile, se non superiore per estensione e quantità, al Piano Marshall del dopoguerra.

Tanto più sembra delinearsi l’indirizzo neoliberale di quel piano, gestito dalle stesse classi dirigenti europee promotrici dell’austerity come soluzione delle profonde crisi economico-finanziarie globali pre-pandemiche, tanto meno compatibili ed eterodossi con la «democrazia di mercato» sembrano i principi ideali e materiali (segnati da un moto della storia e un «fatto d’armi» come fu la Resistenza) che condussero madri e padri fondatori della Repubblica a volgere lo sguardo al futuro del Paese.

«NON TACIAMOLO – disse il 22 dicembre 1947 nel suo discorso di chiusura il Presidente Umberto Terracini – molta parte del popolo italiano avrebbe voluto dall’Assemblea costituente qualcos’altro ancora. I più miseri, coloro che conoscono la vana attesa estenuante di un lavoro; coloro che, avendo lavorato per un’intera vita, ancora inutilmente aspettano una modesta garanzia contro il bisogno; coloro che frustano i loro giorni in una fatica senza prospettiva. Essi si attendevano tutti che l’Assemblea esaudisse le loro ardenti aspirazioni, memori come erano di parole proclamate e riecheggiate. Ma noi sappiamo di avere posto, nella Costituzione, altre parole che impegnano inderogabilmente la Repubblica a non ignorare più quelle attese».

È SU QUESTO bivio tra continuità liberista e discontinuità progressista che si decidono gli anni futuri della nostra giovane Repubblica.
Con il pensiero rivolto «alla memoria di quelli che, cadendo nella lotta contro il fascismo e contro i tedeschi, pagarono per tutto il popolo italiano il tragico e generoso prezzo di sangue per la nostra libertà e per la nostra indipendenza» e nella consapevolezza comune che «mancare all’impegno – ammoniva Terracini – sarebbe nello stesso tempo violare la Costituzione e compromettere, forse definitivamente, l’avvenire della Nazione».

Davide Conti
(da "il Manifesto" del 3 giugno 2021)

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Tamburi d'aria. Processo «Ambiente Svenduto», 20 e 22 anni in primo grado per gli ex proprietari e amministratori dell’acciaieria

La ex Ilva di Taranto

La ex Ilva di Taranto © foto LaPresse

È una sentenza che resterà nella storia della città di Taranto. E che diventerà un punto di riferimento per le future controversie legali in materia di inquinamento ambientale in Italia. Ieri mattina, la Corte d’Assise di Taranto, dopo undici giorni di camera di consiglio, ha letto il dispositivo della sentenza di primo grado del processo Ambiente Svenduto sulla gestione dell’ex Ilva negli anni 1995-2013. La sentenza è arrivata dopo 5 anni di dibattimento, quasi 400 udienze fiume che hanno visto sfilare decine di imputati e centinaia di testi: accusa e difesa si sono date battaglia su ogni singolo aspetto di una vicenda infinita e lungi dall’essersi risolta definitivamente.

LA CORTE ha di fatto ritenuto in gran parte corretto l’impianto accusatorio (l’accusa era rappresentata in aula dal procuratore aggiunto Maurizio Carbone e dai sostituti Buccoliero, Epifani, Graziano e Cannalire), condannando a 22 e 20 anni di reclusione Fabio e Nicola Riva, ex proprietari e amministratori dell’ex Ilva, per i reati di concorso in associazione per delinquere finalizzata al disastro ambientale, all’avvelenamento di sostanze alimentari, alla omissione dolosa di cautele sui luoghi di lavoro. L’accusa aveva chiesto 28 e 25 anni. I Riva in fabbrica potevano contare sul cosiddetto «governo ombra», di cui facevano parte i «fiduciari»: 18 gli anni di condanna per cinque imputati (Lafranco Legnani, Alfredo Ceriani, Giovanni Rebaioli, Agostino Pastorino e Enrico Bessone) che secondo l’accusa formavano un gruppo di persone non alle dipendenze dirette dell’Ilva che prendeva ordini dalla famiglia Riva.

CONDANNATO A 21 ANNI e 6 mesi l’ex responsabile delle relazione istituzionali Girolamo Archinà (erano stati chiesti 28 anni), che fungeva da ponte tra la proprietà e la politica oltre a mantenere legami con gran parte della stampa locale, la Curia e che avrebbe corrotto il consulente della procura Liberti condannato a 17 anni.

Condannata anche la catena di comando interna del siderurgico. Ventun’anni per l’ex direttore di stabilimento Luigi Capogrosso, 17 ciascuno agli ex capi area Ivan Di Maggio, Salvatore De Felice e Salvatore D’Alò. Per altri due ex capi area, Marco Andelmi e Angelo Cavallo, la pena è stata di 11 anni e 6 mesi. Condanna di 4 anni invece per l’attuale dirigente Adolfo Buffo (i pm ne avevano chiesti 20). L’ex consulente dei Riva, l’avvocato Francesco Perli è stato condannato a 5 anni e 6 mesi. Piena assoluzione invece per l’ex prefetto Bruno Ferrante, presidente dell’Ilva dall’estate 2012 a quella del 2013 quando l’azienda venne commissariata: per lui erano stati chiesti 17 anni.

MA L’INCHIESTA sull’ex Ilva ha coinvolto anche personaggi politici che ricoprivano ruoli primari durante la gestione Riva. La Corte d’Assise ha infatti condannato a 3 anni l’ex presidente della Provincia Gianni Florido, che risponde di una tentata concussione e di una concussione consumata, reati che avrebbe commesso in concorso con l’ex assessore provinciale all’ambiente Michele Conserva condannato a 3 anni.

Tre anni e mezzo sono stati inflitti all’ex presidente della Regione Puglia Nichi Vendola (i pm ne chiedevano 5): l’ex governatore è accusato di concussione aggravata in concorso, in quanto, secondo la tesi degli inquirenti, avrebbe esercitato pressioni sull’allora direttore generale di Arpa Puglia, Giorgio Assennato, per far «ammorbidire» la posizione della stessa Agenzia nei confronti delle emissioni nocive prodotte dall’Ilva. Quest’ultimo, accusato di favoreggiamento nei confronti dell’ex presidente, è stato condannato a 2 anni. Assennato, che ha sempre negato di aver ricevuto pressioni da Vendola, aveva rinunciato alla prescrizione. Prescritto invece il reato di abuso d’ufficio per l’ex sindaco Ippazio Stefàno.

ULTIMA, MA NON per importanza, è la confisca disposta per gli impianti dell’area a caldo sottoposti a sequestro dal luglio 2012 e delle tre società Ilva spa, Riva Fire (oggi Partecipazioni Industriali in liquidazione) e Riva Forni Elettrici. La confisca per equivalente del profitto illecito nei confronti delle tre società per gli illeciti amministrativi è pari a una somma di 2 miliardi e 100 milioni di euro in solido tra loro. All’ex Ilva è stata anche comminata una sanzione di 4 milioni. Disposti anche 5mila euro di risarcimento danni a testa per le oltre 900 parti civili.

LA CONFISCA PONE degli interrogativi sul futuro dell’azienda, che non si fermerà in quanto la facoltà d’uso degli impianti non è stata intaccata. Così come è chiaro che il provvedimento diventerà effettivo solo quando giungerà la sentenza definitiva. Il punto interrogativo più importante riguarda però gli accordi sin qui sottoscritti tra ArcelorMittal, gestore affittuario, e Invitalia: la proprietà alla base di accordi e transazioni ora viene meno, pertanto non è chiaro se gli accordi resteranno validi. Chi sarà a gestire gli impianti confiscati? Il soggetto pubblico che sarà incaricato di disporne cosa ne dovrà fare?

Il tutto in attesa della prossima sentenza del Consiglio di Stato, che qualora confermasse la sentenza del Tar di Lecce in merito all’ordinanza del sindaco Rinaldo Melucci, porterebbe alla probabile e definitiva chiusura dell’area a caldo del siderurgico tarantino.

La Fiom (parte civile): ora produzione verde

"Sarebbe davvero una beffa insopportabile se, dopo il danno, non diventasse possibile l'approdo ad una produzione ambientalmente sostenibile dell'acciaio a Taranto: condizione indispensabile per la sopravvivenza degli altri siti del gruppo e per le prospettive dell'intera industria manifatturiera italiana".

Lo affermano la segretaria generale Fiom Francesca Re David e il responsabile siderurgia Gianni Venturi, ricordando come la Fiom e Cgil fossero parti civili nel processo. "E' indispensabile che governo e presidente del consiglio rompano il silenzio e si assumano le responsabilità di dare una prospettiva certa alle produzioni e ai lavoratori dell'intero settore siderurgico".

"La sentenza - dicono - riconosce che i diritti costituzionalmente tutelati come la salute e il lavoro, non possono essere piegati a logiche di puro profitto. Adesso occorre evitare che la confisca degli impianti, arrivare ad una rapida transizione degli assetti societari previsti dagli accordi tra Invitalia e ArcelorMittal".

 

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